sabato 26 settembre 2009

Dell'autarchia, di un compleanno e di alcune conserve, parte II (tapenade e olive condite)


Come promesso, ecco le ricette delle altre due 'conserve', la tapenade e le olive condite, entrambe tratte da Pausa pranzo, di Stefano Arturi.

Per la tapenade

25o gr. di olive (verdi nella ricetta originale; io ho usato delle taggiasche, perché erano quelle che avevo in casa)
4 filetti di acciughe sottolio
2-3 cucchiai di capperi, ben dissalati
uno spicchio d'aglio
una tazzina da caffè di olio d'oliva
la scorza grattugiata di una mezza arancia
timo fresco (io non l'ho aggiunto)

Niente di più facile: tutti gli ingredienti nel robot da cucina (decidete voi se volete che la consistenza sia più o meno cremosa).
In frigo per alcune ore prima di avventarvici sopra, armati di un pezzo di pane fresco.


per le olive verdi

300 gr. di olive verdi, leggermente 'acciaccate' (come si dice a Roma) con la lama di un coltello
4 spicchi d'aglio, anche loro 'acciaccati'
peperoncino (secco o fresco; decidete voi anche la quantità)
timo fresco (come per la tapenade non l'ho aggiunto perché sprovvista)
succo e scorza di un limone
scorza di un'arancia
2 cucchiai di semi di coriandolo, tostati 1 minuto in un padellino
100 ml di olio d'oliva
pepe nero

Tutti gli ingredienti in una pentola che li contenga con agio.
Scaldate senza far bollire.
Lasciate raffreddare, anche per qualche ora, mescolando spesso.
In frigo, in un barattolo; si conservano per settimane.
L'Arturi consiglia di servirle leggermente intiepidite.


Enjoy!

martedì 22 settembre 2009

Extremely Loud and Incredibly Close di Jonathan Safran Foer

Ho impiegato più di due settimane per leggere questo romanzo e per me due settimane sono tante per leggere un romanzo simile.

Non voglio dire che non mi sia piaciuto, ché anzi molti sono stati i momenti in cui mi sono sentita parte della storia, assorbita dal racconto, partecipe delle vicende dei personaggi.

Difficile non provare delle emozioni di fronte alla storia di Oskar, bambino di 9 anni che perde il padre nella tragedia del World Trade Center.

Nel tentativo di placare i propri sensi di colpa per non aver risposto all'ultimo messaggio che quella mattina, prima di morire, suo padre ha finito per affidare alla segreteria telefonica, accettarne la morte e insieme trovare il modo di sentirlo ancora vicino, vivo e presente, nel suo primo incontro con l'esperienza umanissima e ineluttabile del dolore, Oskar finisce per entrare in contatto con un'umanità variamente dolente, variamente persa e smarrita di fronte alla vita.

Alcune intuizioni e trovate sono assolutamente brillanti (e mi hanno tanto ricordato The History of Love, romanzo da me molto amato di Nicole Krauss, che di Jonathan Safran Foer è la moglie; e si sente) e l'idea di fondo che per accettare la morte bisogna non aver paura della vita e aprirsi ad essa non è certo originale, ma è bene che venga ribadita, e tanto meglio se la cosa avviene nelle pagine di un romanzo.

Rimane, però, la sensazione che l'autore sia un po' troppo preoccupato di scrivere qualcosa di assolutamente originale (a discapito del realismo del racconto) e si compiaccia eccessivamente del suo stile, che personalmente trovo un po' affettato.
E non c'è niente di peggio, per me, che avvertire questo genere di sottile narcisismo tra le pieghe di una storia.


Jonathan Safran Foer, Extremely Loud and Incredibly Close, Penguin Books 2006.


lunedì 21 settembre 2009

Dell'autarchia, di un compleanno e di alcune conserve (un lemon curd e una marmellata di cipolle)


Sono da anni una grande sostenitrice del regalo fai-da-te, e per questioni squisitamente sentimentali e ideali.

Non mi distinguerò di certo per originalità dicendo che l'oggetto nato dalle proprie mani e dalla propria creatività, pensato con in mente i gusti, le inclinazioni, le passioni della persona cui è destinato, sarà veicolo eccellente e graditissimo dei sentimenti che si provano per il suo destinatario, resi concreti e tangibili dall'amore, la cura e l'attenzione che si sono profusi nella creazione del manufatto (qualunque cosa esso sia: una torta, una sciarpa, un biglietto d'auguri).

C'è da dire che quel che più mi affascina nel fare a mano i miei regali è anche l'aspetto 'autarchico' della questione. Da molti anni cerco, e sempre più coscientemente, di perseguire questo ideale, di svincolarmi il più possibile dalla dipendenza nei confronti dei prodotti finiti.
Per questo, più che comprare maglioni preferisco, se posso, comprare la lana e farmeli, faccio il mio pane una volta alla settimana invece di mangiare quello - pur ottimo - del forno qui vicino, disegno da sola i biglietti d'auguri, non metto nel carrello della spesa un pacco di biscotti da almeno 6 anni e assai raramente decido di acquistare una collana che, dopo un'attenta e realistica valutazione delle mie capacità, capisco essere in grado di riprodurre da sola.

Ovviamente, optando per l'autarchia, in molti casi si finisce per risparmiare, ma la cosa non è tanto ovvia e non bisogna comunque darla per scontata: se si scelgono materie prima di alta qualità (cosa che conviene sempre o quasi sempre, visto che ci si prende la briga di far le cose da sé), si può finire per spendere molto più che acquistando un prodotto finito. Ma, come si suol dire, i soldi non son tutto (per quanto, di questi tempi, sono abbastanza...).

Dunque, in occasione del compleanno del mio babbino, che pochi giorni fa ha festeggiato le sue 77 primavere, ho deciso di sfidare le mie insicurezze, i paragoni con la mia mamma mani-d'oro e gli altissimi standard qualitativi paterni quando si parla di cucina, per preparargli una serie di conserve.

Anche perché il mio babbo è uno di quegli esseri infernali a cui è praticamente impossibile fare un regalo: ormai legge assai raramente (e non gli piace praticamente nulla di quel poco che legge, dai romanzi, ai gialli, ai thriller, ai saggi storici, alle inchieste di attualità, alle raccolte di articoli di giornalisti famosi... niente); se non è mai stato particolarmente interessato a ciò che indossa, adesso lo è ancora meno: col maglione di cachemere ci va in campagna a zappare l'orto, perché è caldo ma leggero; in compenso, può benissimo presentarsi ad una cena dalla sua snobissima sorella con la camicia da boscaiolo ormai lisa sul colletto e sui polsini 'perché mi piacciono i colori' (provocando comprensibili crisi isteriche nella mia genitrice).
Ha una grande passione (un po' inquietante ma assolutamente innocua) per i coltelli e le armi da taglio in generale. Ma ne ha di ogni foggia, materiale e prezzo e sinceramente non avrei proprio idea da dove cominciare se decidessi un giorno di comprargliene una (e poi l'idea non mi rende felicissima, per principio).

Dunque, dopo aver pensato e ripensato, ho passato in rassegna i miei libri di cucina e ho scelto quattro diverse conserve: come si evince dalla foto, un lemon curd, una marmellata di cipolle, una tapenade e delle olive condite.

Le prime due ricette le ho prese pari pari da Rachel's Favourite Food at Home di Rachel Allen; le altre due dal sempre amato Pausa pranzo del mio caro Stefano Arturi (che ringrazio ancora e ancora per tutte le idee e le bontà che tanto generosamente decide di condividere con quanti lo vogliano).

Cominciamo dal lemon curd.

Non spaventatevi per gli ingredienti; sono bizzarri, ma la loro combinazione, ve lo garantisco, è paradisiaca. Se vi piace il limone, questa diventerà, ne sono sicura, la vostra 'marmellata' preferita (da gustare con moderazione, come avrete certamente capito da soli).

per un vasetto da 400 gr.

2 uova + 1 rosso
100 gr. di burro
175 gr. di zucchero
la buccia finemente grattugiata e il succo di 3 limoni

Sciogliete a bagnomaria su fuoco dolcissimo il burro, aggiungete lo zucchero, la buccia e il succo dei limoni ed infine le due uova e il rosso, che avrete precedentemente battuto leggermente con una forchetta.
Mescolate per circa 10'.
Quando il composto vela il mestolo di legno, è pronto.
Invasate in un barattolo sterilizzato (in genere io lo lavo con acqua calda e sapone, lo asciugo e, accanto al suo tappo, lo metto in forno a 150° per 10').
Conservate in frigo fino a due settimane.

E questa è invece la marmellata di cipolle, che ovviamente non è pensata per accompagnare il tè delle quattro, ma un bel piatto di bollito, una braciolina di maiale, ma soprattutto un ricco piatto di formaggi saporiti (ma io l'adoro e la mangerei praticamente con qualunque cosa).

per 2 barattoli da 400 gr.

25 gr. di burro
675 gr. di cipolle, tagliate fini (io ne ho usate di bianche)
150 gr. di zucchero
1 cucchiaino di sale
1 cucchiaino di pepe macinato al momento
100 ml. di aceto balsamico
250 ml. di vino rosso (usate tranquillamente anche i resti di una bottiglia già aperta; se invece siete degli irresponsabili, o non avete nessuna bottiglia di vino aperta a languire in cucina, aprite pure un Bordeaux Château Saint-Germain del 2000)

Sciogliete il burro in una padella, aggiungete le cipolle, lo zucchero, il sale e il pepe.
Incoperchiate e fate cuocere a fuoco dolce, mescolando di tanto in tanto, per circa 30', trascorsi i quali togliete il coperchio e aggiungete l'aceto e il vino.
Fate cuocere per altri 30', questa volta senza coperchio.
La marmellata si sarà ispessita e avrà riempito la vostra cucina di un sublime profumo.
Invasate nei soliti barattoli sterilizzati.
Si conserva per mesi.
Una volta aperta, tenetela in frigo, dove è possibile che il burro si solidifichi un po' (basta però mescolarla, se la cosa vi indispone).

Se decidete di regalare queste due prelibatezze a qualcuno (che si spera meriti tutta questa bontà), spendete cinque minuti in più per fare anche un bigliettino con su scritto gli ingredienti e le modalità di conservazione.
E se proprio non volete farvi mancare quel tocco un po' lezioso-finto country-stile Nonna Papera (per me imprescindibile, ne converrete, dato il mio soprannome), coprite il tappo con uno scampolino di stoffa colorata. Basterà poi dello spago per arrosto (o, se siete un filo più sofisticati di me, un bel nastrino) e il vostro barattolo sarà bellissimo. E unico.

Le altre due, la prossima volta.

Enjoy!

giovedì 10 settembre 2009

Dei legami di sangue e delle affinità elettive, e di una torta di limone e mandorle


Da anni credo di esser arrivata alla conclusione che la famiglia, tradizionalmente intesa, non fa per me.

Sono sempre stata insofferente a quella morale spicciola e piccina per la quale i legami di sangue sono sacri e bisogna farsi piacere, anzi, amare, chi per accidente o per destino si trova a condividere con noi un cognome, un'origine comune.
Ancora più insofferente sono di fronte a quegli obblighi ipocriti per cui bisogna comunque accogliere nella propria vita (anche se solo per le feste comandate, per la rituale telefonata di auguri) la zia dispotica e snob, il cugino borioso dal quale tutto ci divide - dalle idee politiche ai gusti gastronomici -, il fratello o la sorella con i quali si sente di non aver un terreno comune sul quale incontrarsi.

A rischio di apparire patetica, ho sempre confusamente sentito di azzeccare ben poco col resto della mia famiglia e credo che anche i miei familiari abbiano sempre pensato la stessa cosa, benché in modo del tutto inconsapevole (anzi, sono certa che negherebbero energicamente qualunque affermazione di simile tenore).
Se quando ero più giovane la cosa era fonte di struggimenti a volte rancorosi e di malinconiche nostalgie di una famiglia che non avevo mai avuto, ma che, da qualche parte, in qualche luogo, ero certa mi attendeva a braccia aperte, crescendo ho imparato a farmi una ragione di questa mia 'incongruenza', ad accettarla come ho accettato di avere gli occhi castani e non di un bellissimo grigio, come una delle mie sorelle.

La famiglia, per me, la si crea: negli anni, vivendo, intessendo giorno dopo giorno quella rete di affetti e intimità le cui maglie sono (o dovrebbero essere) sempre morbide, elastiche, come quelle delle reti di protezione nei circhi, resistenti per poter ammortizzare gli urti degli acrobati volteggianti, lasche quel tanto per non sentirsi presi in lacci troppo stretti.

La famiglia è dunque, per me, d'elezione: composta per lo più di amici, ma anche (se si è fortunati) di fratelli e parenti, con i quali si dà vita ad un tessuto di condivisione e comunione, con cui si parla un linguaggio comune, spontaneo, aperto, il più possibile aderente al proprio e all'altrui sentire.

Ai rappresentanti di questa famiglia ci si rivolge in primis per piacere, perché è bello vivere con loro e attraverso di loro e, qualche volta, anche per bisogno.

A loro si può chiedere, ad esempio, di accompagnarci alle dieci di sera di una domenica a portare in una clinica veterinaria un gatto moribondo in preda a crisi convulsive che ulula come un licantropo e si piscia addosso, certi che di buon grado si toglieranno il pigiama che avevano già indossato, pregustando una lunga e serena notte di sonno, e si metteranno una polo e un paio di jeans, attendendoci sotto casa con un bel sorriso stampato sulle labbra e distraendoci con discrezione e delicatezza dalla nostra ansia e dalla nostra pena parlandoci di vacanze e di bambini.

Ai rappresentanti di questa famiglia, che alla bisogna e senza alcun risentimento - a volte, anzi, con un gusto divertito del trasformismo - vestono i panni di ambulanzieri, psicologi, muratori, tassisti, tecnici informatici e della tv, architetti e chi più ne ha più ne metta, è giusto, trasformandoci noi stessi in cuochi, preparare con commossa riconoscenza una torta da mangiare a colazione.

Una torta semplice, casalinga, non celebrativa; una di quelle torte oneste che si fanno senza quasi pensarci, per sfamare, appunto, una famiglia.




Torta di limone e mandorle (da Twelve di Tessa Kiros)


per una tortiera a cerniera di 20 cm. di diametro

125 gr. di burro, morbido
125 gr. di zucchero
3 uova, separate
125 gr. di mandorle macinate (non troppo fini)
60 gr. di farina (setacciata)
1 cucchiaino di lievito per dolci
succo e scorza grattugiata di 2 limoni medio-piccoli
zucchero a velo


Preriscaldate il forno a 180°, imburrate e infarinate la tortiera.

Lavorate con la frusta il burro e lo zucchero fino a quando non siano cremosi.
Aggiungete uno alla volta i tre tuorli.
Unite le mandorle, la farina e il lievito.
Ora è la volta del succo e della scorza dei limoni.
Infine aggiungete gli albumi, che avrete montato sofficemente in una ciotola.

Versate il composto nella tortiera e cuocete per 35-40', fino a quando il solito stecchino infilato al centro non esca pulito.

Lasciate riposare su una gratella, poi aprite la cerniera e liberate la torta.

Servite tiepida, spolverata di zucchero a velo (ma è buona anche fredda).

Mangiatela rendendo grazie alla vostra famiglia, qualunque essa sia, che è con voi, soprattutto, si spera, per gioire, ma a volte anche per piangere.

Enjoy!

martedì 8 settembre 2009

A Birillo


Questo non è un post.

E' un piccolo omaggio a Birillo, il gatto buffo dei fumetti che per quasi otto anni ci ha divertiti, coccolati, consolati, intrattenuti, a volte esasperati e tormentati, ma che, soprattutto, ci ha molto, moltissimo amati.

Come noi abbiamo amato lui.

domenica 6 settembre 2009

Le cosmicomiche e Ti con zero di Italo Calvino

Recentemente ho riletto questo libro e il suo 'predecessore', Le cosmicomiche, meravigliandomi, come mi accade ogni volta che riprendo in mano Calvino, del perché io mi ostini a leggere altri autori, quando forse potrei limitarmi a leggere solo lui, tanto infiniti e di qualità eccelsa sono gli stimoli che anche solo una mezza sua pagina è in grado di offrirmi.


Rispetto a Le cosmicomiche, Ti con zero mi sembra porti ancora più all'estremo quel gioco della fantasia e insieme quella sfida tutta cerebrale che molto ha a che fare con l'inesausta ricerca formale e l'eterna fascinazione di Calvino per il pensiero e il gioco 'combinatorio', ed alcuni passaggi sono dei veri e propri viaggi allucinati, delle spericolate acrobazie linguistiche e concettuali, eseguite dall'autore con maestria e leggerezza assolute, come fosse un funambolo che cammina disinvolto su una fune sospesa su un abisso, un sorriso divertito e rilassato sul bel volto virile.


Confesso che a tratti sono stata letteralmente presa da vertigini: penso a certi racconti, come quello che dà il titolo all'intero libro, una riflessione ardita e non priva, come al solito, di arguzia e ironia, sul tempo; o ancora "L'inseguimento", e forse il mio preferito in assoluto dell'intero libro, "Il guidatore notturno", una paradossale e a tratti amara meditazione sulla difficoltà per l'uomo moderno di comunicare in modo incisivo, essenziale ed autentico con i propri simili.


Rispetto a Le Cosmicomiche, per i miei gusti, in questo testo il gioco si fa eccessivamente cerebrale, ed io continuo invece a preferire il Calvino che dà voce agli aspetti più umani e caldi della realtà: quanto abile è nel delineare panorami di incredibile ricchezza e complessità fantastica e tutte le circonvoluzioni della mente, anche le più spinte e arrischiate, tanto è preciso e insieme compassionevole e attento nel ricreare sulla pagina i meccanismi labili e irrazionali dei sentimenti e la fragilità e l'intensità della vita del corpo. E questo penso dipenda dal fatto che, come credo si possa dire di ogni vero, grande scrittore, Calvino è stato prima di tutto, evidentemente, un grande uomo, che ha vissuto con intensità, partecipazione e totale e assoluta adesione, la vita che gli è stata concessa di vivere.


Per me rimane, sempre e comunque, una miniera inesauribile di divertimento, di riflessione e di assoluta e pura delizia: che una mente tanto geniale e tanto curiosa della vita e del mondo abbia voluto metterci a parte delle sue gioiose, libere e coraggiose incursioni nella realtà è, e sarà sempre per me, fonte di stupita e commossa gratitudine.



Italo Calvino, Le cosmicomiche, 1965 e Ti con zero, 1967.





sabato 5 settembre 2009

Della pigrizia, della curiosità e di alcune zucchine tonde farcite



Ciò che non si conosce, si sa, ispira a tutta prima diffidenza.
Se poi si aggiunge anche la forza della consuetudine, l'inerzia e la pigrizia che spingono a scegliere il consueto, il noto e il rassicurante, si capirà perché in quasi 37 anni di vita io non avessi mai mangiato le zucchine tonde.

Poi, una ricetta in Chocolate & Zucchini di Clotilde Dousulier (di lei e del libro ho già parlato qui) mi ha fatto venire una certa curiosità, quel sentimento che può spingere l'uomo tanto a superare gli angusti limiti del proprio orizzonte alla scoperta di nuovi mondi e nuove dimensioni, quanto ad origliare o ad attaccarsi allo spioncino della porta di casa per controllare i movimenti dei vicini sul pianerottolo.

In casa mia, le zucchine sono sempre state lunghe, e sempre cucinate negli stessi modi: con pomodoro e cipolla, una delle mie versioni preferite; a frittata o a sformato.
Ripiene, mai; ripieni erano solo i pomodori, e solo di riso.
Perché?
Bella domanda, alla quale, probabilmente, si sarebbe risposto con un esauriente e articolato "Perché è così e basta", uno dei princìpi sui quali si è basata la mia educazione e la mia vita in famiglia.

Quando ero piccola, noi figli non avevamo la benché minima possibilità di esprimere i nostri desideri riguardanti il cibo: non eravamo interpellati in occasione della spesa settimanale, nessuno ci chiedeva "Che ne dici stasera di mangiare...?" e, come mi pare di aver più spesso raccontato, i nostri gusti non venivano presi in considerazione, ad eccezione che nel giorno del nostro compleanno, in occasione del quale veniva infranta la ferrea regola che la prole, in casa nostra, non decideva niente.
Non ho mai attribuito ai miei genitori una tendenza al sadismo (l'avessi fatto, la mia vita sarebbe forse stata, in passato, più semplice), quanto un'evidente esigenza pratico-logistica (sfamare 4 figli dev'essere un po' un delirio, se è vero che spesso lo è anche sfamarne uno solo) che faceva dimenticare qualsiasi altra considerazione e una particolare ottusità che li induceva a vederci come esseri solo parzialmente umani e più appartenenti al mondo dei cuccioli degli animali e, in quanto tali, privi di qualunque diritto a sindacare le scelte genitoriali.

Per anni, per la mia festa, ho scelto il coniglio fritto alla toscana e le patatine, sempre fritte, 'a cancelletto', tagliate cioè con uno dei tanti, surreali e deliranti attrezzini di cui mio padre è sempre stato inesausto collezionista (un altro grande classico è quello che serve a fare le uova sode quadrate) e che trasformava le fette di patate in tante piccole grate: da ogni tubero se ne ricavavano forse 5 o 6, della stessa dimensione; uno spreco pazzesco, dunque, che, al di là di quell'unico giorno all'anno, non sarebbe stato tollerato per nessuna ragione.

Crescendo, mi sono accorta di quanti cibi i miei genitori non mi abbiano mai fatto assaggiare: e non parlo di piatti raffinati al di là della portata delle loro tasche (ho assaggiato le mie prime ostriche solo nel 2003, durante una vacanza in Bretagna, e un'aragosta due anni fa, a Zanzibar), o esotici (mai entrato un grano di couscous in casa nostra, per non parlare di spezie che non fossero quelle 'canoniche' pepe-noce moscata-bacche di ginepro-chiodo di garofano), ma anche di verdure peraltro abbastanza comuni, come le melanzane violette e le zucchine tonde di cui parlavo in principio.

Se tra i tanti, tantissimi lati positivi di cui mi beo nella mia condizione di adulta annovero proprio la possibilità di scegliere che cosa mangiare, una delle caratteristiche del mio carattere che meno mi dispiace è la mia curiosità e la mia disponibilità a sperimentare (almeno in ambito gastronomico): portatemi in un nuovo ristorante, fatemi assaggiare un piatto di cui non ho mai sentito parlare, iniziatemi alle delizie di una cucina etnica di cui non conosco nulla e mi avrete resa felice.

Dunque, qualche mese fa, mentre concentratissima facevo la spesa al supermercato vicino casa, l'occhio mi è caduto su 4 belle zucchine tonde: erano perfette e sembravano quattro signore pienotte e paciose, belle lustre e serenamente mature. Mi sono ricordata di quella ricetta della Dusoulier che una parte del mio cervello aveva archiviato nella categoria: 'interessante, da provare' e le ho comprate.

Ed eccola, dunque, la ricetta, praticamente identica:



per 2 persone

4 zucchine tonde
100 gr. di bulgur
1 cipolla, tagliata finemente
cannella
peperoncino (se volete)
30 gr. caprino
menta
2 cucchiai di pinoli tostati in un padellino antiaderente

Preriscaldate il forno a 200° e ungete appena una pirofila con dell'olio di oliva.

Dopo averle lavate e asciugate, tagliate le zucchine a circa 1/3 della loro altezza.
Con una svuota meloni rimuovetene la polpa e sistematele nella pirofila. Conditele con mezzo cucchiaio di olio d'oliva, sale e pepe. Fatele cuocere per 25': devono essere morbide ma non sfatte (dovete riconoscerle, diciamo così, non interrogarvi su dove siano andate a finire le vostre belle zucchine tonde e se quella massa informe e dal colore imprecisato e poco attraente nella pirofila abbia con loro la benché remota connessione...).

Intanto, cuocete il bulgur seguendo le istruzioni sul pacchetto. Io lo preparo come il couscous: lo bagno in tanta acqua bollente quanto il suo volume (in questo caso, dunque, per 100 gr. di bulgur circa 100 ml. di acqua) e gliela lascio assorbire per 10-15'.

Nel frattempo soffriggete in poco olio d'oliva la cipolla tagliata fine e lasciatela appassire. Aggiungete la polpa delle zucchine, salate, pepate e incoperchiate (si dice?).
Dopo 5' togliete il coperchio e lasciate cuocere ancora fino a quando non sia rimasto nessun liquido di cottura (direi altri 5'). Togliete dal fuoco e lasciate raffreddare.

Quando avrete tolto i gusci delle zucchine dal forno, disponeteli a testa in giù su un piatto foderato di scottex (lasciate acceso il forno).

In una ciotola capiente mescolate la polpa delle zucchine cotta in padella con la cipolla, il bulgur, una punta di coltello di cannella (io tendo sempre a esagerare, perché la adoro), il peperoncino (se lo volete usare), il caprino, la menta e i pinoli tostati. Assaggiate e, se il caso, aggiustate di sale e pepe.

Riempite con questo composto le quattro zucchine, poi appoggiate su ognuna di queste signore il suo leggiadro cappellino (a me piace metterlo leggermente di sbieco, mi pare dia loro un'aria vagamente impertinente).
Rimette in forno e cuocete per circa 15'.

Sarebbe meglio servirle tiepide, non bollenti, ma anche a temperatura ambiente sono ottime.

Io, la prima volta che le ho mangiate, mi sono ritrovata immersa in interessanti riflessioni riguardo tutte le esperienze alle quali la mia pigrizia, o la mia ignoranza, ancora mi impediscono di abbandonarmi.
Mentre masticavo l'ultimo, saporito boccone, mi sono ripromessa di fare, ogni volta che me ne ricordi o ne abbia l'occasione, qualche nuova 'conoscenza', almeno in campo gastronomico.
Nella peggiore delle ipotesi, ci avrò guadagnato un mal di pancia.
Nella migliore, un piccolo assaggio di felicità sulla terra.

Mi sembra un buon affare comunque.

Enjoy!