domenica 29 novembre 2009

Di cose curiose e insolite, di egocentrismo e narcisismo e dell'ennesimo giochino (l'ultimo)


Tiziana di t-time mi ha recentemente coinvolta in un altro gioco, al momento in circolazione nella cosiddetta blogosfera.

Dopo il meme cui ho aderito su richiesta di Wenny, mi sembrava brutto esimermi dal rispondere a questo invito.

Dunque, oggi niente ricette, niente recensioni, ma un po' di sano e morboso narcisismo!

Sarà difficile trovare 10 cose insolite e curiose su di me, ma ci proverò.

1. Per anni ho balbettato, cosa che oggi, per chi mi conosce, sembra cosa impossibile (ho una discreta logorrea e in un minuto riesco a pronunciare un numero di parole spropositato).
Ancora adesso, però, la balbuzie può tornar fuori, soprattutto al telefono, mezzo di comunicazione che non amo, o se sono molto ma molto emozionata (o arrabbiata).

2. La balbuzie era il risultato del mio mancinismo corretto. Impedendomi di usare la sinistra per scrivere, la mia maestra delle elementari (che motivò il suo atto scellerato ai miei genitori affermando che la sinistra era 'la mano del diavolo'; e badate bene che non sono andata alle elementari durante la prima guerra mondiale, ma nei rivoluzionari e alternativi anni '70), causò un piccolo pandemonio nei miei emisferi cerebrali, con conseguenze nefaste sulle mie capacità linguistiche, di coordinamento spaziale, più varie ed eventuali. (Va bene, la maestra era una demente; ma i miei genitori? Perché non le hanno fatto una sonora pernacchia e non le hanno impedito di torturarmi con il braccio sinistro legato dietro la schiena con il suo foulard? Mistero. Quando anni dopo ho chiesto loro ragione di questa nefandezza, mi hanno risposto serafici: 'Ah sì?').

3. A 19 anni, stanca di cambiare grafia ogni 10 minuti (la perdita dell'identità grafica è un'altra tipica conseguenza del mancinismo corretto) e avendo problemi all'università perché firmavo i verbalini degli esami in modo sempre diverso, ne parlai con lo zio neurologo del mio fidanzato di allora, che mi consigliò di ricominciare a scrivere con la sinistra. Dopo 13 anni, dunque, con pazienza e vergognandomi come un ladro, cominciai a tenere un quaderno sul quale esercitarmi. Ci sono voluti circa 3 anni per riacquistare una grafia 'decente' (per un bel po' scrissi infatti come una bambina di 6 anni, una cosa piuttosto imbarazzante quando si è all'università).
Adesso scrivo come un vecchio signore (ma quando sono molto stanca o nervosa, mi viene da scrivere con la destra).




4. Due delle mie più grandi paure sono:
- diventare incontinente (paura che mi ha sicuramente trasmesso la mia mamma)
- restare senza benzina (al punto che preferisco non avere del tutto la macchina)

5. Da piccola avevo, come molti bambini, un amico immaginario, senza nome, col quale dividevo ogni cosa che mangiavo. Per questo ero felice se nel piatto mi ritrovavo 16 rigatoni invece che 17 o 6 polpette invece che 5. A dire il vero, ancora oggi, quando mi servo, tendo a scegliere 6 polpette invece che 5. I rigatoni, invece, ho smesso di contarli.

6. Non mi piacciono i luoghi molto affollati, molto illuminati e molto rumorosi.
Forse l'immagine per me più vicina a quella di un luogo infernale è un centro commerciale pieno di luci, musica a tutto volume e gente che sciama in ogni dove. In genere reagisco con furiosi mal di testa.

7. Ho una paura assurda dei ragni. Anche quelli piccoli e che so essere assolutamente innocui mi gettano in uno stato di terrore assoluto. Gli anni trascorsi in Africa non mi hanno certo aiutato, in questo senso.

8. Faccio collezione di posate per l'insalata.

9. Le sagre di paese mi fanno una tristezza allucinante e mi provocano quelli che la mia amica Annalisa definisce 'attacconi di squallore'.
La visione invece delle bande musicali di paese mi fa commuovere. Non so perché, ma vedere quei complessi composti dal farmacista, dal maestro in pensione, dal vecchietto novantenne che suonano insieme al bambino di 6 anni, alla ragazza di 15, all'universitario di 22, mi fa venire da piangere.

10. Questa sono io (autoscatto in bagno davanti allo specchio, e si vede).


Delusi?
Sopravvissuti allo spavento?

Ora dovrei passare, come al solito, la palla.
La tiro in direzione di Alfonso, aspettandomi anche che non voglia giocare (basta che non me la tiri addosso).

Enjoy!

mercoledì 25 novembre 2009

Della convivenza e dei suoi tormenti e di (un'altra) quiche di cipolle



Sono da anni convinta che, a parte casi eccezionali, la cosa migliore che possano fare due persone civilizzate che si amano sia vivere in due case separate.

Che non mi si fraintenda. Questo sottrarsi alla convivenza non significa certamente voler evitare un impegno serio o una progettualità di coppia. Significa, al contrario, voler salvaguardare e mantenere in vita nel migliore dei modi possibili una relazione.

Ci sono persone che sono evidentemente fatte l'una per l'altra, che quando vanno a vivere insieme raggiungono livelli di armonia e compatibilità quasi paranormali e danno il meglio di loro stesse proprio nella quotidiana condivisione anche di uno spazio fisico.

E ce ne sono altre che invece, in una convivenza, magari di fronte a un bagno devastato (l'altro ne è appena uscito dopo essersi fatto la doccia o essersi anche soltanto lavato i denti) o a una cucina in cui sembra essere esplosa una bomba (l'altro si è versato un bicchiere d'acqua o si è preparato un piatto di pasta al burro), di fronte a un cassetto in cui regna il delirio (l'altro si è vestito) o all'ennesimo calzino trovato per terra in corridoio invece che nella cesta del bucato sporco (l'altro si è spogliato), si ritrovano a pensare a quanto sarebbe bello se potessero semplicemente uscire da quella casa, lasciando il bagno devastato, la cucina esplosa, il cassetto nel delirio e il calzino in corridoio, e tornarsene nella loro bella casa ordinata, dove il bagno è un bagno e non la scena di un disastro nucleare, la cucina una cucina e non il set di Apocalypse Now, i cassetti sono cassetti e non la dimostrazione di qualche ardito teorema fisico sull'entropia e i calzini sporchi sono là dove dovrebbero essere, nel cesto della biancheria.

Io temo di appartenere a questa seconda categoria di persone. Purtroppo.

La maggior parte delle volte, per fortuna, ci rido su. La tentazione di lasciare tutto com'è c'è, e forte. Poi mi dico che in questa casa ci vivo anche io e che sono io fondamentalmente ad avere problemi con i calzini abbandonati o i bagni devastati e dunque sta a me pensare a porvi rimedio.

Il fatto spiacevole è che spunta sempre fuori una vocina importuna che dice più o meno: "Certo, è un problema tuo. E lui lo sa. E se ne approfitta. Tanto sa benissimo che tu non potrai resistere 10 minuti con un calzino sporco in mezzo al corridoio. E si risparmia la fatica di mettercelo lui, nella cesta del bucato".

La meschinità di un ragionamento del genere si commenta da sola. Pure...

Ma ci sono altre occasioni in cui il fantasma di una relazione senza convivenza si presenta ai miei occhi come estremamente desiderabile.

Non posso mai o quasi mai ascoltare certi cd quando è in casa la Spia. Pena i suoi sguardi sgomenti o i suoi commenti sardonici o le sue manifestazioni di disgusto (se un giorno lo incontrate, provate anche solo a dirgli 'Jordi Savall' oppure 'Michael Nyman' e prendete nota delle sue reazioni).

Certo, il discorso è assolutamente reversibile. Io dopo venti minuti di ascolto della sua vecchissima cassetta di Donovan comincio ad avere pensieri suicidi (che dopo mezz'ora diventano omicidi).

Ma uno dei paragrafi più tristi di questo capitolo già assai triste è proprio il cibo.

Come rimediare alle idiosincrasie alimentari non condivise?
Che cosa può fare una povera disgraziata che ama i peperoni ma ha anche un marito che non ne tollera l'odore?
E se sempre quella povera disgraziata ha una passione smodata per il gorgonzola ma anche un marito che di fronte ad una semplice fotografia di un pezzo di gorgonzola si riempie di bolle e dice di sentirne la puzza? (la puzza, sì, dice proprio la puzza, che Dio lo perdoni).

Se poi quel marito non ama che la povera disgraziata mangi i cetrioli, per un certo qual effetto, non proprio gradevole a quanto pare, che queste cucurbitacee avrebbero sul suo alito, capirete il perché di certe sue riflessioni (della povera disgraziata).

Per fortuna, sia la povera disgraziata (che ovviamente sarei io) sia il marito (che ovviamente sarebbe la Spia) non hanno problemi con le cipolle, note per non aver nessun tipo di effetto nefasto sull'alito di chi ne mangi, a differenza dei cetrioli (Spia, se mi leggi: ma sei proprio sicuro di questo?).

E dunque, dopo la torta di qualche post fa, oggi vi parlo di questa quiche, sempre di cipolle, sempre di Nigellona, tratta dal suo How to Eat, la cui lettura non posso che consigliarvi caldamente; ahimé in inglese, ché nessun editore italiano ha avuto mai il coraggio finora di tradurre alcunché della mia Nigellona, - nonostante io mi sia adoprata, nel mio piccolo piccolissimo, in tal senso - nemmeno la Luxury Books, che mesi fa pareva invece essere sul punto di lanciare la pubblicazione in italiano del suo How to Be a Domestic Goddess; c'è qualcuno che sa dirmi che cosa sia successo, by the way?

Questo post, tra l'altro, è dedicato ad un caro amico, che io e la Spia abbiamo conosciuto nei nostri anni africani insieme alla sua bella moglie (ora la famiglia è cresciuta di due unità, con l'aggiunta di due bellissimi e fortunati bambini), cuoco appassionato e curioso, con cui mi capita di intrattenere, di quando in quando, interessanti scambi epistolari a soggetto culinario-gastronomico.

E' dedicato a lui non solo perché insieme alla sua dolce metà egli forma una di quelle coppie che paiono composte, appunto, come dicevo all'inizio, da persone fatte l'una per l'altra (ma chissà se anche lui devasta il bagno o la cucina e lei si dispera davanti al calzino derelitto in corridoio...), ma soprattutto perché questo nostro amico mi ha detto, recentemente, di avere problemi con la pasta brisée e sono sicura che dopo aver letto questa ricetta si lancerà invece intrepido e vincente nella preparazione di innumerevoli torte.

La prima volta che ho fatto questa quiche ho triplicato le dosi: ne preparai una gigantesca per un pranzo di Natale quando eravamo in Africa. Peccato che durante la penosa operazione di pulizia e taglio delle cipolle la luce andò via per circa 6 ore e il tutto venne fatto a lume di candela.
La cottura avvenne in due tempi (sempre per problemi di elettricità); ciononostante, la torta venne meravigliosamente. Ed è stato così tutte le (innumerevoli) volte in cui l'ho preparata.

Federico! A te!


per una tortiera di 23 cm.

per la pasta:

120 gr. di farina
60 gr. di burro freddo
1 rosso d'uovo, leggermente sbattuto con un pizzico di sale e 1 cucchiaino di panna (se non avete la panna, non vi strappate i capelli; viene benissimo anche senza)
acqua fredda q.b. (tenetene sempre in frigo una bottiglietta; serve)

per il ripieno:

30 gr. di burro
olio d'oliva
500 gr. di cipolle, tagliate finissime (consiglio vivamente l'uso della mandolina o, meglio ancora, del robot da cucina)
1-2 cucchiaini di zucchero
4 cucchiai di Marsala
2 uova intere + 1 rosso
300 ml di panna (nella ricetta originale è la crème fraîche; di panna liquida se ne può usare meno, direi anche 270 ml; se ne usate 300 vi avanzerà un po' di crema)
noce moscata

Sistema nigellonico per preparare la pasta: pesate farina e burro (preferibilmente tagliato in cubetti di 1cm. circa) in una ciotola e infilate quest'ultima con il suo contenuto in freezer per 10', trascorsi i quali mettete il tutto nella coppa del robot da cucina: fatelo andare fino a quando farina e burro non siano sbriciolati.

Sempre con il motore acceso, unite il rosso d'uovo; se la pasta non dovesse cominciare ad ammassarsi, con cautela, aggiungete l'acqua fredda, cucchiaino per cucchiaino. Dipende dal tipo di farina che usate, dunque regolatevi in base a ciò che vedete. Appena la pasta inizia a fare la palla, spegnete tutto, tiratela fuori, schiacciatela, avvolgetela nella pellicola e mettetela in frigo per una ventina di minuti.

Nel frattempo, sciogliete insieme a una goccia d'olio il burro in una padella, aggiungete le cipolle, salatele leggermente e cuocetele a fuoco basso per circa 12', quindi unitevi lo zucchero, coprite bene la padella con un foglio di carta d'argento e proseguite la cottura a fuoco bassissimo per 20', fino a quando le cipolle non siano morbidissime e dorate. Rimuovete il foglio d'argento, alzate il fuoco (moderato), aggiungete il Marsala (sentirete che profumo) e cuocete per altri 8'. Aggiustate di sale e pepe e fate raffreddare.

Tirata la pasta fuori dal frigo, stendetela (Federico: stendila tra un foglio di carta da forno che poi ti servirà per cuocere in bianco il guscio di pasta e la pellicola nella quale l'hai messa per farla riposare in frigo) e rimettetela in frigo per 15-20'.

Preriscaldate il forno a 200°, ricordandovi di metterci una teglia che sia abbastanza larga per contenere la tortiera (consiglio valido ogni volta che si fa una quiche, a meno che non vogliate passare ore, dopo, a pulire l'occasionale - per me inevitabile e classico - schizzo di ripieno bollente sul fondo del forno).

Tirate fuori dal frigo la tortiera, coprite la pasta con un foglio di carta da forno cosparso di fagioli secchi o riso e fate cuocere per 15'. Rimuovete carta e fagioli e fate cuocere la pasta da sola per altri 12'. Tirate fuori dal forno e fate raffreddare un po'. Abbassate la temperatura a 180°.

In una terrina (o meglio ancora in un grosso bricco dosatore) sbattete le uova, il rosso d'uovo, la panna e mezzo cucchiaino di sale. Aggiungete pepe e abbondante noce moscata.
Trasferite nel guscio di pasta le cipolle e versateci sopra la crema; consiglio: eventualmente mettete la tortiera nel forno e con cautela, senza ustionarvi e senza far danni, aggiungete, magari aiutandovi con un cucchiaio, tutta la crema che potete (probabilmente sarà leggermente abbondante [v. parentesi su agli ingredienti]; Nigellona non è famosa certo per essere parca). Ovviamente la crema non dovrebbe debordare, altrimenti la pasta potrebbe inzupparsi (a me è successo, più di una volta, e devo confessare che non solo nessuno se ne è accorto ma che il risultato finale non ne ha minimamente risentito).
Date un'ultima grattatina di noce moscata, se così vi dice l'istinto, e poi fate cuocere per 30-40'.

Mangiate la quiche accompagnandola con un'insalata un po' amaragnola: questo il consiglio di Nigellona. Consiglio azzeccato: la torta è dolce, ma non stucchevole, e l'amaro della verdura le farà da giusto contrasto.

E d'altra parte (e qui apro una parentesi da fiera della banalità), non sta proprio qui il segreto delle coppie ben riuscite: creare insieme non la fusione di due spiriti identici, ma l'armonia che nasce da un giusto contrasto?

Io e la Spia non ci riusciamo sempre. Ma quando ci riusciamo, è il paradiso in terra.

Enjoy!

domenica 22 novembre 2009

Il re e il cadavere di Heinrich Zimmer

Ci sono alcuni libri per così dire self-service.

Libri che si possono leggere un po' a piacere. Una pagina qui, un'altra lì, un capitolo adesso ed un altro magari tra un anno.

Anche se letti in questo modo selvaggio ed arbitrario, non perdono un'oncia della loro potenza, della loro intensità, della loro capacità di investire il lettore con il loro carico di sapienza, saggezza, illuminazione.

A me pare che questo testo di Zimmer, curato da Joseph Campbell e pubblicato postumo nel 1948, sia uno di questi libri.

Dopo averne letto poco più della metà, arrivata alla parte in cui tratta dei miti indù, l'ho chiuso, dicendomi 'Finirò di leggerlo un'altra volta', per niente in preda ai sensi di colpa o all'inadeguatezza.

Invece poi ho spiluccato ancora, saltando paragrafi e soffermandomi su altri, in parte in modo del tutto casuale (ma che esista il caso, per me, è ancora tutto da dimostrare; soprattutto quando ci si imbatte in un libro come Il re e il cadavere), in parte seguendo qualche labile traccia, un nome, un rimando, una suggestione.

Ho tratto da questo libro ciò che mi serviva in questo momento. Riflessioni, immagini, citazioni, intuizioni. Trascritte tutte diligentemente in un quaderno (il libro è della biblioteca), for future reference, come dicono gli inglesi.

Innumerevoli le pagine che mi hanno colpita.

Parlando del mito e della sua perenne attualità (scrittura figurata che in un certo periodo fu la depositaria del nutrimento spirituale dei nostri antenati), Zimmer scrive che le generazioni passate che gli hanno dato vita sono ancora presenti in noi, non solo in senso spirituale ma anche fisico.

Sono nelle nostre ossa - a noi ignote; e quando ascoltiamo, anch'esse ascoltano. Mentre leggiamo, forse un qualche vago io ancestrale del quale non siamo consapevoli annuisce con approvazione all'udire di nuovo la sua vecchia storia, e si rallegra di riconoscere ancora una volta ciò che un tempo faceva parte della sua antica sapienza.
Questa continuità, questa eterna compresenza in noi di quanti ci hanno preceduti e del loro bagaglio inestimabile di conoscenza, sapienza, sensibilità, coraggio, mi ha colpita tantissimo.

Lo trovo un pensiero di grande consolazione e di grande conforto. Una conferma, per me, di quella certa bellezza che ha il mondo e che deriva dall'esistenza di un senso e di un significato. E dal nostro non essere mai veramente soli e spersi di fronte alla vita.

Raccomandato a tutti. Come una buona psicoterapia.

Heinrich Zimmer, Il re e il cadavere, Adelphi 1983, traduzione di Fabrizia Baldissera.

sabato 14 novembre 2009

Della paura del rifiuto, del parlare di sé e di un gioco

Quando ero piccola, mi guardavo bene dall'avvicinarmi a qualsiasi bambino o bambina pronunciando la fatidica frase: "Giochiamo insieme?".
Piuttosto mi sarei fatta scorticare viva.
Pur di non rischiare un rifiuto o una risposta poco entusiastica, preferivo starmene da sola a leggere una favola o a parlare con qualche pupazzo.

Se però qualcuno mi si avvicinava rivolgendomi lo stesso identico invito, rispondevo sempre contentissima di sì. A tutti. (Unica eccezione, che io mi ricordi, in tutta la mia infanzia: un bambino di nome Danilo, obeso e dai capelli rossi, che trovai immediatamente tanto repellente dal punto di vista fisico e intollerabile da quello caratteriale da rifiutare il suo invito senza neanche sforzarmi troppo di motivare il mio no in modo convincente).

Per fortuna con l'età ho imparato ad avvicinarmi ai miei simili, fregandomene il giusto delle possibili reazioni poco entusiastiche (che in genere non ci sono, se agli altri ci si accosta con garbo e misura), quanto meno non dandole per scontate al punto da farmi rinunciare.
Da bambini il rifiuto da parte degli altri ci trova inermi: gli altri sono tutto.
Da adulti si spera di avere altri stimoli, oltre al bisogno (naturale, giusto e bellissimo) della condivisione e, soprattutto, altre risorse per far fronte - eventualmente - ad un due di picche.

Tutto questo per dire che quando stamattina ho trovato un messaggio di Sara di Wennycara che mi invitava a giocare con lei e con altri bambini, mi sono immediatamente ritrovata bambina e ho risposto subito di sì.

Ecco il gioco:


1. 6 nomi con cui ti chiamano

Il primo è il mio, Alessia.
Poi viene senz'altro Pisi (abbreviazione di Pisellina), appannaggio esclusivo di mia sorella Sabina; presente anche nel mio indirizzo di posta elettronica, questo nomignolo viene regolarmente preso per il mio cognome: per molte persone, dunque, io sono la Signora Pisi.
Per molti amici sono la Papera.
Esistono poi gli innumerevoli e sempre nuovi soprannomi con cui mi apostrofa la Spia.
I primi che mi vengono in mente sono Pipi, Parolis e Pallini.


2. 3 cose che indossi in questo momento

Non farò la mia miglior figura, ma tant'è.
Ho indosso una tuta nera, un cardigan acquistato forse venticinque anni fa a Porta Portese da mia madre, bianco con dei bellissimi bottoni argentati e maniche ahimé troppo corte e una sciarpa grigia regalatami anni fa da una mia carissima amica.


3. 3 cose che hai fatto stanotte, ieri e oggi

Stanotte, non so voi, credo di aver decisamente dormito.
Ieri, tra le altre cose, ho anche lavorato a maglia uno scaldacollo grigio, da regalare ad un amico che vedrò la prossima settimana a Milano.
Oggi, se c'è una cosa che sicuramente farò, è lavorare.


4. 2 cose che hai mangiato
Stamattina fette biscottate con marmellata di frutti esotici del commercio equo e solidale; prima di pranzo, una noce brasiliana (le adoro).


5. 2 persone a cui hai telefonato oggi
Per ora una soltanto, la mia amica Rosalia, per avere una consulenza gastronomico-culinaria (pasta con le cime di rapa).
Prevedo una telefonata più tardi alla momma.


6. 2 cose che farai oggi
La pausa per la consueta tazza di tè verde intorno alle cinque e mezzo e forse una visita in erboristeria per rifornirmi di Yogi Tea.


7. 3 bibite preferite
Prima tra tutte l'acqua, di rubinetto, possibilmente fresca.
Poi il tè.
Infine, in dosi omeopaticissime, il chinotto.


8. 3 cose che desideri intensamente

Che le persone che amo siano felici e serene.
Che io riesca finalmente a capire che cosa voglio fare da grande.
Essere sempre e comunque me stessa, nel bene e nel male.
(Baro, ma devo assolutamente aggiungerne una quarta, futile ma per me, al momento, motivo di ossessione: la vetrinetta Granemo, che all'Ikea di Firenze, per qualche oscura volontà del fato, non esiste).

A questo punto dovrei passare la palla a 4 persone.

Premettendo ovviamente che sono assolutamente libere di rifiutarsi di giocare con me (e sarà forse, allora, la vendetta tardiva del su citato Danilo, schifato quella mattina di giugno di tanti anni fa sulla spiaggia perché giudicato brutto e un po' rompiballe) e ammesso che leggano questo mio invito, vorrei coinvolgere

Artemisia di AAA
T di T-time
Rossella di Holynow
Titti di Tittirossa

che ringrazio fin da ora, nel caso in cui invece risponderanno sì.

Enjoy!

sabato 7 novembre 2009

Un giorno di gloria per Miss Pettigrew di Winifred Watson

Nel sito della casa editrice che ha pubblicato questo romanzo e sul risvolto di copertina ho visto scritto: una delle più esilaranti e tenere commedie inglesi mai scritte.

Ora, una frase del genere io potrei associarla, che so, a The Importance of Being Earnest di Oscar Wilde, oppure a Three Men in a Boat di Jerome K. Jerome (che non ho letto, mea culpa; ma mi baso sulla fama del libro e sulle risate incontenibili che la sua lettura ha saputo strappare alla Spia, persona che più volte ho descritto come discreta nelle sue manifestazioni e refrattaria ad eccessivi e scomposti entusiasmi, a meno che non si parli di un piatto di spaghettini al pomodoro), o ancora al meraviglioso My family and Other Animals di Gerald Durrell, da leggere e rileggere ad oltranza.

Non certo a Un giorno di gloria per Miss Pettigrew.

Io capisco che una casa editrice generalmente sofisticata come Neri Pozza non possa decidere di pubblicare un romanzo che, tolte le chiacchiere che se ne sono fatte, è fondamentalmente un Harmony (vi ricordate? quei romanzetti rosa pubblicati praticamente su carta igienica dove il lui e la lei, entrambi bellissimi e fighissimi, all'inizio si odiano, poi si amano alla follia ma non si capiscono, infine, quando tutto sembra compromesso, si ritrovano e vivono per sempre felici e contenti e che, insieme alle mie sorelle, leggevo avidamente d'estate quando avevo 10 anni), senza cercare di intortarci su parlando di capolavoro di sofisticato umorismo (secondo nientepopodimeno che il Guardian).

Che il libro sia stato pubblicato nel 1938 si sente, e molto. Non so se sia stata una precisa scelta editoriale quella di mantenere ed enfatizzare questo suo essere datato, probabilmente sì. Lo spero.

L'ambiente tratteggiato è quello della bella vita nella Londra degli anni '30, dove le donne sono tutte sofisticatissime e vestono solo abiti impalpabili di seta e gli uomini sono tutti aitanti, dallo sguardo intenso, la mascella volitiva, i capelli folti, la voce imperiosa (e già questa assoluta uniformità e piattezza la dice lunga sulla leziosità del romanzo).
Insieme, questi uomini e queste donne non fanno che passare da una festa a un night club, perennemente tracannando liquori e champagne o fumando sigarette, intessendo flirt e intrighi amorosi che l'autrice vorrebbe farci passare per appassionati e appassionanti e che invece risultano (almeno a me) assolutamente insignificanti e privi di succo e soprattutto sentimento.
Il tutto ad orari impossibili.

In questo ambiente vacuo, splendido e vagamente immorale, la Miss Pettigrew del titolo c'entra come un cavolo a merenda. Più bambinaia che istitutrice, appena quarantenne ma già sfiorita da una vita segnata dalle privazioni, dalle umiliazioni e dalla più totale mancanza della più piccola gioia, avviata ad una mezza età solitaria, squallida e sacrificata, per un banale equivoco Miss Pettigrew si ritrova catapultata in una serie di avventure tanto eccitanti per lei quanto inverosimili e noiose per il lettore.

Il messaggio che Winifred Watson ha voluto veicolare attraverso la sua Miss Pettigrew è ovviamente quello che nella vita non si può mai dire, che esiste sempre un'occasione di riscatto e di salvezza per tutti, che basta un attimo perché anche l'esistenza più triste e apparentemente priva del benché minimo barlume di grazia trovi la sua redenzione e, anzi, addirittura la sua gloria, che bisogna non perdere mai la speranza e mantenersi disponibili, aperti al cambiamento e all'amore.

Messaggio indubbiamente condivisibile. Non originalissimo, ne convengo, ma a me particolarmente caro.

Che però una donna tanto incolore, insipida e banale come Miss Pettigrew (perché è così che la Watson ce la presenta) possa, nel giro di 24 ore, trasformarsi in una signora dall'aspetto sofisticato, fare innamorare di sé un aitante e maturo miliardario e diventare una sorta di guru di un gruppo di fanciulli e fanciulle ricchissimi, sofisticati e spregiudicati (che però sono in realtà dei bravissimi e delle bravissime ragazze, ovviamente, a parte il cattivo-cattivo, che invece è non solo cattivo ma anche un codardo) che sono ipnotizzati dal suo buon senso piccolo-borghese e la considerano, non si sa bene in base a cosa, una sorta di oracolo umano, ha davvero dell'incredibile.

Io non ho niente in contrario alle storie fantastiche o inverosimili. Non sono una forzata del realismo, della verosimiglianza, del documentaristico. Le storie possono anche essere assurde, bizzarre e improponibili.
Ma i personaggi pretendo siano credibili, umani, veri. Voglio che mi parlino, che prendano corpo e voce, che diventino tanto reali da sentirne quasi il peso sul letto su cui sono sdraiata a leggere la loro storia. Non importa che vengano da un'altra epoca, da paesi dove non sono mai stata e di cui non so nulla, che parlino una lingua che non so nemmeno che suono abbia. Non importa, al limite, che vengano da mondi addirittura inesistenti, da un passato remotissimo e senza testimoni o da un futuro solo immaginato. Devono essere vivi e veri e vibranti di umanità.

Le fanciulle divine e alla moda, i maschi virili e bellocci di Winifred Watson, ed anche la più modesta e apparentemente più reale Miss Pettigrew, sono solo manichini: dalle loro bocche non esce una parola che mi suoni vera e autentica. Delle loro vite, non una sola azione, né un solo episodio, mi appare credibile e mi emoziona.

Peccato.



Winifred Watson, Un giorno di gloria per Miss Pettigrew, traduzione di Isabella Zani, Neri Pozza 2008.

martedì 3 novembre 2009

Dell'apparenza, di passioni colpevoli e segrete, dell'amicizia e di una torta di cipolle


Quante volte ci siamo sentiti dire 'L'apparenza inganna'?
E quante altre l'abbiamo detto noi, magari agitando l'indice stile maestrina, o scoccando al nostro interlocutore uno di quegli sguardi che dicono 'Ascolta me che sulla vita ne so a pacchi'?

Pure, viviamo in un mondo in cui l'apparenza è tenuta in così alta considerazione che, sebbene a parole ne si condanni il culto, in realtà (proprio obbedendo alle sue leggi), le si sacrifica spesso e volentieri la sostanza, la verità, la sincerità.

Chi tra di noi può affermare, in perfetta buona fede, di fregarsene altamente di come appare agli altri? Quante persone conoscete che davvero vivono non curandosi del proprio aspetto, ma concentrandosi esclusivamente sulla propria 'sostanza', per così dire? Quanto vi preoccupate, voi, di quanto gli altri pensano siate magri/grassi/alti/bassi/belli/brutti/eleganti/sciatti?

Ma non bisogna limitarsi a questa sola dimensione della questione.
L'apparenza non riguarda soltanto l'aspetto fisico di una persona, ma anche quanto intelligente o sensibile o efficiente o ironica o quant'altro vuole apparire. Si può essere preoccupati di non sembrare abbastanza colti o fighi, trasgressivi o rispettabili, simpatici o inquieti, comprensivi o tolleranti. Esiste una gamma pressoché infinita di caratteristiche che si può voler far pensare agli altri di possedere.

Personalmente, conosco ben poche persone che si presentano esattamente per quello che sono, che non costruiscono (consapevolmente o no) nessun personaggio intorno a loro stesse, esaltando alcuni lati del loro carattere, rimuovendone ed occultandone altri, minimizzandone altri ancora.

Io, di certo, non faccio parte della categoria. Benché da tempo mi riprometta di vivere il più possibile aderendo a quella che sento essere la mia vera 'essenza' (che però è spesso in movimento e cambia e si modifica un poco a seconda delle esperienze che nel frattempo faccio e delle persone che incrociano la mia strada, o meglio, si mette gradualmente sempre più a fuoco, divenendo sempre più chiara e dunque apparendo a volte leggermente diversa da quella che appariva anche solo un'ora fa), confesso che molte sono le volte in cui darle voce mi imbarazza, mi mette in difficoltà, mi crea problemi.

Per esempio, come dire a qualcuno che ti ha appena regalato un oggetto che tu reputi mostruoso e che sai già non potrai assolutamente tenerti in casa, pena un attacco fulmineo di squallore che ti getterà in abissi di sconforto e prostrazione ogniqualvolta gli occhi ti ci cadranno sopra, che, grazie molte del regalo, ma quella cosa lì tu non la vuoi tenere, anzi, non la PUOI tenere?

Io non sono mai stata in grado di dire una cosa del genere. In passato, ritenevo fuori discussione anche solo disfarmi dell'oggetto in questione, sentendomi tremendamente in colpa per il solo fatto di non averlo trovato di mio gusto.

Negli anni (complici anche quattro traslochi in poco più di otto anni e dunque l'esigenza di fare periodicamente un bel repulisti), sono giunta invece ad una sorta di compromesso per me assai soddisfacente. Ringrazio molto la persona che mi ha fatto omaggio della mostruosità, poi, in un esercizio sempre molto utile in generale, mi concentro sui lati positivi della suddetta mostruosità (magari anche solo sul colore, e se non si salva nemmeno quello sul materiale, e se anche quello è da buttar via 'la butto in caciara', come si dice a Roma, vale a dire che cerco di trarne spunto per rimbambire l'altra persona di chiacchiere e non farle capire che il suo dono mi ha letteralmente lasciata basita). Infine, appena posso, serenamente e senza alcun complesso e senso di colpa, me ne disfo: lo do a qualcun altro, in genere, ché il mondo è bello perché è vario (e ce ne dimentichiamo troppo spesso), e ciò che io trovo repellente o squallido può davvero mandare in visibilio un'altra persona. Annullo i sensi di colpa perché in cuor mio e a parole ho davvero ringraziato chi mi ha fatto il regalo, dunque non rifiuto il pensiero, non rifiuto il sentimento che è dietro il dono, anzi, lo onoro e me ne sento onorata. Rifiuto l'oggetto, di cui non ho bisogno, che non apprezzo, e lo rimetto in circolo.

Da qui a dire all'altra persona 'Sai, la cosa che mi hai regalato la trovo davvero repellente, però ho apprezzato moltissimo il pensiero e l'attenzione nei miei confronti che hai voluto esprimermi tanto gentilmente attraverso di esso; ho apprezzato talmente tanto e ne sono stata talmente felice che ho voluto dare questa gioia a qualcun altro e il tuo regalo l'ho dato a Tizio, che ne è stato entusiasta', ce ne vuole. Infatti questo secondo passaggio in genere non lo faccio mai. Ma spesso non c'è bisogno di renderne partecipe 'il donatore'. Nel caso sia una persona a me intima, il problema non si pone: difficilmente ricevo regali mostruosi da chi davvero mi conosce bene; nel caso invece sia una persona con cui ho tutto sommato poca confidenza non è necessario esplicitare il concetto. E' una cosa tra me e me.

Un altro caso per me penoso di gestione del mio 'vero me', per dirla un po' alla burina, è costituito dai miei gusti gastronomici, che spesso sono di una rozzezza e di una dozzinalità che io per prima trovo sconcertanti.

Da adolescente avevo una passione colpevole per i fast food. Appena avevo due lire in tasca, scappavo nel primo McDonald's per mangiarmi un hamburger e bermi con incredibile soddisfazione un milk shake alla fragola.
Poi, ai tempi delle superiori, frequentando un liceo gremito di aristofreaks, in cui per vezzo e per moda si disdegnavano simili cibi e si andava in deliquio o per il riso integrale col tamari (se si era aristo) o per una classica rosetta con la mortadella (se si era semplicemente freaks), mai mi sarei fatta sorprendere anche solo in prossimità di un fast food, figuriamoci dentro e magari con un panino in bocca e un'espressione di beatitudine sulla faccia.

Lo dico a rischio di perdere quel po' di stima che mi sono conquistata nel tempo presso alcuni dei lettori di questo blog, ma anche in questo istante, se mi si mettesse sotto il naso uno di quegli orridi panini mosci con su quattro-semi-quattro di sesamo (per dargli un'aria vagamente salutista?) con dentro un hamburger di dubbissima origine, il cetriolino sottoaceto d'ordinanza e magari un bel ricciolo di senape, lo addenterei con un certo gusto. Oh, l'ho detto!

E poi mi piacciono i dolci un po' ignoranti, esagerati, alieni da qualsiasi concetto di sobrietà e misura. Pan di spagna farciti di etti di crema al burro, glasse spesso un dito e lucide fino alla volgarità di cioccolato fondente, montagne di panna montata, dischi di meringa sovrapposti e intervallati da strati di mousse al cioccolato. Attentati alla salute, più che dolci.

E, parlando di piatti salati, mi piace qualunque cosa abbia tra i suoi ingredienti del formaggio. Tanto, se possibile. Meglio se saporito e magari filante. A volte, benché non sia previsto nella ricetta, e anche se non c'entra niente col resto degli ingredienti, lo aggiungo io. Cerco di mantenermi nei limiti della decenza e del commestibile, ma a volte sono pericolosamente vicina al superarli.

Riguardo alla ricetta di oggi, fa parte a pieno titolo di quel genere che non si potrebbe assolutamente definire né elegante, né sofisticato, né, probabilmente, decente. Tanto per capirsi, io se fossi in voi non preparerei questo piatto la sera in cui, per la prima volta, invitate a cena a casa vostra i futuri suoceri o il capufficio e volete impressionarli. Ecco.

Se invece vi capitano tra capo e collo degli amici fraterni, di quelli con i quali escono fuori serate casalinghe all'insegna del cazzeggio e della stupidera (le mie preferite, per inciso) e coi quali in passato avete fatto gare di rutti e vacanze spericolate e hanno visto davvero il peggio - e il meglio - di voi, allora questo piatto è perfetto.

A me piace moltissimo.
Date le premesse, non dovrebbe sorprendere che questa ricetta proviene da un libro della nostra cara Nigellona, precisamente How to Be a Domestic Goddess.
Si tratta di una torta di cipolle, una supper onion pie, molto semplice, una specie di tarte tatin.
Nigella introduce la ricetta con queste parole:

Questo è proprio ciò che ho voglia di mangiare a cena quando fa buio presto e sono stanca.

Mi pare un'ottima introduzione.


per una tortiera di 24 cm di diametro

4 cipolle rosse (circa 750 gr.)
1 cucchiaio di olio d'oliva
25 gr. circa di burro
3-4 rametti di timo fresco (o 1/2 cucchiaino di timo secco)
150 gr. di formaggio grattato (nella ricetta originale è previsto il Cheddar o il Groviera; io in genere uso quello che trovo in frigo, avanzi, per lo più, ma sempre sempre sempre deve esserci una bella quantità di pecorino, che adoro, e magari un formaggio meno saporito, come l'Asiago o un formaggio vaccino)

per la pasta:
250 gr. di farina
1 cucchiaino scarso di lievito
1 cucchiaino di sale
100 ml di latte
40 gr di burro, fuso (questa volta l'ho dimenticato; l'ho fuso diligentemente nel pentolino, ma poi non l'ho aggiunto agli altri ingredienti; non mi pare che la ricetta nel complesso ne abbia risentito, anzi; dunque io quasi quasi lo eviterei tout court, una volta tanto che si può rinunciare a un po' di calorie senza compromettere irrimediabilmente l'equilibrio di una ricetta)
1 cucchiaino scarso di senape inglese in polvere
1 uovo

Preriscaldare il forno a 200°.

Pulite e tagliate le cipolle a metà; tagliate ogni metà in 4-6 spicchi.

Cuocetele in una padella in cui avrete fatto sciogliere il burro e l'olio, a fuoco medio, mescolando regolarmente, per circa 30'. Devono essere morbide, altrimenti (come ho già detto altrove) le digerirete a Pasqua.

Salatele e pepatele, aggiungete il timo, trasferitele nella tortiera e ricopritele con 50 dei 150 gr. di formaggio grattugiato.

Fate la pasta: schiaffate tutto nella coppa del robot da cucina. Quando gli ingredienti cominciano a fare la palla, tirate fuori tutto e, sul piano infarinato o su un foglio di carta da forno (se siete un po' Furio come me), con il mattarello stendete l'impasto fino a ricavare un disco poco più grande della tortiera. Adagiatelo sulle cipolle e sul formaggio, rimboccatene i bordi, così da 'sigillare' le cipolle.

Mettete in forno per 15', poi abbassate la temperatura a 180° e fate cuocere per altri 10': la pasta sarà dorata e croccante.

Tirate fuori dal forno, aspettate un paio di minuti, poi, con disinvoltura e sprezzo del pericolo, rovesciate la torta su un piatto da portata.

Servite e mangiate, condividendo con i vostri commensali qualche vostro orrendo e imbarazzante segreto (o meglio, quello che voi reputate essere un vostro orrendo e imbarazzante segreto; fa una bella differenza). Quando eravate piccole eravate innamorate di Sandro Giacobbe? Vi piacerebbe ancora andare in giro con le spalline sotto i maglioni come negli infausti anni ottanta ma non avete il coraggio di dirlo a nessuno? (oddio, questo è davvero molto grave).
Con questa torta di cipolle nello stomaco sarà un gioco da ragazzi liberarvi di questi pesi e confessare i vostri torbidi segreti agli amici.
Che vi amano esattamente per quello che siete, passione per Sandro Giacobbe e spalline stile Mazinga compresa.

Enjoy!