martedì 24 marzo 2009

Una torta di mele



Dopo un anticipo di primavera, oggi sembra di essere di nuovo in pieno inverno. Pioviggina, fa freddo, io sono qui a scrivere questo post con la lampada della scrivania accesa. A me questo tempo non dà affatto fastidio e oggi, in particolare, sono talmente di buon umore che potrebbe anche grandinare e non me ne curerei.

Questo fine settimana io e la Spia lo abbiamo passato a Milano. A me piace moltissimo andare a Milano(con grande sconcerto ed incredulità di quanti sanno che sono nata e cresciuta a Roma, città per me invivibile). Sarà anche che mi piace andare a trovare mia suocera (ooooh di sorpresa proveniente dagli astanti), la sorella della Spia e la nostra nipotina Martina, ma ogni volta in quella città mi trovo bene e mi dispiace sempre un po' andarmene.

Siamo andati soprattutto perché dovevamo partecipare come pubblico alla puntata di domenica di Che tempo che fa, il programma di Fabio Fazio. Peccato che gli ospiti fossero tra i meno interessanti di tutta l'intera serie del 2008-2009 (per non dire indigesti... mi riferisco soprattutto a quel decorticato di Lapo Elkann, davvero imbarazzante), ma anche solo vedere dal vivo la mitica Luciana Littizzetto è stato un grandissimo piacere.

Ciò che più mi ha colpito è stata l'atmosfera rilassata e disinvolta che regnava nello studio. La puntata era in diretta e mi aspettavo che si respirasse la tensione e il nervosismo che un evento del genere dovrebbe generare. Invece, a non più di cinque minuti dall'inizio, Fabio Fazio chiacchierava amabilmente con il pubblico, scherzava con gli autori ed il regista, rompeva il ghiaccio con gli ospiti. Non ho visto traccia di divismo né di quell'atteggiamento insopportabile tipico di molta gente dello spettacolo, che fa un programma di intrattenimento (magari anche intelligente come quasi sempre è quello di Fazio, più spesso assolutamente no) e si sente importante e necessario come fosse un medecin sans frontières che opera i bambini feriti dalle bombe nelle zone di guerra.

Purtroppo, come era prevedibile, era assolutamente vietato scattare foto. Non che mi sia dispiaciuto (non avrei tenuto affatto a fotografare il chiorbone biondo di Lapo Elkann o i suoi pantaloni bianchi alla caviglia); ma mi sarebbe piaciuto riprendere il quasi-volo acrobatico che Maurizio Milani ha fatto entrando in studio (io lo adoro! è un matto vero) e un bel tabellone all'uscita, con una grande foto di Fabrizio De André e le firme dei partecipanti alla puntata speciale che gli è stata dedicata un paio di mesi fa. Mi ha fatto una grande tenerezza.

Detto ciò, l'argomento di questo post è però una bella torta di mele che ho fatto giovedì scorso e che è stata ampiamente apprezzata (sia a Firenze sia a Milano, dove ne ho portato gli avanzi, per farla assaggiare alla mamma della Spia, fonte per me di grande ispirazione e conoscenza dal punto di vista gastronomico).

E' una ricetta di Tessa Kiros (di cui ho parlato qualche post fa), tratta da un suo bellissimo libro, Ricordi in cucina.

Premetto che, ahimé, non sono mai stata uno di quei fortunati mortali che sono sinceramente e realmente appagati da un bel frutto, o considerano un bel piatto di broccoli al vapore appena appena conditi con del buon olio di oliva qualcosa da regalarsi perché ci si è comportati bene.

No, io sono più il genere di individuo che per coccolarsi si fa una teglia di brownies e per congratularsi con se stesso si prepara un'arista di maiale con purée di patate, tanto per dare un'idea.

Dopo quasi un mese di dieta, avevo proprio voglia di spignattare in cucina. Volevo fare una torta che non mi inducesse eccessivamente in tentazione, ma della quale potessi mangiare qualche briciola sentendomi gratificata e non troppo in colpa, e mi sono ricordata di questa bella ricetta...

Eccola qui:

150 gr. zucchero (io ho usato quello di canna)
150 gr. di burro, ammorbidito
2 uova
120 gr. di farina 0
1 cucchiaino di bicarbonato di soda
1 cucchiaino di lievito per dolci
1/2 cucchiaino di cardamomo in polvere
1/2 cucchiaino di cannella in polvere (a volte ho omesso il cardamomo e raddoppiato la dose di cannella)
400 gr. di mele, sbucciate e grattugiate (ho usato delle annurche, 3)
60 gr. di noci, leggermente tostate e grossolanamente tagliate (stavolta ho usato la stessa quantità di mandorle, perché non avevo noci in casa)
1 cucchiaino di estratto di vaniglia

per il topping o copertura:

60 gr. di noci, tagliate (anche qui, ho usato mandorle)
60 gr. di zucchero scuro
1 cucchiaino di cannella in polvere

Accendete il forno a 180°, imburrate e infarinate uno stampo da plum cake 30 x 11 cm.

Montate il burro con lo zucchero, aggiungete un uovo alla volta, sempre continuando a montare.

Setacciate la farina, il bicarbonato, il lievito, il cardamomo, la cannella e un pizzico di sale e aggiungete il tutto al burro e allo zucchero montati.

Unite poi le mele grattugiate, le noci (o mandorle) e la vaniglia e mescolate accuratamente perché il tutto sia ben amalgamato.

Trasferite il composto nella teglia, quindi cospargete di zucchero, cannella e noci (o mandorle) per il topping. Devo confessare che questa volta me ne sono dimenticata. Quindi ho atteso che fossero trascorsi più o meno 30 minuti dal momento in cui avevo messo la torta in forno, l'ho tirata fuori e il più rapidamente possibile l'ho cosparsa con il topping, per poi rinfilarla velocemente dentro. Il risultato è stato, ovviamente, che, invece di essere ben aderente alla torta, il topping si è un po' staccato, ma le persone che si sono mangiate la torta sembra abbiano apprezzato la possibilità di raccattare col dito tutti i pezzetti di mandorle e zucchero caramellato sparpagliati nel piatto.

Cuocete per circa 45 minuti. La torta sarà bella brunita, non abbiate paura. Se però vi sembra che, dopo una mezz'oretta, la superficie sia già molto scura, copritela con un po' di alluminio.

La Kiros suggerisce di servire questa torta con gelato alla vaniglia o con panna montata. Anche nature vi assicuro che questo apple bread (così lo chiama lei) è davvero buono.

Ora dovrò cominciare a documentarmi un po' sulla cucina dietetica... Non voglio rinunciare alla possibilità di mangiare qualcosa di dolce ogni tanto, fermo restando che sono contrarissima alle versioni light di dolci altrimenti calorici. Hanno tutti il sapore amaro del 'vorrei ma non posso'. A quel punto allora è meglio rinunciare e struggersi. Preferirei di gran lunga dolci che nascono naturalmente meno ricchi di calorie. Ce ne saranno? Vi saprò dire...

Un'ultima cosa: sono stata molto contenta di poter usare per la prima volta, preparando questa torta, l'essenza di vaniglia che ho fatto da me.

Era parecchio tempo che mi baloccavo con l'idea di poter creare una versione casalinga di questo elisir costosissimo e di difficile reperibilità (almeno qui a Firenze; ho girato decine di negozi inutilmente: tutti si ostinavano a volermi dare lo zucchero vanigliato della Bertolini) e qualche mese fa ho trovato ciò che cercavo nel blog della simpatica Clotilde Dusoulier, Chocolate & Zucchini. Ecco qui il link al post in cui ne parla (il sito è sia in francese sia in inglese).

L'intero processo (semplicissimo, come vedrete) mi ha dato una soddisfazione assurda, e non manca giorno che io non apra lo sportello della credenza nella quale il mio estratto di vaniglia riposa al buio. Mi piace osservare i baccelli che galleggiano nel liquore ambrato: do un'agitatina al barattolo, a volte lo apro e vi infilo il naso dentro per sentire l'aroma che si sprigiona.

Lo so, sono una maniaca. Abbiate pazienza con me. Molta pazienza.


Tessa Kiros, Ricordi in cucina, Luxury Books, Milano 2007.

venerdì 20 marzo 2009

La ballata di Iza di Magda Szabó

Una scoperta recente, per me, questa autrice ungherese che per anni è vissuta esule in patria, che ha scelto di abbandonare la carriera letteraria per protesta contro il regime comunista ma è rimasta nel suo paese svolgendo il lavoro di insegnante.

Quella di Iza è una di quelle figure femminili in cui ogni donna si identifica, almeno in parte, almeno in una qualche fase della propria vita.

La sua inesausta volontà di riparare a un passato che ha umiliato e ferito lei e la sua famiglia, il suo ansioso tentativo di creare un presente immacolato e perfetto per le persone che ama senza riuscire mai a raggiungerle davvero, senza essere mai capace di amarle per quello che realmente sono e fare sentire a queste persone il suo amore e la sua dedizione, la rendono un personaggio algido e insieme patetico.

Un racconto triste e inconsolabile sulla solitudine umana, scritto splendidamente da un'autrice capace di scandagliare con la precisione chirurgica di un bisturi i viluppi aggrovigliati e ambivalenti di sentimenti che ci legano ai nostri genitori e agli altri.

Da evitare se si è depressi.

sabato 14 marzo 2009

Pizza, diete e geremiadi


Chi mi conosce sa che da poco più di una settimana ho intrapreso una dieta e sono diventata una piaga d'Egitto. Appena sentono la mia voce al telefono, queste anime pie che mi sopportano roteano gli occhi al cielo e si predispongono ad impegnarsi in un difficile esercizio di pazienza: ascoltare le mie geremiadi e i miei lamenti senza farsi venire la tentazione di mandarmi a quel paese (probabilmente ci riescono così bene perché in realtà appoggiano la cornetta da qualche parte e intanto si fanno i fatti loro, avvicinandosi di quando in quando e pronunciando un 'eh, certo, hai ragione' o un 'eh, che ci vuoi fare?' con tono comprensivo e partecipe).

In realtà questa dieta non è nemmeno delle peggiori.
È l'idea della costrizione che mi deprime tanto, il non poter associare i cibi seguendo esclusivamente l'umore o la voglia del momento, la sgradevole sensazione di vedere messa in dubbio una mia importante libertà che mi fa diventare insofferente e che mi pesa di più.
Ovviamente, come quasi tutte le diete, immagino, quella che seguo esclude la possibilità seppur remotissima di infilarsi in bocca ogni tanto anche una sola briciola di un qualunque dolce, ma le quantità di cibo permesse sono relativamente umane e, a patto di rassegnarsi al fatto che per tutta la giornata i condimenti sono limitati a due miseri cucchiai di olio (burro neanche a parlarne), non fa sentire eccessivamente deprivati. Certo, mangiare quasi scondito è cosa grama e triste, ma ci si può arrangiare. Esistono tragedie ben peggiori.

Dicevo lo scorso post della nostra vita da emigranti. Non ho mai sofferto particolarmente della lontananza dal mio paese (dalle persone sì) e non ho
mai, nella maniera più assoluta, albergato sentimenti neanche lontanamente patriottici (anche solo la parola un po' mi fa ridere), soprattutto in campo gastronomico. Non appartengo a quella categoria di italiani che all'estero smaniano per un piatto di spaghetti e giudicano la propria cucina la migliore esistente al mondo. Anzi, sono sempre molto attratta e curiosa delle tradizioni culinarie altrui. Dicevo tempo fa che in fondo ho imparato a cucinare con i libri di Nigella Lawson, con grande sconcerto della mia mamma, che è stata assai contenta di sapere che finalmente avevo deciso di comportarmi da 'donna', ma al tempo stesso non poteva nascondermi la perplessità che le derivava dal sapere che il mio mèntore, in questa meritoria impresa, era stata una cuoca inglese.

Una cosa però mi mancava molto all'estero: la mozzarella per la pizza. Quello che in genere si trova e che impunemente viene definito mozzarella cheese di solito è un panetto dal colore indefinito ed inquietante tendente al giallastro, che quando si fonde forma uno strato unico, compatto e gommoso ed ha un sapore che nel migliore dei casi è quasi inesistente, e nel peggiore mi ha sempre ricordato, per quegli strani fenomeni sinestetici che spero accadano anche ad altre persone e non solo a me, l'odore di un paio di scarpe da ginnastica molto usate (da un uomo).

La pizza è forse uno dei miei cibi preferiti. Se dovessi scegliere un unico alimento di cui nutrirmi, probabilmente è quello che sceglierei. Quando ero più giovane e più avventurosa (ed anche più tamarra forse, parlando di gusti, non solo gastronomici) mi attraevano quelle fantasiose, con ingredienti associati in modo improbabile e a volte criminale. Ho mangiato (e perfettamente digerito, il che ha dell'incredibile) pizze che ora non riuscirei nemmeno a guardare in fotografia senza un brivido di sconcerto, trovandole per di più buone e appetitose.

Ora che la vecchiaia avanza, mi illudo di essere finalmente approdata su lidi più sobri e trovo che la migliore in assoluto sia quella bianca che fa la mia mamma, cosparsa di grani di sale grosso e aghi di rosmarino, in genere l'ultima che inforna dopo una serie di suoi classici cavalli di battaglia (fiori di zucca e speck; provola, cipolla e olive nere; pomodori e alici) e che quindi, essendo il forno caldissimo, viene quasi sempre croccante e a tratti quasi bruciacchiata. Una delizia assoluta.

Seconda in graduatoria, la margherita. Quella che scelgo in ogni pizzeria dove mangio per la prima volta. Com'è difficile trovare una buona pizza in un ristorante. A Roma è in genere sottilissima e molliccia, e i pizzaioli riescono nell'incredibile impresa di cuocerla in modo che sia al tempo stesso cruda e bruciata, cosparsa di passata di pomodoro spesso troppo acida e sbrodosa, con una mozzarella sierosa e insapore. Un capolavoro, nel suo genere.

In questa dieta che sto seguendo è prevista la pizza. Ovviamente senza mozzarella e senza nessun tipo di carne o salumi, ma c'è. Quando ho letto che ne potevo mangiare 250 grammi mi sono detta "vedrai, sarà un caghino che nemmeno si vede". Invece grande è stata la mia sorpresa quando, bilancia alla mano, ho depositato sul mio piatto una dignitosissima sleppa di fumante pizza al pomodoro e origano, decisamente più grande delle porzioni che in genere consumo (ma con mozzarella).

La ricetta che seguo io per la preparazione (di solito domenicale) della pizza è tratta da un libretto che fa parte di una serie molto nota, The Australian Women's Weekly, il più famoso e longevo settimanale femminile australiano. Il libretto in questione si intitola Muffins, Scones and Breads ed è una miniera di ricette preziosa per chi, come me, è un carboidrati-dipendente.

All'inizio ho seguito pedissequamente la procedura, poi mi sono smaliziata e sono giunta ad una versione un po' più semplificata, che per me funziona alla perfezione.

Ecco le dosi per una pizza grande quanto una teglia, una leccarda, per la precisione, di quelle che sono in dotazione con qualunque forno.

375 gr. di farina
1 cucchiaino di sale
1 cucchiaino di zucchero
2 cucchiaini di lievito istantaneo
2 cucchiai di olio
250 ml di acqua tiepida

Io sbatto tutti gli ingredienti, tranne l'acqua, nell'ordine in cui li ho scritti, nella coppa del robot da cucina. Col motore acceso, verso a filo l'acqua. Come quello del pane, anche l'impasto della pizza risente delle condizioni atmosferiche di umidità e temperatura, e quindi a volte potrà volerci un cucchiaio in più di acqua o di farina, ma quasi sempre queste dosi sono perfette.

Quando gli ingredienti si agglomerano e cominciano a formare una palla, estraggo la massa informe e la lavoro su un piano infarinato. La pasta della pizza è piacevolissima da manipolare: è elastica, morbida, appena appena appiccicosa (ma non deve restarvi sulle mani), cedevole e leggera. Quando, fattane una palla, ne premete la superficie
con un dito e l'orma di quest'ultimo viene presto riassorbita dall'impasto, è pronta.

Come per il pane, ungete una terrina con dell'olio di oliva, metteteci dentro l'impasto della pizza, coprite con della pellicola trasparente, avvolgete il tutto con un canovaccio asciutto e mettete a riposare e a lievitare al riparo dalle correnti d'aria per un'ora.

Dopo circa una mezz'oretta, accendete il forno. La pizza ha bisogno di temperature infernali. Io preriscaldo il mio al massimo della temperatura (250°) e ci vuole una buona mezz'ora perché essa venga raggiunta.

Passata l'ora, recuperate il vostro impasto e stendetelo direttamente sulla leccarda unta di olio. Non sarà facile, e penserete che coprire l'intera superficie con quella massa scivolosa ed elastica che sembra dotata di vita propria sia un'impresa al di sopra delle vostre possibilità. Abbiate fiducia, ci riuscirete.

Se volete una pizza piuttosto bassa e croccante, come piace a me, non dovrete far altro che infilare la teglia in forno e abbassare immediatamente la temperatura a 220°. Se invece volete una pizza più alta, dopo averla stesa sulla teglia copritela con un canovaccio e lasciatela lievitare ancora per qualche minuto, quindi proseguite come sopra.

Quando la parte esterna comincia a dorarsi, tirate fuori la teglia, versatevi sopra il pomodoro e rimettete in forno.

Per quel che riguarda il sugo, io in genere uso quello che fa mia suocera, grande cuoca e invasatrice di splendide pummarole che crea in estate e poi generosamente distribuisce a figli (e nuora). Si tratta di una classica conserva di pomodoro fresco e basilico, profumatissima e leggera. Ma se siete pigri e non avete una mamma o una suocera sì talentuosa e altruista, immagino possiate usare anche una conserva di quelle acquistate (puntate alla qualità, però,
c'è in giro roba davvero immangiabile; una buona conserva costa comunque poco e vale la pena di spendere 20 centesimi in più per acquistarla), magari 'tagliata' con qualche pomodoro fresco che avrete scottato in padella (se siete in estate) e poi passato al passaverdure per eliminare semi e bucce. Non dimenticatevi di aggiungere qualche foglia di basilico o origano secco, a vostro piacimento.

Ci vogliono circa 25 minuti perché la pizza sia pronta. Quando ne mancano 3 o 4, tirate fuori un'altra volta la teglia dal forno e distribuite sulla superficie la mozzarella per le pizza che avrete grattato con la grattugia per il formaggio. Rimettete il tutto in forno, e aspettate che la mozzarella si sia sciolta.

Ecco tutto.

Ovviamente con i condimenti potrete sbizzarrirvi: da tutti i tipi di salumi immaginabili ad ogni genere di verdura, per non parlare dei formaggi,
quasi qualunque cosa è ottima sopra la pizza (ho visto qualcuno metterci anche del pollo al curry ed assicurarmi che era splendida...). Un cibo di rara modestia e bontà.

Enjoy!

domenica 1 marzo 2009

Uno sformato di spinaci e la nostalgia della mamma


Lo scorso giugno sono tornata in Italia insieme alla Spia dopo 8 anni di vita all'estero.

Non vi tedierò con il resoconto dell'incredibile sequela di sfighe pazzesche che si sono abbattute su di noi (la cosa ha del paranormale!) praticamente appena messo piede sul suolo natìo, né del quotidiano clash of civilisation che bene o male, non essendo più abituati a vivere in Italia, abbiamo sperimentato (e continuiamo a sperimentare) sulla nostra pelle. Molte volte non è una bella esperienza; in alcune occasioni, però, ne riconosciamo il lato comico, che stiamo imparando ad apprezzare (in genere dopo qualche giorno!); d'altra parte, ad un lavoro di quotidiano adattamento ad un ambiente esterno che non sentiamo 'nostro' siamo stati abituati dalla condizione di 'emigranti' (benché di lusso); era inevitabile che, dopo tutti questi anni lontani dall'Italia, dovessimo essere sottoposti ad un processo di 'riadattamento' proprio al nostro paese natale.

Tutta questa premessa per dire che, benché durante quegli anni all'estero il contatto con le nostre famiglie non sia mai venuto meno, è avvenuto per lo più (come è immaginabile) per telefono o per email e de visu solo più o meno una volta all'anno, quando tornavamo in vacanza nel Belpaese.

Non so quanto questa lontananza abbia inciso sulla psiche della mia dolce metà (è un tipino riservato). Quanto a me, ogni settimana telefonavo alla mia mamma.

Di frequente, le nostre telefonate si trasformavano in lezioni di cucina: la mia mamma è una grandissima cuoca, anche se ancora inspiegabilmente insicura delle sue capacità.

Quando i miei si sono sposati, secondo la leggenda, non sapeva bollire un uovo. Mio padre, abituato ai manicaretti sostanziosi ed abbondanti somministratigli prima dalla madre, poi dalle premurose sorelle, è corso subito ai ripari e ha pensato di 'addestrarla' e di farne la cuoca che poi è diventata (non oso immaginare i metodi pedagogici e le critiche che la poveretta avrà dovuto subire!). Le ha insegnato tutte le ricette che la mia nonna paterna preparava per il suo esigentissimo marito, per lo più ricette toscane, perché entrambi i miei nonni paterni lo erano (lei lucchese, lui pisano, abbinamento eccentrico ed improbabile, dato l'odio secolare che divide le due città, ma che durò fino alla morte di lui) e che mio padre conosceva assai bene essendo stato (figlio minore) spesso aiutante della venerata madre tra i fornelli.

Sono dunque cresciuta a colpi di bollito misto, arista di maiale, salsicce con fagioli all'uccelletta, castagnaccio... tutto il repertorio.

Potete immaginare la sensazione di familiarità che ho potuto provare quando, per vie traverse e inaspettate, mi sono imbattuta in una cuoca molto particolare, Tessa Kiros, e nel suo primo libro, Twelve. A Tuscan Cookbook, tuttora inedito in Italia.

La Kiros all'inizio se lo è autoprodotta, aiutata da amici, l'ha fatto stampare e l'ha presentato a fiere e rassegne, finché la Murdoch non le ha proposto un contratto.

Si tratta, come si evince dal titolo, di un ricettario toscano, strutturato secondo i diversi mesi dell'anno: per ogni mese c'è una serie di ricette, dall'antipasto al dolce, che per la maggior parte utilizzano prodotti stagionali, che sono al massimo della loro bontà in quel determinato mese.

Il principio mi sembra dei più sensati dal punto di vista gastronomico e nutrizionale e anche da quello etico, perché promuove un modo di fare cucina e di alimentarsi in sintonia con i ritmi naturali, e tenta di svincolarsi da quelle storture generate in decenni di consumismo sfrenato e pubblicità idiota, che ci hanno indotti a desiderare di mangiare fragole in gennaio e castagne in luglio, ingozzandoci di prodotti nel migliore dei casi nati e curati in serra, e quindi spesso pressoché inodori e insapori, e nel peggiore provenienti da paesi lontanissimi e fatti arrivare sulle nostre tavole inquinando mezzo mondo.

Tessa Kiros è una donna molto particolare, con un viso intenso e singolare ed uno stile tutto suo che la fa assomigliare un po' ad Amélie Poulain. Di padre greco-cipriota e madre finlandese, è nata a Londra e poi si è traferita con la sua famiglia in Sudafrica, da dove è partita a diciotto anni per girare il mondo. Ha lavorato come cuoca in Inghilterra, in Messico, in Australia, poi in Grecia. Infine, è approdata in Italia, si è iscritta ad un corso di cucina e si è innamorata del figlio della sua insegnante, Giovanni. Ora vive vicino Siena, con suo marito e due splendide bambine, le cui foto e i cui disegni, spesso spiritosi e pieni di humour e fantasia, rallegrano i suoi bellissimi libri.

Tra le ricette di Twelve, una di quelle cui sono più affezionata è sicuramente quella dello sformato di spinaci. Quando l'ho cucinato per la prima volta, appena infilata in bocca una forchettata, ho ritrovato l'esatto, identico gusto dello sformato che ho mangiato infinite volte preparato dalle mani della mia mamma.

Ricordo ancora la scena: nella cucina della nostra casa a Lusaka, dalla finestra della quale era possibile vedere le cime altissime e fluttuanti dei misteriosi e maestosi gigli africani, quel boccone che mi riportava magicamente alla mia vita in Italia, ai sapori e agli odori in mezzo ai quali sono cresciuta, mi fece l'effetto di una piccola bomba emotiva e mi ridusse ad un essere gemebondo, con il mento tremolante e la voglia di urlare "Mammaaaaaaa!".

Ecco dunque a voi questa ricetta, facilissima e sana: con una fetta di pane fresco e un'insalata è un pranzo imbattibile o una cena leggera.


per 3-4 persone:

per la besciamella:

250 ml. di latte
25 gr. di burro
30 gr. di farina
noce moscata grattugiata al momento

600 gr. di spinaci, freschi, lavati e privati dei gambi (io uso anche quelli surgelati, a cubetto, ma non chiedetemi quanti, forse 6-8)
25 gr. di burro
1 spicchio d'aglio
2 uova
50 gr. di parmigiano grattugiato
noce moscata
pane grattato

Cominciate con gli spinaci. Fateli bollire in acqua salata per circa 5 minuti (se usate i cubetti basta cuocerli a vapore, in un cestello, fino a quando non siano morbidi). Scolateli e togliete tutta l'acqua che potete, magari aiutandovi con una paletta o un cucchiaio di legno con cui li schiaccerete contro le pareti del colapasta.
Lasciateli lì mentre preparate la besciamella.
Non abbiate paura di farla, non è difficile. Ci sono infinite ricette e trucchi che troverete dappertutto, su libri e siti. Io l'ho sempre fatta così e non mi è mai venuto un grumo.

Mettete il burro in un pentolino (io ne uso uno di acciaio, perché mi piace utilizzare una piccola frusta e non mi va di rovinare il fondo di uno antiaderente) e fatelo sciogliere
sul fuoco. Solo quando è del tutto sciolto aggiungete la farina e mescolate. A questo punto aggiungete il latte. Qui le scuole di pensiero son due: chi dice che il latte va messo caldo, chi che il procedimento è inverso, cioè bisogna mettere nel latte caldo il burro e la farina (la mia mamma la fa così), chi, infine, che per evitare i grumi bisogna mettere il latte freddo nella farina e nel burro caldi (Allan Bay, per esempio). Io seguo questa scuola, ma solo perché funziona. Immagino funzionino anche le altre, altrimenti non ci sarebbe gente che le sostiene. Comunque sia, aggiungete il latte e con la frusta mescolate e mescolate. Io ho provato ad aggiungere poco latte per volta o tutto in una volta: a dire il vero non è cambiato molto il risultato. Quello che conta è mescolare sempre, tenere il fuoco medio e far cuocere fino a quando il sapore di farina cruda sia andato via. Una decina di minuti dovrebbero bastare. Io condisco la besciamella nel momento in cui spengo il fuoco: un po' di sale, pepe e abbondante noce moscata. Sarà abbastanza densa, perché serve per dare consistenza allo sformato.
Mettetela da parte e dedicatevi di nuovo agli spinaci.

Toglieteli dal colapasta, strizzate tutta quella poca acqua che gli avrete lasciato e sminuzzateli con un coltello. In una padella antiaderente fate sciogliere il burro, aggiungetevi l'aglio (schiacciato con uno spremiaglio o intero se volete solo suggerirne l'idea, così poi potete rimuoverlo) e quando le vostre narici saranno raggiunte da uno degli odori più celestiali al mondo, quello, appunto, dell'aglio fatto rosolare nel burro, aggiungete gli spinaci. Fateli rosolare fino a quando non avranno perso l'acquetta, quindi trasferiteli in una ciotola abbastanza grande e lasciateli un po' raffreddare. Aggiungete poi la besciamella, le uova, il parmigiano e un'altra grattata di noce moscata. Sarebbe meglio assaggiare per vedere se il tutto abbia bisogno di ulteriore sale.

Prendete una tortiera, di quelle di ceramica se volete, ungetela con del burro, cospargetene il fondo e i lati di pangrattato e poi versateci il composto di spinaci. Spolverate ancora con pangrattato (la mia mamma aggiunge anche i cosiddetti 'fiocchetti di burro', ma io non lo trovo necessario; a volte gratto altro parmigiano) e mettete nel forno preriscaldato a 180 gradi per 30-40 minuti. La superficie deve essere dorata e con una leggera crosticina e lo sformato deve avere consistenza, non deve essere molliccio.

Mangiate e pensate con gratitudine alla vostra mamma che vi ha preparato tante volte un piatto caldo o, se siete figli di una madre degenere che vi somministrava quotidiane razioni di sofficini o bastoncini di pesce findus, complimentatevi con voi stessi: esser capaci di prendersi cura di sé cucinandosi un pasto sano, è risaputo, è sintomo di maturità ed equilibrio!


Tessa Kiros, Twelve,
Murdoch Books, Sydne, 2003.