venerdì 29 maggio 2009

Del mantenere le promesse: una torta rustica e una mousse al cioccolato da paura

(Una premessa doverosa. Mi scuso per la qualità delle foto che pubblico, in generale, e in questa occasione in particolare. Sono pessime. Non ho pazienza, non ci capisco nulla e mi concentro molto più su ciò che scrivo che su ciò che fotografo. Forse migliorerò, in futuro. Forse...)

Avevo accennato, tre post fa, alla torta con la feta e le erbe e alla mousse al cioccolato e cannella che ho preparato per la famosa sera del GAS.

Ecco allora le due ricette, la prima tratta da Cakes maison, di Ilona Chovancova (pubblicato in Italia da Guido Tommasi): preziosa miniera di idee e di abbinamenti interessanti (la torta con le pere disidratate, il cioccolato e le noci, per esempio, è una roba spaziale).

180 gr. di farina
3 uova
10 cl di latte
10 cl di olio (d'oliva nell'originale, io ho usato dell'olio di girasole, ma non ditelo a mia madre)
100 gr. di groviera grattugiato
200 gr. di feta
erbette fresche (io uso sempre la menta, il basilico, il prezzemolo, l'erba cipollina, il timo, la maggiorana)
2 cucchiaini di lievito

Preriscaldate il forno a 180 gradi.
Tagliate la feta a dadi e tritate le erbette senza dannarvi troppo.

Sbattete appena le uova con l'olio e il latte. Aggiungete la farina, il groviera, la feta e le erbette. Sale e pepe. Infine, il lievito.

Versate il composto in una teglia da plumcake imburrata e infarinata e infilatela nel forno. Tiratela fuori dopo circa 50 minuti.


Ed ora passiamo alla mousse. Due parole vanno spese per questa robina.
E' divina. E semplicissima.
E' della mia Nigellona, e la trovate in Nigella Bites. Se avete un frullatore sarà un gioco da ragazzi.
Le dosi sono inusitatamente modeste, per essere una ricetta di Nigella. E difatti vi confesso che mi sono chiesta spesso il motivo di tanta morigeratezza. Comunque, niente vi impedisce di giocare con le quantità. Io lo faccio regolarmente. La mousse si conserva ottimamente (ammesso che riesca ad avanzarne un po', a me non è mai successo).

per 8 persone:

175 gr. cioccolata fondente (io spesso arrotondo e uso 200 gr.)
150 ml panna
100 ml latte
1/2 cucchiaino di estratto di vaniglia
1/2 cucchiaino di cannella (Nigellona prescrive 1/4 di cucchiaino di allspice, o pimento)
1 uovo

Grattugiate bene la cioccolata e mettetela nel frullatore.

Scaldate il latte e la panna fino al punto di bollore. Togliete subito il pentolino dal fuoco, aggiungete la vaniglia e la cannella e versate il tutto nella coppa del frullatore. Aspettate 30 secondi. Azionatelo per altri 30 secondi. Rompete l'uovo e versatelo nel frullatore. Azionate di nuovo per 45 secondi.

Versate la mousse in 8 tazzine da caffè e mettete in frigo per qualche ora (6?).
Sarà setosa e vellutata e voi vi sentirete un genio della cucina.

Enjoy!


Julie & Julia di Julie Powell


Devo ammettere che mi aspettavo qualcosa di più da questo libro, la cui lettura, nonostante lo stile fin troppo brioso della Powell, mi è risultata spesso di una noia mortale.

Sarà che appunto l'autrice mi è sembrata anche troppo preoccupata di mostrarsi brillante e divertente (e ha spesso semplicemente confuso ciò che per lei corrisponde ad uno stile frizzante con una tendenza a volte esagerata e non necessaria alla volgarità gratuita), sarà soprattutto che mi aspettavo di trovare più Julia Child che Julie Powell nel libro, e sono stata, da questo punto di vista, delusa, tanto che il titolo, per me, avrebbe potuto benissimo essere 'Julie & Julie' oppure 'Julie (&, Sometimes, Very Little of Julia)'.

Se infatti trovo il personaggio di Julia Child di estremo interesse, con il suo personalissimo mix di esuberanza, energia positiva e volontà e la sua vena di folle eccentricità (a Parigi, dove il marito era stato mandato per lavoro, decise a 37 anni di imparare a cucinare e diventò quel che diventò), non posso dire altrettanto di Julie Powell, e me ne dispiaccio.

Non mi ha stupita il fatto che, proprio a poche pagine dalla fine, si racconti che l'allora 91enne Child, durante un'intervista, espresse tutto il suo dissenso circa 'il progetto' della Powell (che consisteva nella realizzazione, in un anno, di tutte le 524 ricette contenute nel celeberrimo Mastering the Art of French Cooking) e definì quest'ultima 'una villana rifatta e sboccata priva di serietà', o qualcosa del genere (non che ne volesse dir male, commenterebbe Woody Allen).

Tengo a precisare che sono molto contenta che la Powell abbia trovato, grazie a Julia Child e al suo straordinario esempio di vitalità ed entusiasmo, e grazie a questa folle idea di 'cucinare' un suo intero libro nell'arco di un anno, un motivo per abbandonare il suo squallido lavoro che la rendeva una donna frustrata e insoddisfatta e che, contestualmente, abbia anche raggiunto l'invidiabile risultato di fare soldi 'scrivendo in pigiama a Long Island City'. Mi spingo a dire che mi auguro abbia trovato anche qualcosa di più: un po' di felicità, e una maggiore autostima.

Ma se avesse evitato di raccontarlo a tutto il mondo con un libro come questo, ne sarei stata ancora più contenta.


Julie Powell, Julie & Julia. My Year of Cooking Dangerously, Back Bay Books, New York 2006.


mercoledì 27 maggio 2009

To the Lighthouse di Virginia Woolf


E' difficile condensare in poche righe il caleidoscopio di emozioni, riflessioni, intuizioni, illuminazioni che si sono succedute dentro di me durante la rilettura di questo romanzo di Virginia Woolf, da sempre considerato il più autobiografico ed uno dei suoi capolavori, e a ragione.

Riflettendoci dopo averlo completato, la scrittrice si rese conto (ne parlò nel diario) che, scrivendolo, aveva fatto ciò che gli analisti aiutano i propri pazienti a fare: questo libro è infatti una stupefacente opera di investigazione emotiva del passato, nel tentativo di liberarsi dell'ossessionante presenza dei fantasmi dei propri genitori e allo stesso tempo un tributo amorevole, benché complesso e ambivalente, a queste due figure per molti versi eccezionali e di straordinario fascino.

Mr. e Mrs. Ramsay sono infatti due appassionati e puntuali ritratti di Leslie Stephen e Julia Jackson (padre e madre della Woolf) e la stessa Virginia si rifrange in alcune figure del libro: Cam, James, Lily.

Il romanzo è anche una commovente rievocazione delle lunghe e incantate estati a St. Ives, cittadina della Cornovaglia dove, per tutta la sua infanzia, la scrittrice trascorse con la sua famiglia le vacanze, il luogo che per lei rimase il più bello al mondo e in cui, come affermò a più riprese in seguito, si era sentita più felice e più appagata.

Una riflessione intensa e commovente sull'essere figli e l'essere genitori, sull'impresa difficile (a volte impossibile) ma sempre necessaria di fare i conti con la loro eredità, nel tentativo spietato di distinguere il grano dalla pula, la realtà dalle proprie proiezioni e rinascere, liberati, alla vera vita adulta e alla propria creatività.

Illuminanti, al riguardo, le parti dedicate al personaggio di Lily Briscoe, la pittrice alla quale è affidato il compito di esprimere gran parte delle perplessità, dei tormenti, delle estasi provate dalla Woolf nel suo lungo viaggio alla scoperta della propria personalissima voce artistica.

Un capolavoro.

(Ringrazio Titti che, invitandomi a parlarne ieri sera alla riunione del suo gruppo di lettura, mi ha dato la possibilità, la scusa, il pretesto per rileggerlo, per l'ennesima volta).

venerdì 22 maggio 2009

Del vincere i propri pregiudizi, della caciara, o di una tarte tatin al pomodoro


Se c'è una cosa che davvero mi piace è avere per casa gente che mi piace (ma va? Lapalisse mi fa un baffo).

Sono stata una fanciulla selvatica e ombrosa, che rifuggiva le comitive, i gruppi, le adunate chiassose, le feste piene di imbucati mai visti né sentiti, nelle quali invece sguazzavano pienamente a loro agio molti dei miei (pochi) amici. Anche adesso, tra tutte queste possibilità e una cena con 6 persone che, sedute intorno a un tavolo, con Miles Davis di sottofondo, si guardano negli occhi e hanno il modo di scambiarsi opinioni e storie (e anche semplici cazzate, a volte le mie preferite) senza dover urlare per farsi sentire e senza interferire con altre cinque conversazioni diverse, preferisco senz'altro 'la seconda che hai detto'.

Un duro apprendistato sociale, l'essere stata costretta, per quasi dieci anni, a passare una buona parte del mio tempo frequentando feste da 300 persone (con molte delle quali, avendo potuto scegliere, non sarei andata nemmeno a prendere un caffè al bar, e pochissime delle quali mi ispiravano la benché minima curiosità), mi ha spogliato in parte di una timidezza al limite del patologico, che in situazioni simili mi condannava in passato a un silenzio minerale o, per reazione, ad una logorrea compulsiva altrettanto patologica (entrambi i fenomeni essendo accompagnati da furiosi attacchi di colite), e quindi il contatto con le persone, soprattutto se nuove, e anche se numerose, non mi spaventa più come un tempo.

Ultimamente, sto dunque cominciando a vincere una serie di pregiudizi riguardo ai 'gruppi': quando essi siano formati da persone che condividono idee e gusti simili, una comune concezione della decenza, dell'educazione e del rispetto reciproco, e magari anche un bel progetto, io, nei gruppi, vi dirò, mi ci butto a pesce (anacoluto manzoniano che lèvate!).
Dice: eh, grazie, e dove si trovano 'sti gruppi? Si trovano, rispondo io. Bisogna cercarli, però.

Qualche sera fa, io e il compagno della mia vita abbiamo ospitato in casa nostra una piccola folla eterogenea di persone con le quali stiamo dando vita ad un GAS , un gruppo d'acquisto solidale, vale a dire un insieme di individui che cercano di svincolarsi da certo consumismo inconsapevole e drogato, e scelgono invece di acquistare e consumare il più possibile secondo coscienza, privilegiando i rapporti (umani, prima che economici) con piccoli produttori locali, in modo da incidere il meno possibile sul pianeta con le proprie abitudini d'acquisto, sostenendo con il loro contributo agricoltori che hanno scelto di coltivare la terra non usando pesticidi e prodotti chimici, riscoprendo varietà e tecniche antiche, o allevatori che trattano gli animali con umanità e rispetto, e magari si fanno anche promotori di lodevoli iniziative di reinserimento sociale o portano avanti altri progetti di valore etico.

Il nostro GAS è solo all'inizio, e come tutte le creature che si affacciano alla vita ribolle di energia primordiale ed entusiasmo, ma è anche esposto ad ogni genere di errore e capitombolo. Ben vengano, però, gli incidenti di percorso: se fatti in buona fede e per inesperienza, non sono che buoni maestri (ammesso che si sia disposti ad imparare da essi).

Una delle cose che più mi entusiasma di questa esperienza è che la solidarietà cui allude la S dell'acronimo GAS non si applica soltanto ai produttori e al pianeta, ma anche agli stessi partecipanti del gruppo, che si impegnano a gestire tutti insieme il progetto, in modo democratico, assolutamente paritario e libero. Per tirar fuori un po' di retorica (ma di sacrosanta verità) : da ognuno secondo le proprie possibilità, ad ognuno secondo le proprie esigenze. Spero ardentemente che questo sia lo spirito che sempre animerà questa bizzarra creatura della nostra comune aspirazione ad uno stile di vita più sostenibile. Al momento, pare proprio che sia così, e la cosa non può che rendermi assai felice.

Per ora, siamo ancora in una fase di esplorazione: stiamo cercando produttori coi quali avviare un rapporto di collaborazione reciprocamente fruttuoso, e abbiamo fatto i nostri primi ordini, per vedere come ci troviamo. Per me è molto eccitante andare alla scoperta di un mondo cui non mi ero mai avvicinata prima d'ora e, certo, Firenze è una città che offre strumenti e spazi perché questa scoperta avvenga nel modo migliore possibile.

Per lo più, fino ad adesso, questo GAS è stato un felice pretesto per ritrovarci tutti insieme, conoscerci, socializzare, discutere e, soprattutto, mangiare e bere come dei forsennati. Tutte lodevolissime e sommamente desiderabili attività, soprattutto se condivise con persone simpatiche e con le quali ci si trova in sintonia. Se qualcuno ci immagina come un circolo di virtuosi (mi viene in mente la congregazione religiosa che si riunisce per celebrare il compleanno del fondatore ne 'Il pranzo di Babette') si sbaglia di grosso: per ora assomigliamo di più a una banda di crapuloni, di quelli ritratti nel famoso banchetto di Trimalcione di petroniana memoria.

L'altra sera, dunque, è stato il nostro turno di ospitare i nostri amici del GAS. La serata ha presto preso una piega godereccia, giungendo a un notevole livello di simpatica caciara e ilarità (complice anche un po' di vino), con il citofono che suonava e gente che girava per casa parlando di riso e arance biologiche, detersivi naturali e fornitori o semplicemente scherzava e rideva. Io e la mia Spia ci siamo ad un certo punto guardati, al di sopra della confusione, la musica, le risate, e silenziosamente ci siamo entrambi detti quanto ci piacesse tutto quel bailamme in casa nostra.

Ognuno ha portato qualcosa: Rosalia una splendida crostata di marmellata d'arancia, Francesca una soffice torta di mele, l'altra Francesca una saporita tortina al cioccolato e pinoli e del pane carasau, Rita una bottiglia di preziosissimo olio pugliese fatto sui terreni del suo papà, Chiara una saporitissima panzanella, Louena del vino rosso.

Io avevo preparato una torta salata che da mesi occhieggiava invitante dalle pagine di Chocolate & Zucchini, di Clotilde Dusoulier, della quale vi ho già parlato e tessuto più volte le lodi (vedi qui) . Non posso che confermare l'ottima opinione che ho di questa blogger d'oltralpe, tra le più longeve (è in rete dal 2003) e simpatiche. Ancora una volta vi invito caldamente a visitare il suo blog e a bearvi del suo stile leggero e ironico, affettuoso e pieno di calore: vi sentirete davvero accolti nella casa confortevole di una vecchia amica. Se poi voleste cimentarvi con qualche sua ricetta, non avrete che l'imbarazzo della scelta.
(Per la cronaca, le torte salate erano due: ce n'era anche una con la feta e le erbe, di cui scriverò prossimamente; e c'era anche una mousse al cioccolato della mia Nigellona, la cui ricetta merita di essere divulgata e divenire patrimonio comune dell'umanità).

Ed ecco qui la sua splendida tarte tatin à la tomate, che i miei amici del GAS si sono spazzolati nel giro di un nanosecondo. Vi assicuro che vale la pena di provarla.

per una tortiera di circa 28 cm. di diametro:

per la pasta brisée:

200 gr. di farina
1/2 cucchiaino di sale fino
125 gr. di burro, tagliato a cubetti
1 uovo, leggermente sbattuto
acqua ghiacciata

per il ripieno:

olio extra vergine d'oliva
1 kg. di pomodori (di quelli non troppo acquosi, se possibile)
sale e pepe
erbe varie secche (io ho usato maggiorana e origano, e del timo fresco)
4 cucchiai di pesto (io ho usato quello fatto dalla Spia, ottimo, ma la ricetta prevedeva originariamente la stessa quantità di tapenade o pasta d'olive e, in alternativa, del pesto)
170 gr. di caprino
qualche foglia di basilico


Cominciate con la pasta brisée.

Schiaffate i primi tre ingredienti nella coppa del robot da cucina, azionatelo fino a quando essi non siano stati ridotti in briciole. Aggiungete quindi l'uovo e aspettate che la pasta cominci a fare massa. Se il composto dovesse essere troppo asciutto (di solito non lo è), aggiungete, cautamente e cucchiaino dopo cucchiaino, l'acqua gelata, fino ad ottenere la consistenza giusta.

Estraete l'impasto dal robot, dategli una forma di palla e avvolgetelo nella plastica (dopo averlo leggermente schiacciato). Lasciatelo riposare in frigorifero per una mezz'ora.

Dopo aver lavato i pomodori, tagliateli a metà e liberateli il più possibile dei semi e dell'acqua di vegetazione. Adesso armatevi di santa pazienza. Dopo aver oliato leggermente la tortiera che userete, cominciate a disporvi i mezzi pomodori, con la parte tagliata rivolta verso l'alto, creando un disegno concentrico. Alla fine vi sentirete un po' come un certosino alienato, ma vi assicuro che l'effetto visivo che otterrete con questa prova di pazienza varrà la rottura di disporre ogni pomodorino al suo posto. Potete anche ammassarli un po', perché con la cottura inevitabilmente si raggrinziranno come dei vecchietti. Condite con sale e pepe, le vostre erbette e un bel giro d'olio. Quindi ponete la tortiera in forno preriscaldato a 180 gradi per 30', passati i quali, tiratela fuori (lasciando il forno acceso).

Intanto avrete tolto dal frigo la pasta brisée; stendetela fino a che sia diventata ampia abbastanza da ricoprire la tortiera: bucherellatene la superficie con i rebbi di una forchetta (quanto mi piace dirlo), e spalmateci sopra il pesto (o la tapenade), lasciando circa 3 cm di bordo libero.

Tagliate a fettine il caprino e sistematele sopra i pomodori. Quindi, con calma e tranquillità (lo dico perché a me invece viene sempre il panico quando devo farlo), coprite il tutto con il disco di pasta e rimboccatene bene le estremità. In forno sempre a 180 gradi per circa 30-40' (nel mio, che si sta rivelando piuttosto pigro, ce ne sono voluti poco meno di 45): la superficie deve essere bella dorata e croccante.

Lasciate raffreddare la tarte tatin per 10' su una gratella, quindi prendete un bel piattone di portata, i vostri guanti da forno e, con la calma e tranquillità di cui sopra (qui il mio panico arriva a dei livelli terribili), rovesciatevi sopra la tarte (preferibilmente senza scottarvi o versarvi parte dei succhi bollenti dei pomodori nella scollatura, come pare sia successo a qualcuno...).

Quando la servirete (anche a temperatura ambiente è splendida, certo la pasta brisée un po' si ammolla, ma vi assicuro, è splendida anche così, e chi la mangerà avrà le lacrime agli occhi per la commozione e la gratitudine, e sarete solo voi a tormentarvi per questa inezia...), cospargetela di foglioline di basilico e godetevi i mugolii riconoscenti dei vostri commensali.

Enjoy!

Del prendere una tranvata. Un'errata corrige

Paola, una bella persona che ho conosciuto su Anobii, mi ha fatto capire di aver fatto una bizzarra confusione tra Guido Gozzano e Francesco Guccini.

Le 'stoviglie color nostalgia' citate nel post sulle pere al vino vengono ovviamente dalla bellissima Incontro (dall'album Radici, del 1972) e non da La signorina Felicita, alla quale invece io le avevo associate, memore di quel bellissimo verso in cui Gozzano celebra gli occhi della suddetta signorina, 'con l'iride azzurro di un azzurro di stoviglia', proprio il colore della mia teiera.

Sempre Paola, forse per timore di avermi messa in imbarazzo, mi ha però segnalato il link ad un sito in cui si può leggere uno studio (che pare piuttosto serio e documentato) condotto proprio sui richiami e le suggestioni gozzaniane nella poetica di Guccini (se siete curiosi, andate pure qui).

Insomma, ho preso una tranvata, ma qualcun altro, evidentemente, ha fatto prima di me lo stesso collegamento.

Solo che io l'ho fatto inconsapevolmente e per difetto di neuroni, mentre Andrea Sanfilippo (l'autore del saggio cui accennavo prima) lo ha sviluppato in modo puntuale e consapevole.

Una bella differenza!

mercoledì 13 maggio 2009

Della compassione, dell'animismo, o di due pere al vino


Dopo le mele al forno, un'altra ricetta di frutta cotta.

Stavolta a far da cavia è stato un paio di pere Kaiser, comprate per sbaglio dalla Spia, che languivano malinconicamente nella fruttiera sul micro-tavolo della cucina.

Non so voi, ma io sono sempre stata un'animista: ho sempre pensato che tutto il mondo intorno a me, tutto, avesse emozioni e sentimenti; un'anima, appunto.
Da piccola ogni cosa aveva per me una personalità, e desideri, opinioni, gusti, ricordi, e una vita sua, proprio come me. E quasi ad ogni cosa davo un nome.
Era sicuramente un modo di rendere più umano e meno minaccioso un mondo nel quale, per la maggior parte del tempo, non mi sentivo particolarmente né a mio agio né al sicuro. Quando si dà un nome a qualcosa, si instaura con esso un rapporto personale, affettuoso, si intrecciano conversazioni, si raccontano storie; insomma, non si è soli.

Questo legame segreto e appassionato con le cose ancora esiste per me, benché l'urgenza e la necessità che gli erano sottesi quando ero più piccola siano diminuite (e siano defluite, in parte, nella mia divorante passione per la lettura); è alimentato e mantenuto in vita da questo mio insopprimibile impulso a sviluppare una relazione emotiva con il mondo, tanto più se è quello apparentemente muto e opaco di certi esseri viventi che però, sprovvisti di mezzi di comunicazione 'evidenti' come possono essere quelli di gran parte degli animali, sembrano essere condannati a un'assoluta e irredimibile solitudine (penso agli alberi, alle piante, ma anche ai sassi, all'acqua), e implica una particolare attenzione agli oggetti, soprattutto quelli che uso quotidianamente.

So che mi espongo alla vostra perplessità (se non alla vostra compassione), ma non posso tacere il fatto che intesso vere e proprie conversazioni con il forno o il frigorifero, soprattutto quando li 'accudisco', e che ogni mattina, quando riempio d'acqua la mia piccola teiera celeste (comprata perché mi ha fatto subito pensare alle 'stoviglie color nostalgia' di Gozzano, grande cantore delle cose), mentalmente le rivolgo quasi sovrappensiero un saluto, come si fa con un coinquilino cui ci unisca un vincolo di lunga consuetudine, e dopo averla usata la lavo amorevolmente, con attenzione, come fosse un essere sensibile al caldo dell'acqua e agli urti involontari che posso farle subire (sia mai) riponendola sullo scolapiatti.

Che il mondo degli oggetti apparentemente inanimati abbia una sua sensibilità è un necessario corollario al mio animismo.
Da piccola ero capace di disperarmi ogni volta che perdevo qualche cosa di mio: la gomma da cancellare a forma di fetta d'anguria, l'orribile cerchietto rosa con due piccole campanelle, la molletta verde persa in qualche gioco e per la quale, quella sera, piansi fino ad addormentarmi, immaginandola terrorizzata, nel buio notturno di un giardinetto, confusa tra la ghiaia e soffocata da qualche cartaccia.
Non era tanto il dover fare a meno di lei a farmi soffrire, quanto la pena che sentivo al pensiero del suo essere abbandonata all'indifferenza di un mondo in cui non ci sarei stata più io a usarla tutti i giorni, a bearmi della sua vernice metallizzata, a mostrarla orgogliosa alle amichette di scuola, a riporla amorevolmente ogni sera sul mobile dietro il mio letto. Era il suo essere destinata all'invisibilità, all'anonimato, alla solitudine a straziarmi. Era il suo essere ormai privata di uno sguardo affettuoso che la riconoscesse (il mio) a farmela tanto compatire . Per ogni pezzo di spago, temperino, cappuccio di bic e sorpresina dell'ovetto kinder persi, ho avuto il mio lutto, inesprimibile e incomunicabile.

La vista allora di due pere Kaiser (ed eccoci qui di ritorno! lo so, divago, divago... sempre stata così), già acquistate per sbaglio (e quindi probabilmente inclini a deprimersi) e lasciate lì a immalinconirsi nella consapevolezza di non essere desiderate, mi ha spinto a sfogliare i miei libri, alla ricerca di una ricetta che potesse sottrarle ad un futuro avvilente.


Ed eccole qui, le due pere che nessuno voleva, trasformate in due imperatrici da un bagno in un profumato sciroppo liquoroso e speziato! Che bontà! (E che sollievo per me! Che peso dal cuore mi sono tolta...).

La ricetta è tratta da Modern Classics Book 2 di Donna Hay, un simpatico donnone australiano (dall'inquietante somiglianza con mia cugina Orietta), la cui fama è giunta anche qui (la Guido Tommasi ha cominciato a tradurne e pubblicarne i libri, ecco qui la scheda del volume sul sito di questa casa editrice).

Se ovunque leggerete che le sue ricette sono praticamente foolproof, credeteci. Lo sono. Impeccabili (e ahimé spesso caloriche quasi a livelli nigellonici, ma si tratta di un trascurabile dettaglio...).

E poi questo è un libro bellissimo, di quelli da sfogliare sul divano quando non abbiamo voglia di nulla in particolare e nulla ci soddisfa, e stiamo lì un po' uggiosi, malmostosi e inclini a rompere i coglioni a chiunque abbia la sventura di capitarci sotto tiro. Buonumore recuperato in 10 secondi netti (nostro e altrui).

Ecco qui la ricetta, di una facilità commovente (o sospetta, per le nature più malfidate), riportata quasi fedelmente (ho aggiustato un po' le quantità):

250 ml. di vino rosso
250 ml. di acqua
150 gr. di zucchero
1 bastoncino di cannella
1 chiodo di garofano
2 pezzi di circa 5 cm. l'uno di buccia di arancia
3 pere, sbucciate ma ancora col picciolo

Mettete il vino, l'acqua, lo zucchero, la cannella, il chiodo di garofano e la buccia di arancia in un pentolino e fate cuocere a fuoco dolce, mescolando fino a quando lo zucchero non si sia sciolto.

Fate sobbollire per 5 minuti, poi aggiungete le pere. Coprite e lasciate sobbollire per circa mezz'ora, rigirando ogni tanto le pere perché si colorino uniformemente e si imbibiscano del loro inebriante sciroppo.

Fatto.

Io le ho mangiate ancora un po' tiepide, accompagnate da un po' del gelato allo sciroppo d'acero del precedente post e da una pallina di gelato al cioccolato (un esperimento, parzialmente riuscito; attendo di rifarlo prima di proporlo), non prima di averle ringraziate per il piacevole fine pasto offertoci, ed esserne stata gentilmente e graziosamente ringraziata.

Enjoy!

mercoledì 6 maggio 2009

Del galateo a tavola o delle mele al forno



La frutta cotta mi ha sempre fatto una tristezza infinita, forse perché l'ho sempre associata ad una dieta da gerontocomio, a denti traballanti e gengive infiammate che non riescono più a mangiare la frutta se non ridotta ad una poltiglia.

Secondo me, Alessandro Baricco si era certamente dimenticato di lei quando diceva che due sono le cose più avvilenti che esistano, il circo e la verdura cotta.

Ripenso a quelle pere o a quelle mele senza più forma, sbiadite, un po' acquose, che mia madre ha sempre preparato e mangiato in inverno, dopo cena, cercando di renderle un po' più attraenti con della scorza di limone grattugiata, e che ha più volte cercato di farmi mangiare, ottenendo sempre cortesi ma fermissimi rifiuti.

Le mele al forno, però, sono tutt'altra cosa.
Prima che vengano sostituite da ciliegie, pesche, susine, meloni e angurie, se trovate ancora delle belle meline in giro, compratele e fatele al forno. E' un trattamento che non può che giovare a delle mele quasi al capolinea.
E queste poi sono profumatissime, invitanti, soprattutto se accompagnate da un facilissimo gelato allo sciroppo d'acero (niente panico, non c'è bisogno di avere una gelatiera; sono richieste, però, un po' di pazienza e di attenzione).

Questo dessert mi è venuto in mente qualche sera fa. Io e il compagno della mia vita
avevamo a cena un conoscente che, per quel poco che abbiamo visto, è piuttosto tradizionalista in fatto di cibo. Quel tipo di persona che considera un'insalata di spinaci con le noci un filino troppo esotica per i suoi gusti.

Per di più, per quanto la cosa possa sembrare inaudita (quantomeno a me), non ama il cioccolato.

Il nostro ospite, che durante tutta la cena non aveva mostrato nessun tipo di apprezzamento per ciò che mangiava (pur servendosi due o tre volte), dopo aver assaggiato queste mele si è lasciato sfuggire un 'Buono', appena pronunciato tra i denti.

Non so voi, ma io sono stata abituata, quando sono ospite, a mangiare qualunque cosa mi mettano nel piatto, a lodarlo, e a ringraziare con calore le mani che hanno preparato il pasto che mi viene offerto. Non si tratta di esprimere lodi sperticate e roboanti al punto di mettere in imbarazzo il cuoco, né (giammai) di dire cose che non si pensano. Dopo tanti e tanti inviti a cene e pranzi formali (in cui era assai difficile che la padrona di casa avesse trascorso anche solo dieci minuti in cucina, se non per dare le necessarie istruzioni al cuoco, semmai), ho imparato (credo) a farlo con una certa grazia e a trovare il modo, anche quando ciò che mangio non mi fa impazzire, di esprimere, senza mentire troppo, un certo qual apprezzamento (quantomeno per il pensiero, almeno quello bisogna riconoscerlo).

La ricetta (sia del gelato, sia delle mele) l'ho trovata in Ricordi in cucina di Tessa Kiros, di cui vi ho già parlato ad abundantiam qui e qui.

Ed ecco la ricetta, per 4 persone:

per il gelato:

250 ml di panna
125 ml di sciroppo d'acero
250 ml di latte
1 cucchiaino di estratto di vaniglia

per le mele:

50 gr. di burro (io ne ho usato molto ma molto meno, giusto un po' per imburrare il piatto e qualche fiocchetto su ogni metà mela)
4 mele, tagliate a metà, scavate con l'apposito attrezzino che serve per togliere parte del torsolo e creare una piccola conca (si chiama scavameloni? svuotameloni? lo ignoro)
80 gr. di zucchero di canna leggero
1 cucchiaino di cannella
2 cucchiai di Marsala o di Porto

Ovviamente, è meglio se il gelato lo fate il giorno prima. In una ciotola versate tutti gli ingredienti e amalgamateli con un cucchiaio di legno o una piccola frusta. Versate il tutto in un contenitore con coperchio che potete mettere in freezer e... mettetelo in freezer.

Tiratelo fuori dopo 3-4 ore e dategli, come dice la mia mamma, una bella smucinata: io uso il minipimer, piano piano, in modo da rompere i cristalli di ghiaccio e rendere il gelato il più cremoso possibile (e non far fondere il motorino del minipimer, come mi è già successo qualche anno fa). Qualche volta ho usato uno sbattitore elettrico. Rimettete il gelato in freezer e ripetete la smucinata dopo un paio di ore, e un'altra volta ancora sempre dopo 2-3 ore; qualche volta me ne sono dimenticata, e non è accaduto niente di grave: il gelato era un po' meno cremoso, ma non era un blocco unico inattaccabile da tirare fuori 3 ore prima per essere capaci di scalfirne la granitica superficie.

Ed ora passate alle mele.

Accendete il forno a 180 gradi.

Imburrate appena il piatto da forno in cui metterete le mele tagliate a metà, che devono stare vicine ma comode.
Mescolate lo zucchero con la cannella e spolverate il composto sulle mele. Su ognuna di loro, un fiocchetto di burro. Bagnatele con il marsala o il porto, aggiungete 125 ml. di acqua. Mettete in forno.

Tessa Kiros dice di cuocerle per 30 minuti, poi di tirarle fuori e aggiungere altri 125 ml. di acqua calda. Io non l'ho fatto, perché di liquido ce n'era. Vedete un po' voi. Proseguite la cottura per altri 30 minuti, trascorsi i quali vi ritroverete delle bellissime mele, soffici e profumate, immerse in un paradisiaco sughino.

Lasciatele un po' intiepidire, poi servitele accompagnate dal gelato allo sciroppo d'acero, e godetevi i meravigliati complimenti (o i sobri apprezzamenti pronunciati tra i denti, dipende dai vostri ospiti) dei fortunati mortali che avrete voluto omaggiare di questo dessert.

Enjoy!


martedì 5 maggio 2009

Della ricerca dell'eterna felicità, o di una nuova torta


La mia dolce metà, per certi versi, è un uomo che si potrebbe definire 'a basso mantenimento', riprendendo la famosa definizione di Harry in Harry ti presento Sally (anche se lì si parlava di donne e l'esempio portato era il personaggio interpretato da Ingrid Bergman in Casablanca, controllate da voi qui).

Non ha particolari esigenze dal punto di vista gastronomico. A parte alcune spiccatissime e violente idiosincrasie (peperoni, olive, insalata, aceto, gorgonzola, maionese le prime che mi vengono in mente), è aperto agli esperimenti, assaggia (anche se sospettoso e guardingo) più o meno qualunque cosa gli si metta nel piatto e, qualità per me preziosissima, esprime i suoi giudizi sempre in modo molto urbano e civile, anche quando si tratta di manifestare un netto dissenso (ricordo ancora certe terribili scenate tra i miei genitori scatenate da una nuova ricetta, e mi sento, per esserne esentata, una miracolata).

Ma se lo si vuole fare contento, se ci si vuole far perdonare per qualche cosa che si è fatto e che lo ha contrariato, è facile preparare un menu che lo ammansisca e lo renda il più disponibile degli uomini: i soliti spaghettini al pomodoro (in alternativa una teglia formato famiglia di lasagne), carne impanata con patate fritte e, per finire, una bella crostata con marmellata di more.

Devo ammettere che cucinare per un simile esemplare di uomo con l'intento di compiacerlo è a volte di una facilità quasi irritante. Si perde il gusto della sfida, la soddisfazione di vedergli affiorare un bel sorriso di gradimento, di sentirlo mugolare con la bocca piena un bel 'mmm...' di apprezzamento.

Quando dunque, pur discostandomi dal noto trinomio spaghettini-carne impanata con patate fritte-crostata di more (che tra l'altro, ad onor del vero, non gli preparo quasi mai!), riesco ad azzeccare un piatto che gli piaccia al punto da diventare l'ennesima hit e mi venga dunque richiesto a cadenza settimanale ogni volta che rivolgo la fatidica domanda: "Che cosa vorresti da mangiare?", per me è un'enorme soddisfazione.

Ovviamente dopo un po' mi stufo e parto alla ricerca di una nuova ricetta; ma per lui si potrebbe continuare così all'infinito (forse con qualche leggera variazione, tipo marmellata di prugne o di arance invece che di more per la crostata, o patate al forno invece che fritte, o lasagne al pesto al posto che col ragù), alla ricerca di quella sorta di eterna e incorruttibile felicità che, ahimé, neanche in cucina a noi umani è dato conoscere.

Questa torta è una new entry e nell'ultima settimana mi è stata richiesta ben 3 volte. La ricetta è della mia cara Nigellona Lawson, ma non è presa da nessun libro*, quanto da una puntata speciale del suo Nigella Bites dedicata al Natale e intitolata, secondo lo spirito un filo narcisistico e solipsistico della mia pur adorata cuoca feticcio (guess what?), Nigella's Christmas.

L'avevo registrata su una videocassetta la cui qualità non era eccelsa, quindi non so quale sia la quantità richiesta di frutti di bosco (cranberries, per l'esattezza, che secondo il mio dizionario sono dei mirtilli lacustri [?!?]), perché la voce profonda della Lawson è coperta, proprio nell'istante in cui immagino dica quanti siano i grammi di frutti di bosco da lei utilizzati, da una serie di sfrigolii e distorsioni cacofoniche. Ma il resto è fedelissimo. (Io comunque ho usato la metà di una confezione da 450 gr. di frutti di bosco surgelati comprati al supermercato).


175 gr. di burro (125 gr. + 50 gr.)
225 gr. di frutti di bosco surgelati
3 cucchiai di zucchero (io uso quello di canna leggero)
175 gr. di farina lievitante
175 gr. di zucchero (come sopra)
1/2 cucchiaino di lievito per dolci
2 uova
la scorza di un'arancia
mandorle filettate a piacere

Fate fondere i 125 gr. di burro sul fornello, dolcemente. Con un pennello, spalmatene un po' su una tortiera di circa 24 cm. di diametro.

In un pentolino mettete i frutti di bosco, gli altri 50 gr. di burro e i 3 cucchiai di zucchero e lasciate cuocere per qualche minuto: i frutti di bosco non si devono spappolare, ma ammorbidire.

In una ciotola mettete la farina, lo zucchero, il lievito e la scorza d'arancia; aggiungete il burro fuso e amalgamate.

Ponete parte di questo composto nella tortiera, coprite con i frutti di bosco e i loro aromatici succhi e poi concludete con il resto del composto di burro, zucchero e farina. Vi sembrerà pochissimo e in effetti lo è, ma non vi dovete preoccupare: anche se non riuscirà a coprire i frutti di bosco, non importa, la cosa non ha la minima importanza.

Prima di mettere in forno preriscaldato a 160 gradi, cospargete la superficie della torta con un altro po' di zucchero di canna e con delle mandorle filettate.

Fate cuocere per un'ora. Servite con panna appena montata, o un po' di crema pasticcera, ma anche così da sola, vedrete che a questa torta non manca proprio nulla!

Enjoy!

P.S. (Ovviamente, per moooolti altri versi, la mia dolce metà è un uomo ad alto mantenimento, altissimo, oserei dire, ma questo temo valga per chiunque, vero?)


* Non è vero! Ho visto che si trova su Feast. La quantità di cranberries utilizzata è un sorprendente mezzo chilo! Ma Nigellona, si sa, è donna di eccessi.

lunedì 4 maggio 2009

Alfred e Emily di Doris Lessing

Io ho evidentemente dei problemi a farmi piacere Doris Lessing.

Prima di questo libro, avevo già letto Gatti molto speciali e Love, again.

Il primo non può non commuovere chi abbia sempre avuto un grande amore per i gatti, benché la Lessing parli di loro con una certa freddezza, freddezza che, ad una lettrice particolarmente ben disposta come ero io nei confronti di quel libro, è apparsa più che altro come lodevole assenza di ogni sciropposo sentimentalismo, trappola tanto frequente in cui cade chi parla dei propri animali domestici.

Love, again, invece, è un romanzo che non mi ha mai presa, per i cui personaggi non sono riuscita a sviluppare la minima curiosità, per non parlare di un po' di simpatia.

Di Alfred e Emily potrei scrivere le stesse cose.
Dopo una prima parte narrativa, in cui la Lessing immagina la vita che i suoi genitori avrebbero potuto avere se la loro esistenza non fosse stata stravolta dalla prima guerra mondiale, si passa ad una seconda parte cui la scrittrice consegna un ritratto dei suoi reali genitori: la madre, brillante ragazza di buona famiglia che per voler fare l'infermiera viene ripudiata dalla famiglia, e il padre, bello, atletico, eccellente ballerino, che la prima guerra mondiale trasformerà prima in un invalido, poi in un uomo cronicamente malato e depresso, vecchio anzitempo. I sogni di bellezza, agiatezza, intensità e passione che Alfred ed Emily sembrano concretizzare all'inizio del loro matrimonio, si infrangono uno dopo l'altro, dolorosamente, e si spengono nella vita sacrificata e durissima che insieme trascorreranno nella Rhodesia del sud, oggi Zimbabwe, a coltivare una terra difficile e a combattere una quotidiana guerra contro una natura lussureggiante e pericolosa.

La Lessing ammette senza problemi di aver sempre odiato sua madre; per questa donna che ha chiuso in un baule i suoi vecchi vestiti da sera, elegantissimi e sensuali, e insieme ad essi ha lasciato marcire e rovinarsi anche ogni suo sogno, questa figlia ha una qualche forma di lucida e distaccata comprensione, ma nessuna simpatia, nessuna pietà.

Nei confronti del padre, i sentimenti sono più ambigui; di sicuro più affine alla figlia, quest'uomo viene consegnato alle pagine come una figura tutto sommato scialba, debole, un illuso con poca presa sulla realtà, prigioniero di un passato dal quale non è mai riuscito a liberarsi.

Non so, forse sono io che faccio fatica a entrare 'in risonanza' con la scrittura e l'universo della Lessing.
Mi piacerebbe poter cambiare idea, ma per ora non c'è verso.
Mi sembra troppo fredda, troppo poco comprensiva del genere umano cui appartiene, ed io non riesco a sentire mia la realtà della quale parla.

venerdì 1 maggio 2009

Ragazza in un giardino di Anne Tyler

Il personaggio di Elizabeth, la ragazza del titolo, è un tipico personaggio alla Anne Tyler, una persona, prima che una donna, dotata di un suo nucleo solidissimo, che resiste a qualunque tentativo del mondo e degli altri di cambiarla, di trasformarla, e difende la propria autonomia e la propria indipendenza senza grandi strepiti, senza nessun proclama, ma con strenua tenacia, e la difende tanto dagli attacchi quanto dall'amore.

Elizabeth vive la sua vita in modo apparentemente casuale, come se non fosse la sua: è per caso che si ritrova nel giardino della signora Emerson di Baltimora, che ha appena licenziato il suo uomo tuttofare e che la assume con la stessa qualifica. Elizabeth la pasticciona, che a casa sua non ha combinato che guai e non ha fatto che dare preoccupazioni ai suoi genitori perché non sa che cosa fare della sua vita e non sembra preoccuparsene, diventa colei cui tutta la famiglia disfunzionale della signora Emerson si rivolge perché, materialmente e metaforicamente, metta a posto le tante cose che non funzionano, e dunque sistema maniglie, pulisce grondaie, aggiusta finestre, carica i numerosi orologi di cui il defunto signor Emerson era un appassionato collezionista (il titolo originale era infatti il ben più felice The Clock Winder), assiste agli scontri, alle scenate, alle discussioni tanto frequenti tra i fragili e complicati Emerson senza mai esprimere un giudizio, senza mai farsi coinvolgere, limitandosi ad essere sempre lì quando si ha bisogno di lei, e gradualmente si rende suo malgrado indispensabile, necessaria, legandosi a questa famiglia in un rapporto 'subìto' a volte con una rassegnazione non priva di una certa allegria, a volte con insofferenza, e anche toccando il dramma e la tragedia.

La nota su cui si chiude il romanzo è agrodolce, ed è giusto che sia così, perché è così che spesso è la vita: la serenità è un traguardo difficile da raggiungere, al quale spesso si arriva per vie tortuose e dopo molte deviazioni, false partenze e apparenti cambiamenti di rotta e, sembra suggerire la Tyler, non prima di aver sofferto e conosciuto il lato meno spensierato e solare della vita. Per il giovane Peter, il più piccolo dei fratelli Emerson, cui è affidata l'ultima immagine del romanzo, la meta del viaggio è ancora lontana.