sabato 31 ottobre 2009

Non avevo capito niente di Diego De Silva

Vincenzo Malinconico è un avvocato napoletano che ha da poco superato i 40.
Ha un divorzio alle spalle, con Nives, che fa la psicologa e lo psicoanalizza ogni due per tre, facendolo sempre sentire inadeguato e idiota, con cui ogni tanto, però, finisce a letto.

Ha due figli, Alfredo e Alagia (figlia di Nives con un altro uomo) che ama con appassionato pudore.
Alfredo ha 15 anni, è mingherlino e intelligente e porta avanti da un po' una sua personale indagine sulla microcriminalità. Ogni volta che in strada vede scippare una vecchia o pestare qualcuno o rubare un motorino, si avvicina al delinquente e cerca di intervistarlo. Non ha paura, perché, dice lui, le cose, quando ci vai vicino, sono sempre meno peggio di come le raccontano.
Ovviamente finisce sempre per farsi pestare a sangue. Il che non gli impedisce di continuare nella sua indagine.

Alagia è all'università e con Vincenzo si incontra all'aeroporto per mangiare di nascosto degli orridi cheeseburger (che solo al fast food dell'aeroporto fanno come Cristo comanda, belli unti e malsani), in modo che Nives, fissata con l'alimentazione salutista, non lo venga a sapere.

Vincenzo viene scelto dalla camorra per difendere Mimmo o' Burzone, uno di quei tanti che fanno parte della manovalanza camorrista, un operaio specializzato, per così dire, che si occupa di far sparire i cadaveri di quanti hanno dato fastidio. Li fa a pezzi nel suo garage, li mette in grosse borse (da qui il soprannome) e poi va in giro per le campagne a sotterrarne una mano lì, un piede là.

Dopo aver cercato di esimersi, Vincenzo alla fine accetta, quasi suo malgrado, quasi senza accorgersene. Per questo, per tutto il romanzo avrà alla calcagna Tricarico, un energumeno alto un metro e mezzo con le braccia da orango e una forza sovrumana, che un po' lo controlla un po' gli fa da angelo custode, pestando chiunque venga ritenuto disturbare o importunare il suo protetto.

Vincenzo ha una collega, Alessandra Persiano, una bellissima donna (che come tutte le belle donne sa un po' di frutta) che tra tutti quelli che le fanno le bave dietro, sceglie proprio lui e se ne innamora.

Perché Vincenzo è il tipico antieroe, tendenzialmente un po' sfigato: guadagna poco, non ha fatto carriera, è stato mollato dalla moglie, insomma ce l'avrebbe tutte per passare non solo inosservato, ma anche per essere girato alla larga da una donna.
Invece, come molte donne sanno, questo tipo di uomo, se ha anche senso dell'umorismo, una spiccata tendenza a filosofeggiare un po' su tutto (dalle fasi dell'amore alla musica rock, da Alone, again di Gilbert O'Sullivan all'arredamento tipico di certi bar della camorra), un'insopprimibile tenerezza nei confronti dei veri deboli e un'altrettanto insopprimibile indignazione nei confronti dei falsi potenti e degli arroganti e non ha paura di mostrarsi un po' Paperino, è un richiamo irresistibile per una buona parte del genere femminile.

Se è anche un impulsivo che agisce spesso seguendo solo l'intuito e la passione del momento, certi slanci forti di generosità anche un po' suicida, la frittata è fatta. Di un uomo così ci si innamora, eccome.

Io, per lo meno, me ne sono innamorata. Anche se Vincenzo Malinconico è un personaggio di carta, come non ci si può innamorare di uno che dice cose del genere?
Leggete:

Non so perché quando accendo la tv di mattina metto sempre il notiziario di Canale 5. Io lo odio, il notiziario di Canale 5. Soprattutto la sigla. Quella sigla tremenda che pare fatta per ricordarti le cose terribili che succedono là fuori. Secondo me la musica catastrofica del notiziario mattutino di Canale 5 è studiata per farvi venire paura di uscire, così puoi rimanere a casa a guardare i programmi di Canale 5.

Non sopporto le persone che rispondono a monosillabi e poi non dicono più una fetente di parola. Roba che, dopo un po' che quel silenzio di merda ristagna fra te e loro, ti viene voglia di dirgli: "Ehi, vaffanculo".

Alle parole a volte pacate, a volte frementi di sana incazzatura di Vincenzo Malinconico, De Silva affida anche una bella analisi del fenomeno della camorra. Dietro l'ironia, il gusto per il paradosso e la leggerezza con cui è porta questa riflessione, si legge benissimo la malinconica, stanca tristezza che un campano deve provare per come sono state ridotte la sua terra e la sua gente.

Prendiamo uno degli aspetti più noti della gestione del potere camorristico: il controllo del territorio. Fino a qualche anno fa era impensabile morire ammazzati per un telefonino, o per quattro soldi prelevati dieci minuti prima a un bancomat. La vigenza rigorosa di un sistema normativo occulto, che non consentiva il compimento di alcun atto delinquenziale al di fuori di quelli previsti o specificamente autorizzati dalla camorra, era una condizione imprescindibile dell'esercizio del suo potere.
Oggi, per le strade, scorrazza una criminalità indistinta, genericamente camorristica, sostanzialmente irresponsabile, che pratica una violenza assolutamente sperequata rispetto ai suoi obiettivi delinquenziali. E tu puoi venire sparato per una rapina da quattro soldi, o perché hai reagito alla provocazione di un bulletto esaltato in cerca di rogne, o semplicemente perché hai avuto il torto di guardare qualcuno in un modo che ha capito solo lui.
Al che uno si domanda: dov'è la camorra? Perché non interviene? Ha trasferito altrove i suoi interessi? Il territorio ha smesso di importarle? Dov'è che esercita adesso?
Se la camorra non può essere sconfitta, liberi almeno la cittadinanza dalla barbarie della criminalità disorganizzata. Non abbandoni le sue vittime. Che torni in trincea, rendendo praticabili le strade.
Vogliamo una camorra sostenibile.

Fatevi un regalo, uno di questi giorni.
Leggetevi questo libro.
Innamoratevi anche voi di Vincenzo Malinconico.



Diego De Silva, Non avevo capito niente, Einaudi 2007.


domenica 25 ottobre 2009

L'amico delle donne di Diego Marani

Ho letto recensioni contrastanti su questo ultimo romanzo di Diego Marani.
Alcune, scritte da donne, molto molto critiche. Altre, scritte per lo più da uomini, molto più generose (e la cosa, di per sé, mi sembra già molto interessante. Un giorno che ho più tempo mi riprometto di rifletterci per benino).

Quanto a me, sinceramente non so bene che cosa pensarne. E' un libro che mi ha suscitato molte riflessioni, senz'altro, ma dalla lettura per me assai poco amena e che ho trovato, a tratti, di una pesantezza micidiale e indigesta.

Comincio col dire, forse contraddicendomi, che Diego Marani mi fa simpatia; prima di tutto uno che si inventa una lingua nuova, l'europanto, con il quale ha tenuto per anni una rubrica su un giornale svizzero, non può non starmi simpatico.
Poi perché è nato a Ferrara, e a me quelli che sono nati in Emilia (ma anche in Romagna) mi stanno simpatici d'ufficio.
Hanno quasi sempre, oltre a quella parlata irresistibile, quei bei faccioni sereni, quell'atteggiamento benevolo nei confronti della vita e del prossimo, eppure sono anche persone spesso capaci di appassionati slanci, utopistici e ideali.
E' un'immagine oleografica e pittoresca, lo so. Ci saranno anche rispettabilissimi figli 'ntrocchia tra quei simpaticoni, non lo metto in dubbio (io, però, non ne ho mai incontrati, a dire il vero). E' fatale. E' la vita.
Ma per me gli emiliani e i romagnoli sono tutti così: bonari, bendisposti, sempre pronti a risolver tutto con uno gnocco fritto o un piatto di tortelli e ad offrire con generosità un bicchiere di Lambrusco.

Per tornare al romanzo, penso che la sua cifra caratteristica sia lo squallore.
Non quello morale che pure ho visto attribuire al protagonista, in molte di quelle recensioni femminili cui accennavo all'inizio. Lo squallore in generale.
Ambientato a Trieste, città che credo chiunque potrebbe definire in molti modi, ma che si potrebbe difficilmente caratterizzare come 'squallida', il romanzo riesce nell'impresa di presentarcene gli aspetti meno romantici e attraenti, introducendoci in case semi fatiscenti, coi muri offesi dall'umidità, i mobili velati di polvere, le cucine in cui muffiscono strofinacci e spugnette per i piatti e portandoci in strade periferiche e ingrigite da una sonnolenta malinconia.

Il protagonista di questo romanzo si chiama Ernesto e quella Trieste tanto triste e sottotono in cui si muove è il suo, se così si può dire, correlativo oggettivo.
Ernesto è professore in un liceo e conduce un'esistenza opaca e tutto sommato solitaria.
E' un uomo ossessionato dalle donne. Non riesce a vivere senza di loro, senza il brivido che gli dà l'innamorarsene e il conquistarle. Per farlo, si ingegna, attinge ad ogni sua risorsa: inventa gentilezze, premure, attenzioni che ogni donna vorrebbe vedersi riservate; crea, ogni volta, un Ernesto nuovo, un personaggio fittizio, fatto su misura per la donna di turno.

Non è mai diretto nei suoi approcci, Ernesto. La prende alla larga, si insinua piano piano nel cuore delle sue donne: le studia, le osserva, ne memorizza gusti, simpatie, idiosincrasie, ne diventa amico, ne conquista la fiducia, le lusinga, le fa sentire speciali, uniche, dee, le ubriaca di attenzioni, fa loro intravedere paradisi di romanticismo e delicatezze, sempre mantenendosi corretto, rispettoso, mai volgare, mai rapace.
Le porta quasi all'esasperazione, con il suo modo di fare la corte al tempo stesso esplicito e sfuggente; sono quasi sempre loro che alla fine gli si buttano addosso. Quello è il suo momento di trionfo: quando la donna del momento, vagheggiata fino allo spasimo e alla demenza, 'circuita' con garbata tenacia, infine si arrende all'assedio, anzi, si lancia direttamente dalle mura della città tra le braccia del suo implacabile e appassionato assediante.

Ma subito dopo, appena le ha fatte sue, altrettanto alla larga, Ernesto le sue donne comincia ad abbandonarle. E qui, alcune recensioni femminili hanno detto di lui peste e corna: è uno sfruttatore, una sanguisuga, uno squallido sciupafemmine; insomma, uno di quei figuri un po' tristi, un po' criminali, che quasi tutte le donne, almeno una volta nella vita, si sono trovate di fronte e dai quali, più spesso di quanto avrebbero voluto, si sono fatte anche portare in giro, magari per un bel po'.

Io non credo sia questo il punto. Ernesto non è un conquistatore seriale, se così si può dire; non è un narcisista, un egocentrico, e nemmeno un eterno Peter Pan. Non è uno squalo sempre alla ricerca di una nuova preda, di carne fresca da straziare. Non è un forzato della conquista, un Don Giovanni di provincia che si vanta del proprio carniere.

E' un uomo solo, incapace di entrare realmente in contatto con se stesso e con il mondo. Non è che si stufi delle donne perché alla fin fine lo annoiano o lo deludono.
E' solo che non è capace di appassionarsi realmente a nulla: non al suo lavoro, non ai suoi studenti, nemmeno a quelle donne che, pure, per qualche mese, quelli in cui egli cerca di conquistarle, riescono a fargli vivere gli stati estremi del desiderio, dello struggimento, della poesia.

Non so capire se Ernesto si appassioni solo a se stesso.
Forse sì, forse è questa la sua unica, grande, infinita, vera storia d'amore e, se si innamora, si innamora solo del suo modo appassionato e fasullo di innamorarsi, di quell'Ernesto cavaliere delle fiabe, gentile e insieme ardito, cortese e trepidante come un trovatore provenzale, creatura fittizia che induce le sue donne a credere reale e nella cui esistenza, alla fine, crede anche lui, come un'illusionista che finisca per incantare anche se stesso, oltre agli spettatori.
O forse no, ché alla fine queste donne si riprendono, tornano alla vita, vanno avanti, si vogliono bene; mentre lui, invece, rimane sempre ostaggio delle proprie fantasie, scollate dalla realtà, si nega alla vita e all'amore, dunque non si vuole bene, non si ama e non si piace.

Delle uniche due donne che in fondo gli sfuggono e si sottraggono al suo abbraccio avvolgente e al suo lento ma inesorabile ritrarsi, la giovanissima Lucia (con cui pure ha un'appassionata e torrida relazione sessuale) e la slovena Jasna (che si fa brancicare un po' sui sedili posteriori di una corriera solo per aiutare il suo fidanzato carrozziere cui Ernesto porta, di contrabbando, alcuni fanali di auto [tanto per parlare di squallore...]), Ernesto fa in fondo un'unica donna, alla quale infatti manda la stessa identica lettera, in duplice copia, nella quale scrive, con accenti ispirati e malinconica mestizia, di quella vita che insieme avrebbero potuto avere e non hanno avuto, di quell'amore bello e immortale, appena intravisto, che avrebbe potuto unirli e non li ha uniti.

Una storia trita e ritrita, insomma, già vista e sentita infinite volte, da tutti noi.
E molto triste.


Diego Marani, L'amico delle donne, Bompiani 2008.

giovedì 22 ottobre 2009

Di biblioteche e ricerche, della contorta mentalità femminile e dell'ennesima torta al cioccolato



Chi mi conosce sa molto bene che in questo periodo sto traducendo un libro che mi crea un po' di problemi (me ne lamento in continuazione stile piaga, per dirla tutta).

Non entrerò nei particolari (sono tediosi); mi limiterò a dire che è un libro scritto dolorosamente male, cui sto cercando di restituire un minimo di grazia e che, trattandosi di un'opera con velleità accademiche, e dunque traboccante di citazioni tratte da ogni genere di testo (con una predilezione per astrusi trattati di argomento esoterico risalenti, per lo più, al periodo ellenistico; tanto per darvi un'idea di quanto mi stia divertendo), mi costringe a recarmi più spesso di quanto vorrei alla Biblioteca Nazionale e a trascorrerci dentro intere mattinate.

Anche perché l'autore del suddetto libro (o, più probabilmente, il redattore incaricato di seguirne la pubblicazione per la casa editrice inglese per i cui tipi è uscito) non si è premurato di verificare un'ultima volta la correttezza dei molteplici rimandi bibliografici, dunque confonde, come se niente fosse, gli Annali di Tacito con le sue Storie (ma sì, che differenza fa?!), tanto per dirne una, e mi manda ai pazzi facendomi cercare ciò che devo cercare lì dove è sicuro che io non possa trovarlo, perché in realtà è da un'altra parte.
Disorientati? Bene, è come mi sento io.

Credo di non aver mai perso tanto tempo come in questi giorni, se si escludono i mesi che anni e anni fa trascorsi, sempre alla Biblioteca Nazionale (ma di Roma), per la mia laurea, alla ricerca di orridi libri sull'emigrazione femminile.

Non so per quale motivo queste grandi biblioteche abbiano sempre delle regole cervellotiche che disciplinano il prestito e la consultazione in modi che dovrebbero, in teoria, favorire entrambe le parti in causa (i bibliotecari e gli utenti) e che invece a entrambe finiscono per far venire un esaurimento nervoso.

Come che sia, da quella bolgia dantesca non riesco ad andarmene mai prima dell'ora di pranzo. Per fortuna la Biblioteca non è lontana da casa. Il tempo di avvertire per telefono la Spia che tra qualche minuto sarò di ritorno e sono già lì.

La Spia, che è un uomo gentile e tendenzialmente alieno da certe perversioni del pensiero machista per cui un vero uomo non entra in cucina se non per aprire il frigorifero e ingurgitare qualcosa, ieri ha pensato bene di farmi trovare il pranzo pronto. E non un pranzo qualsiasi: gnocchi.

Se non che, qualcosa è andato terribilmente storto. Quando sono entrata in casa e l'ho salutato, ho sentito provenire dalla cucina un grugnito poco rassicurante.
L'ho trovato sull'orlo di una crisi isterica, in una cucina letteralmente devastata, con gnocchi attaccati sugli occhiali, sulle sopracciglia e sul maglione (oltre che su quasi qualunque superficie lì intorno), a bofonchiare improperi: ci ho messo almeno un paio di minuti per capire che ce l'aveva con chi ci aveva venduto le patate: lo aveva rassicurato, a suo tempo, che fossero adatte per fare gli gnocchi.

'Adatte per attaccare i manifesti per le strade!' sbuffava la Spia.
In effetti, quell'ammasso colloso e bozziforme che, nell'attesa di essere calato nell'acqua bollente, faceva bella mostra di sé un po' ovunque, tutto sembrava tranne che degli gnocchi.
La Spia mi ha raccontato la sua odissea, di come avesse perso più di un'ora cercando di far assumere a quell'impasto appiccicoso una parvenza di consistenza e di come, per farlo, avesse finito per usare circa mezzo chilo di farina per quattro etti di patate (!).

'Saranno immangiabili!', tuonava in preda alla disperazione.
La mia Spia io la conosco bene e so che non c'è niente di meglio, per rabbonirlo in simili situazioni, che compatirlo un po'.
Qualche minuto di 'Povera Spia, lo fanno arrabbiare, ce l'hanno tutti con lui' ed eravamo entrambi impegnati a salvare il salvabile, facendoci finanche dell'umorismo (con cautela, sempre con cautela, ché ci vuole un attimo a ripiombare nel dramma).

C'è stato un altro momento di crisi quando, osservando i primi gnocchi riemersi dall'acqua, la Spia si è fatto prendere dallo sconforto notando che non c'era traccia del 'ricciolino' (che aveva impiegato tanto tempo a creare con la forchetta su ogni singolo grumo di impasto); ma l'abbiamo superato, concentrandoci invece sul sugo di pomodoro fresco, che pareva assai promettente.

In definitiva, posso affermare con tranquillità che quella cosa che abbiamo mangiato ieri a pranzo non era affatto malvagia.
Che non fossero degli gnocchi di patate era fuori discussione, ma qualunque cosa fosse, con quel buon sugo di pomodoro e un'abbondante dose di pecorino, si è fatto mangiare con piacere.

Nel pomeriggio, volendo risarcire la povera Spia con una crostata (me ne chiede una da qualche settimana), mi sono accorta, però, che eravamo senza farina: il famoso mezzo chilo da lui utilizzato per gli gnocchi era l'ultimo.

Dovendo dunque usare quella autolievitante, ho deciso di fare la torta che effettivamente avevo già pensato di fare da un po', e che avrei comunque trovato il modo di fare, benché avessi promesso da tempo alla Spia di fargli la crostata (sembra complicato e cervellotico, ma è solo il modo in cui, qualche volta, noi donne otteniamo quello che vogliamo, facendo però finta di non volerlo ottenere).

E dunque, ecco la ricetta di questo post, che non è quella degli gnocchi (sia mai), né quella della crostata, ma di una strana torta della cara Nigellona, che lei chiama store-cupboard chocolate-orange cake (vale a dire una torta di cioccolato e arancio da fare con cose che si trovano in dispensa), molto densa e profumata.

La ricetta è tratta da How To Be a Domestic Goddess

per una teglia di 20 cm. di diametro

125 gr. burro
100 gr. di cioccolato fondente
300 gr. di marmellata d'arancia (Nigellona intima di usarne una senza pezzi di buccia o polpa; io ne ho usato una proprio così, invece, e credo non sia male affatto)
150 gr. di zucchero
sale
2 uova grandi, leggermente battute
150 gr. di farina autolievitante

Preriscaldate il forno a 180°. Imburrate e infarinate lo stampo.

In un pentolino e a fuoco dolce mettete a fondere il burro.
Quando è quasi del tutto sciolto aggiungete il cioccolato a pezzi e mescolate per qualche secondo; poi spegnete il fuoco, allontanate il pentolino dal fornello e continuate a mescolare fino a quando il cioccolato e il burro non siano del tutto fusi e amalgamati.

Versateli in una ciotola, aggiungete la marmellata, lo zucchero, il sale e le uova e mescolate.

Unite la farina, un poco per volta.

Quando tutto è ben amalgamato, trasferite nella tortiera e fate cuocere per 50'-un'ora (il famoso stecchino deve uscire pulito).

Togliete la tortiera dal forno, aspettate 10', quindi liberate la torta e cospargetela di zucchero a velo.

Godetevi la riconoscenza di chi se ne vedrà offerta una fetta e ancora di più lo sconcerto che si dipingerà sul suo volto quando gli direte che dentro c'è quasi un vasetto di marmellata di arance.
Non si sa per quale motivo (o forse sì...), tutte le persone cui ho detto questa cosa hanno fatto facce stranissime e perplesse.
Il che non ha impedito loro di riservirsi di una seconda fetta, pur continuando a brontolare, un po' assenti e tra sé e sé: 'Marmellata di arance! Roba da matti!'.

Enjoy!

martedì 13 ottobre 2009

Sabato di Ian McEwan

Henry Perowne è un neurochirurgo di successo, con una splendida casa nel centro di Londra, una bella moglie della quale è innamorato come il primo giorno, una figlia ventenne amatissima (con la quale non fa altro che polemizzare) dal brillante avvenire di poetessa e un figlio diciottenne enfant prodige del blues britannico. E', insomma, un uomo fortunato, che sembra avere tutto.

Nella sua vita quieta, ma intensa e ricca di sfide e soddisfazioni professionali, tutto è ben regolato e programmato.
Il sabato mattina, che viene dopo una settimana di lavoro spesso massacrante, è dedicato alla partita settimanale di squash con l'anestesista del suo reparto.
Per non arrivare tardi a questo gradito appuntamento, il giorno in cui si svolge tutto il romanzo Perowne ha un banale incidente automobilistico, dalle conseguenze drammatiche, ma non immediate. Si intuisce che questo mortale baciato dagli dèi non se la caverà così a buon mercato (come sembra all'inizio), si capisce che prima o poi una qualche forma di nemesi lo colpirà e gli farà pagare il fio della sua vita perfetta e quasi immemore della disperazione e dello squallore del mondo che lo circonda, dominato dalla paranoia di essere sotto costante minaccia di possibili attacchi terroristici.

Per gran parte del romanzo si segue con crescente angoscia lo scorrere delle ore, in attesa di una catastrofe che però sembra non giungere mai.
Nel frattempo, McEwan vaga con il suo personaggio per le vie di Londra (e noi con lui): lo accompagna a fare la spesa per preparare, quella sera stessa, una cena sontuosa a base di pesce, durante la quale bisognerà ricucire, con tatto e diplomazia, lo strappo che è avvenuto nella relazione tra la figlia poetessa e il nonno materno, gloria della poesia nazionale, ma in crisi creativa da decenni.
Poi fa visita alla madre, Lily, che, da quando ha cominciato a dare segni di demenza senile, vive in un istituto, in una dimensione per lo più serena ma autoriferita e totalmente scollata dalla realtà.

Intanto ci si continua a preparare a qualcosa di orribile che si sa sta per accadere: la tensione sale pagina dopo pagina, ma McEwan ci tormenta con lunghe e soporifere digressioni, a volte decisamente ipertecnicistiche, descrivendoci nei minimi dettagli raccapriccianti operazioni chirurgiche, infinite partite di squash, o compiacendosi nel rendere a parole l'esecuzione di uno strascicato pezzo di blues composto dal giovane Perowne, che sembra non dover mai finire.

Poi il dramma esplode. Finalmente! si è tentati di esclamare, trionfanti, quando si arriva alla pagina in cui tutto accade. E dopo, tutto torna come prima. O forse no.

Nella vita perfetta di Perowne, dopo la deflagrazione provocata dall'irruzione della bruttura e della disperazione del mondo, lo strappo sembra ricucirsi quasi in maniera indolore, tutte le tessere tornano al loro posto ricostruendo nuovamente l'immagine della sua vita armoniosa e risolta.
Ma non è proprio così.

L'uomo che ha aperto il romanzo affacciandosi alla finestra della sua camera da letto, sulla piazza addormentata in piena notte, non è lo stesso che, di nuovo alla finestra, 24 ore dopo, fatica ad abbandonarsi al sonno dopo una giornata allucinante, che lo ha visto toccare con mano la possibilità di veder distrutta, in una frazione di secondo, la sua vita e tutto ciò che ama.

E' un uomo che finalmente, nonostante vi sia a contatto tutti i giorni, ora sa che la morte non è mai troppo lontana da noi e con essa la disperazione e il male e la fragilità degli uomini, e ha capito questa verità sulla sua pelle. Quando si capisce questo, quando veramente si tocca con mano quanto la vita possa essere atroce e spietata e in pericolo, si esce per sempre dall'Eden, ma si incontra veramente l'uomo e, nei casi migliori, si apprende l'arte della compassione.

Il Perowne che nell'ultima riga, disfatto dal sonno e dalla stanchezza, si arrende finalmente all'oblio e alla propria mortalità, ha imparato la sua lezione.



Ian McEwan, Sabato, Einaudi 2005, traduzione di Susanna Basso.

lunedì 12 ottobre 2009

Della creatività, della conoscenza di sé e di un pane con fichi secchi e rosmarino


A parte, forse, una breve parentesi infantile, non sono mai stata una persona creativa, uno di quegli individui talentuosi che riescono a produrre qualcosa che prima non esisteva, nato dalla loro mente, dal loro mondo interiore e che porta per questo, impresso in sé, il loro personalissimo, originale e unico suggello (pur parlando, nei casi più felici, alla sensibilità di tutti).

Si badi bene, però, che all'aggettivo 'creativo' io attribuisco un significato piuttosto ampio.
Non lo applico, infatti, esclusivamente alla sfera artistica. Quando lo uso, non penso alla produzione di un dipinto, una canzone, un libro.
Non solo, quantomeno.

Creativa era, per esempio, Tiziana, un architetto conosciuto anni fa, che con gusto e genialità riusciva ad arredare una casa con materiali di scarto, che non avrebbero detto niente a nessuno e che invece, in qualche modo misterioso e felice, le 'parlavano'.

Creativa era anche Mariza, la cognata di un mio fidanzato, che da un frigorifero semideserto tirava fuori un pranzo e produceva un dessert da leccarsi i baffi partendo da un barattolo di latte condensato e alcune pesche sulla via della pensione.

Creativa è la nostra amica Francesca, che ha la capacità visionaria di capire che, con qualche piccolo ritocco, quella gonna anonima o quel golfino insignificante potrebbero diventare qualcosa di diverso, di assolutamente unico e desiderabile: un orlo più corto o più lungo, qualche ricamo lì, una perlina là e dalle sue mani escono fuori pezzi da boutique che tutti le chiedono dove ha acquistato e che le stanno benissimo (e qui si apre un discorso a me molto caro, quello su quanto bene ci si conosce e quanto bene ci si vuole; Francesca evidentemente ottiene buoni voti in entrambe le materie: si conosce, sa che cosa le piace, ha un gusto suo personale che non viene mai offuscato dalla moda o dai condizionamenti esterni, e si vuole bene abbastanza per volersi vestire come vuole, estranea a qualunque altra considerazione che non riguardi il suo benessere e il piacere che trae dall'indossare qualcosa che la rappresenta in pieno).

Ecco, inteso in questo senso, l'aggettivo 'creativo' non penso proprio mi si possa applicare.
Io sono soltanto un'onesta e discreta esecutrice.
Datemi un modello, qualcosa da copiare, una ricetta, un disegno, un maglione ed io ve lo riprodurrò, con una certa fedeltà e anche con una certa bravura, nei miei giorni più ispirati.
Ma non chiedetemi di inventare qualcosa: nella migliore delle ipotesi ne uscirà fuori qualcosa che ricorderà qualcos'altro; nella peggiore, un'assoluta schifezza.

Quel che mi manca, credo, è proprio la capacità visionaria di cui parlavo prima: la capacità, cioè, di proiettare nello spazio e nel tempo qualcosa che ancora non esiste, ma che potrebbe esistere, e di immaginarlo già esistente e reale, e che in qualche modo sento essere legata ad una fondamentale fiducia nella perfettibilità del mondo, a quell'atteggiamento ottimista per cui il bicchiere è sempre mezzo pieno e tutto può essere migliorato e che, forse in modo semplicistico e arbitrario, attribuisco ad un felice debutto sul palcoscenico della vita.

Anni fa, riconoscere di non possedere questa qualità mi avrebbe addolorata molto.
Per molto tempo, in gioventù, ho coltivato infatti (tra le tante altre!) la fantasia di essere una persona creativa.
Adesso, invece, complice l'età e (si spera) una maggiore conoscenza di me stessa, accetto questo dato di fatto con maggiore serenità.
E mi godo l'estrosità altrui, dei cui frutti mi beo.

In cucina, certo, la creatività può anche esprimersi con piccole, piccolissime cose.
Un abbinamento cui nessuno ha mai pensato, per esempio, il caso più classico.
O anche un'associazione non particolarmente originale, ma cui TU non hai mai pensato, e che ti appare per questo un miracolo di genialità.
E in fondo lo è.

Quando penso alla creatività, mi viene sempre in mente qualcuno con cui parlavo, un pomeriggio d'estate di molti anni fa, di Andy Warhol e della sua famosa serie di dipinti dei barattoli di zuppa Campbell.

Questo qualcuno (molto più anziano di me), ne era entusiasta; mi parlava del valore liberatorio, dissacratorio che avevano quelle latte di zuppa; io (allora molto giovane), con la spocchia e l'arroganza degli ignoranti e degli inconsapevoli, sostenevo che quella non era arte.
"Chiunque avrebbe potuto fare una cosa del genere!" dicevo con vigore, "persino io potrei farlo!".
"Sì, è vero. Però nessuno ci aveva pensato prima di Warhol. TU non ci hai pensato. Lui sì", rispose conciliante e vittorioso il mio paziente interlocutore.
Fine della discussione.

Questo dialogo mi è tornato in mente qualche tempo fa, mentre preparavo questo pane/torta salata con fichi secchi e rosmarino.
Non è un abbinamento estroso e inaudito; pure, quando ho addentato la prima fetta, mi sono ricordata di ciò che mi disse quel gentile signore.
Nessuno, che io sapessi, ci aveva pensato prima.
IO, di sicuro, non ci avevo pensato.
Lei sì.


Pane con fichi secchi e rosmarino da Cakes maison di Ilona Chovancova

150 gr. di farina integrale
150 gr. di farina di farro
3 uova
25 cl. di latte fermentato (io ho usato del latte parzialmente scremato, ma si potrebbe anche optare per dello yogurt magro, o per del latte fresco al quale si sia aggiunta qualche goccia di succo di limone o di aceto)
7 cl. di olio vegetale
2 pugni di fichi secchi tagliati a dadini
1 mazzetto di rosmarino fresco, finemente tritato
sale
1 sacchetto di lievito chimico (2 cucchiaini)


Preriscaldate il forno a 180°. Imburrate e infarinate una teglia da plumcake.
Battete leggermente le uova con il latte fermentato (o lo yogurt magro) e l'olio.
Aggiungete le due farine, i fichi e il rosmarino.
Salate, mescolate, incorporate delicatamente il lievito, versate nella teglia.
Lasciate cuocere per circa 50', poi fate raffreddare su una gratella.

La cosa brutta di questo pane è che si può mangiare con quasi qualunque cosa.
Affettati e formaggi sono i primi abbinamenti che mi vengono in mente.
Insalate, verdure e qualche zuppa sono valide alternative.
Ma penso anche a del semplice burro (e per i più audaci e dadaisti anche qualche marmellata?).
E poi, ovviamente, il modo migliore (almeno per me): da solo, da mangiare in piedi, in cucina, guardando fuori dalla finestra il grande abete nel cortile, che scuote pazientemente la sua cima, a volte a gentile rimprovero, altre ad affettuoso incoraggiamento.

Enjoy!

martedì 6 ottobre 2009

Io avevo paura di Virginia Woolf di Richard Kennedy


Questo di Richard Kennedy (in Inghilterra notissimo illustratore di libri per ragazzi, morto nel 1989) è un agile libretto che si legge in un batter d'occhio.

Se vi si cercano tracce sostanziose di Virginia Woolf, se ne resta però delusi.
La scrittrice appare, sì, ogni tanto; quasi sempre di sfuggita, in brevi flash, sotto forma di una risata argentina, un moto di nervosismo, una battuta salace pronunciata ad uno dei ricevimenti cui amava tanto partecipare.

Il 16enne Kennedy, inesperto e molto lontano per educazione e temperamento dall'atmosfera cerebrale e sofisticata del circolo di Bloomsbury, in quei quattro anni in cui lavorò come 'factotum totemico più che reale' (come gli disse un bizzarro personaggio che era transitato, anche lui, per lo scantinato umido e maleodorante in cui erano i locali della Hogarth Press) collezionò molteplici gaffes, dando prova di assoluta ingenuità intellettuale, ma non mancava di spirito di osservazione.
Della Woolf, ad un certo punto, scrive: "Credo che sia piuttosto crudele, nonostante quel modo di guardarti gentile e un po' sognante". Impressione azzeccata, come sa chi ha letto decine di biografie su di lei (e il suo epistolario e parte dei suoi diari, una miniera a volte di tremende cattiverie e pettegolezzi velenosissimi su amici e conoscenti).

Molto gustosi gli schizzi, che con pochi tratti ricostruiscono fisionomie, atmosfere e ambienti che a me, dopo anni di 'frequentazione' del mondo di Virginia Woolf, sono noti e cari come se fossero ritratti di famiglia.


Richard Kennedy, Io avevo paura di Virginia Woolf, Guanda 2009, traduzione di Alba Bariffi.

lunedì 5 ottobre 2009

Racconti d'inverno di Karen Blixen


E' un luogo comune, ma è verissimo, che Karen Blixen aveva il talento di un'affabulatrice, il fascino magnetico, antico e asessuato di chi, in una notte buia, il viso in parte illuminato dalle fiamme di un fuoco all'aperto o di un camino, racconta storie senza tempo che parlano di uomini e donne appartenenti a mondi lontani, ma le cui vicende hanno il sapore dell'atemporalità e dell'universalità dei miti.

Questa donna non bella, dal carattere difficile, che mai suscitò in chi la incontrò sentimenti tiepidi ma sempre estremi, di adorazione o di odio, narrava molte di queste storie su richiesta del suo adorato Denys Finch Hatton, durante le lunghe notti che seguivano alle raffinatissime ed eleganti cene da lei organizzate (essendo una grande cuoca e possedendo un gusto personalissimo e insieme classico per la mise en place).

Posso solo immaginare quale forza, quale fascinazione esse dovessero avere ascoltate direttamente dalla sua voce, che mi piace pensare risuonasse roca e profonda, con il suo inglese appena indurito dall'accento danese, nell'oscura, profumatissima e sussurrante notte africana.

Alcuni di questi racconti d'inverno - la cui lettura non è sicuramente facile, per il ritmo narrativo disteso e spesso sospeso, quasi immobile - sono a metà tra la fiaba e il racconto gotico, altri sono invece esempi finissimi di racconto ottocentesco, di impianto tradizionale benché percorsi da brividi e inquietudini assolutamente novecenteschi (penso al malinconico, ma anche agghiacciante, in tutti i sensi, Peter e Rosa o allo struggente Gli invincibili padroni di schiavi).

Numerose le divagazioni e le riflessioni filosofiche, sull'uomo, su Dio, sulla vita, sulla natura, condotte con il piglio e lo stile di un moralista del settecento.

Forse il mio preferito in assoluto, tra tutti questi racconti, è però Il campo del dolore, il cui solo attacco è per me una pagina di pura perfezione:

"Il basso e ondulato paesaggio danese era silenzioso e sereno, misteriosamente desto nell'ora che precede il levar del sole. Non c'era una nube nel cielo pallido, non un'ombra nel perlaceo crepuscolo che avvolgeva i prati, le colline e i boschi. La bruma si stava alzando dalle valli e dalle gole, l'aria era fresca, l'erba e le foglie stillanti di rugiada. Non guardata dagli occhi dell'uomo, e non disturbata dalla sua attività, la campagna respirava una vita senza tempo, per la quale le parole erano inadeguate".


Karen Blixen, Racconti d'inverno, Adelphi 1980, traduzione di Adriana Motti.

venerdì 2 ottobre 2009

Dei giochi dell'infanzia, di un kit di sopravvivenza e di una torta al cioccolato


Da piccola, ricordo che giocavo molto spesso da sola.
I miei due fratelli maggiori, quando io andavo alle elementari, stavano per concludere il liceo. Finito, per loro, il tempo di giocare.
Dalla sorella che mi precede mi separano tre anni, che adesso non sono niente, ma durante la mia infanzia hanno rappresentato un baratro incolmabile tra noi due. Neanche lei è stata mai la mia compagna di giochi, se non da adulta (e rendo grazie al cielo per questo).
Amici nel quartiere non ricordo di averne mai avuti fino alla prima media, quando divenni l'amichetta del cuore della mia compagna di banco, una ragazzotta ruspante e assai poco sofisticata che un mio (perfido) fidanzato avrebbe visto bene, da grande, alla fiera del croccante di qualche paese dei castelli romani, con un camioncino munito di generatore e macchina per fare lo zucchero filato.

Sono stata dunque una bambina solitaria, con una fervida, oserei dire ipertrofica, fantasia.
Non so dire se questa familiarità con la solitudine sia un bene o un male in assoluto.
La mia modesta opinione è che sia necessario, anche da bambini, abituarsi a stare da soli, purché si riesca, quando è il momento, a uscir fuori dallo spazio individuale nel quale si è abituati a vivere, per potersi concedere la meravigliosa esperienza della condivisione. La quadratura del cerchio, obietterete voi.
Non è così immediato questo passaggio, ne convengo, ma sono sempre stata fiduciosa circa la possibilità di imparare a farlo, con gli anni, l'esperienza, l'amore per gli altri e degli altri e l'amore di sé.

Nell'infanzia, i miei giochi erano quasi esclusivamente mentali e silenziosi (a casa non erano ammessi schiamazzi, urli e 'scalmanamenti').
Intrattenevo conversazioni affettuose con gli oggetti che per qualche motivo mi erano simpatici (in particolare una sediolina impagliata, divenuta poi possedimento inalienabile del gatto Nando, e la rotella nera con i manici bianchi che mia madre, subito dopo ogni gravidanza, usava per fare gli addominali la mattina) e compivo quotidianamente una serie di gesti che avrei imparato, da adulta, a classificare come gli atti scaramantici e apotropaici, dalla funzione rassicurante, tipici degli ansiosi: classici erano, tra gli altri, non camminare nel corridoio oltrepassando con il piede le giunture tra le grosse mattonelle di graniglia del pavimento e posare la tazza della colazione in modo da sovrapporla esattamente ad una macchia tondeggiante (forse una vecchia bruciatura) sul tavolo di formica verde della cucina.

Un altro gioco bellissimo era chiudermi in bagno e fare la Signorina Buonasera, l'annunciatrice della RAI: cercando di guardare il meno possibile il TV Sorrisi e Canzoni che tenevo in mano e puntando gli occhi sul portasciugamani di fronte a me, sussurravo (per non farmi sentire dagli altri) con voce impostata e un rassicurante sorriso sulle labbra i programmi televisivi della giornata.
Sempre dal bagno mi piaceva moltissimo osservare per ore la casa del Generale, un signore decrepito che viveva con la sua governante al piano terra di un'elegante palazzina dall'altra parte del cortile e passava spesso le sue giornate tra il giardino e il salotto che su quel giardino si affacciava, sempre seduto su una poltrona, le ginocchia coperte, estate come inverno, da un plaid. Ne immaginavo il passato, la famiglia (della quale non c'era traccia), le abitudini.
Nel palazzo accanto, invece, la mia casa preferita era quella di un'anziana professoressa di inglese in pensione, che ogni pomeriggio, nel suo femminilissimo studio, su una poltrona accanto ad un sécrétaire dai mille cassetti dove immaginavo, un tempo, avesse tenuto i compiti in classe dei suoi allievi, leggeva per qualche ora alla luce di una lampada con un paralume di seta rosa antico. Per lei fantasticavo un marito ormai defunto ricchissimo e galante e orde di adoratori che tentavano inutilmente di espugnare il suo algido e soddisfatto cuore di vedova.

Avevo inventato, poi, dei giochi di carattere 'linguistico': scomponevo ogni parola in blocchi sillabici da mettere in ordine alfabetico, creando così una lingua tutta mia.
Questo gioco mi piaceva moltissimo, perché gli attribuivo anche la magica capacità di farmi capire se qualcuno fosse buono o cattivo. Se il suo nome e il suo cognome, scomposti secondo le mie regole, risultavano essere già perfettamente in ordine alfabetico, la persona era indubbiamente buona, altrimenti no. Ovviamente, vi lascio immaginare in quale dei due gruppi mi inserissi io.

Non mi vergogno a dire che ancora adesso mi viene spontaneo, in certi momenti in cui sono sovrappensiero, giocare a questo gioco.
Ascoltando parlare qualcuno, posso inavvertitamente ritrovarmi a scomporre ogni singola parola che dice, finendo poi per perdere completamente il filo del suo discorso, passando, nella migliore e più benevola delle ipotesi, per una persona distratta e assente; nella peggiore, per una maleducata o una demente.

Tra gli altri miei giochi c'era (e c'è ancora) anche quello del kit di sopravvivenza.
Immaginavo di comporne uno mio, personale, con dentro tutto quello che ritenevo essenziale e fondamentale per la mia vita e il mio benessere.
Questo kit si trasformava in continuazione, seguendo puntualmente i miei innamoramenti e i miei entusiasmi e registrando, con spietata puntualità, anche i miei repentini cambiamenti di gusti.
C'è stato un periodo in cui suo elemento essenziale era la nave dei pirati dei Playmobil, insieme a un orrendo portamonete di plastica rosso di Hello Kitty e un altrettanto orrendo paio di zoccoletti di vernice bianca, compratimi (sa il cielo perché) da mia madre, ai quali ero attaccata morbosamente.
Qualche anno dopo, invece, non avrei potuto fare a meno di Camera con vista di Edward Morgan Forster, dei dischi degli Smiths, di uno zaino peruviano beige e grigio e di un paio di pantaloni neri comprati al mercatino dell'usato che portai fino allo sfinimento, fino a quando l'austera professoressa di matematica del liceo mi proibì di presentarmi in classe con indosso 'quegli stracci indecenti', pena una nota disciplinare.

Il kit di sopravvivenza non ha mai compreso solo oggetti materiali, ma anche stati d'animo, sensazioni, atmosfere, ricordi.
La visione, per esempio, di me seduta sul divano, in un pomeriggio autunnale limpido e fresco, che leggo un bel libro con una tazza di tè verde al gelsomino a portata di mano e almeno una gatta mollemente sdraiata accanto a me, ha la capacità di calmarmi istantaneamente: ha la forza del ricordo di tanti e tanti momenti simili e piacevolissimi, da me già vissuti, e dell'anticipazione di tutti quelli che verranno. La gratificazione e la consolazione sono immediate.

Negli anni, il mio kit ha avuto la tendenza a stabilizzarsi: ci sono delle cose che da tempo ne fanno parte e ne costituiscono il nucleo essenziale. Oltre, ovviamente, alle persone cui sono legata, ci sono i libri, le mie due gatte, i lavori manuali cui mi dedico, lo spazzolino elettrico e almeno un litro di latte nel frigo, dovunque io vada.

Ultimamente, si è aggiunta anche questa ricetta di torta al cioccolato.
E' facilissima e riesce sempre: basta seguire le istruzioni e non si può sbagliare, e poi anche solo una fettina ridicola lascia soddisfatti e appagati.
E' una torta che si presta a infinite varianti: può essere farcita, glassata, e all'impasto si può sicuramente aggiungere della farina di mandorle, del caffè, della frutta secca, un paio di cucchiai di liquore e via così.
Io la preferisco così com'è e se ci riesco cerco di mangiarla il giorno dopo, quando tutto il profumo del cioccolato fondente comincia a farsi sentire in modo più intenso e deciso.

da Twelve di Tessa Kiros:

per una torta di 24 cm di diametro

200 gr. di cioccolato fondente
6 cucchiai di latte
100 gr. di burro
4 uova, separate
150 gr. di zucchero
50 gr. di farina
1 cucchiaino e 1/2 di lievito

Preriscaldate il forno a 180°.
Imburrate e infarinate una teglia.
Fate fondere a bagnomaria il cioccolato insieme al latte e al burro.
Montate i 4 tuorli con lo zucchero. Unitevi il cioccolato.
Aggiungete la farina setacciata insieme al levito.
Montate a neve soffice le chiare e aggiungetele delicatamente al composto.
Infornate e fate cuocere per 35', facendo la prova stecchino.
Servite con dello zucchero a velo o con un po' di panna montata non zuccherata.

Enjoy!