domenica 31 gennaio 2010

Delle paturnie o di un dolce ai datteri


Uno dei miei peggiori difetti è che sono decisamente lunatica, caratteristica, tra l'altro, che condivido con tutti i miei parenti più prossimi e che, lo immaginerete, non ha giovato negli anni alla serenità della mia vita familiare.

Sono soggetta a repentini cambiamenti d'umore, forse perché sono molto sensibile all'atmosfera emotiva che mi circonda e riesco a captarne rapidamente anche le più impercettibili variazioni.

Ci vuole davvero pochissimo perché mi ritrovi con le lacrime agli occhi per la commozione (basta una musica che, attraverso qualche misteriosa via, sfiori certi miei tasti sensibili) o ostaggio di inspiegabili e brumose malinconie; ma è ugualmente facile per me essere posseduta all'improvviso da un'altrettanto inspiegabile e indomita allegria o da una fanciullesca, fiduciosa attitudine nei confronti della vita.

Poi ci sono quei momenti - e per fortuna non sono frequenti, ma ahimé più numerosi di quanto vorrei - in cui vago in un limbo emotivo che non conosce né grandi entusiasmi né drammatiche infelicità (né tanto meno una quieta serenità), in cui niente mi soddisfa non so bene neanche io perché; in realtà, in genere, lo so benissimo; è che non mi va di ammetterlo o di dirmelo. Appena lo faccio, quando lo faccio, l'umore malmostoso di solito svanisce.
In quei momenti so di essere una piaga d'Egitto, ma questa consapevolezza non contribuisce a migliorare granché la situazione.

Essendo la mia una famiglia di lunatici, come dicevo poc'anzi, conosciamo tutti benissimo questa molesta condizione dell'anima e la chiamiamo 'avere le paturnie'. Ricordate Holly Golightly, la protagonista di Breakfast at Tiffany's, il film del '61 con la soave Audrey Hepburn? Quando le venivano le paturnie, l'unico modo per ritrovare la serenità era prendere un taxi e recarsi da Tiffany.
C'era un bel dialogo tra Holly e Paul, in cui lei spiegava a lui che differenza ci fosse tra avere le paturnie ed essere tristi. Sei triste quando fuori piove o ti accorgi di essere ingrassata, per esempio, mentre per la paturnie spesso non c'è una vera ragione: è una specie di paura, non si sa bene di cosa.

Sono sicura che prendere un taxi e andare in qualche lussuosa gioielleria non mi gioverebbe affatto in caso di paturnie. Dedicarmi, invece, a qualche attività quieta e solitaria che richieda concentrazione ma non eccessiva destrezza, e sia al tempo stesso rilassante e non troppo impegnativa per i miei due neuroni, mi aiuta molto a ritrovare un po' di equilibrio.

La cucina mi offre uno splendido riparo in queste circostanze.
La mia scarsa (anche se momentanea) propensione a trarre una qualche forma di piacere dalla compagnia dei miei simili può benissimo camuffarsi da necessità di muovermi liberamente e in solitudine nella mia piccola cucina, che detta fuori dai denti vuol dire che in quei momenti è meglio che la Spia mantenga una cauta distanza di sicurezza (diciamo quella che può essere difficilmente coperta da un mestolo lanciato da una donna in preda alle paturnie) ed in genere lo sa benissimo.

Durante uno dei miei ultimi 'attacchi', ho preparato questa torta ai datteri, una delle preferite della Spia (altro elemento per me importante: scegliere di cucinare qualcosa che lui predilige, così se non capisce l'antifona posso sempre dirgli qualcosa del tipo 'Se stai lontano dalla cucina per un po' poi sarai ricompensato').

Devo ammettere che, per una qualche ragione misteriosa (proprio come misteriose sono le paturnie), questa torta mi piace moltissimo anche se non ho mai amato i datteri.

La prima volta che li ho mangiati ero piccola e ammalata. Ero febbricitante e in preda alla nausea e non mangiavo da un po'. Mia madre, allarmatissima (io dico sempre che il giorno in cui i miei cari e i miei amici mi sentiranno dire 'Non ho fame' dovranno seriamente preoccuparsi), insistette per farmene assaggiare uno, sperando che li trovassi di mio gusto.

Non li trovai di mio gusto.
E quello che mi disse mio fratello per spiegarmi come mai quegli strani frutti zuccherini fossero tutti rugosi non mi aiutò a trovarli appetibili. Lo sventurato spiegò quel loro aspetto non proprio attraente dicendomi che erano stati raccolti nel deserto, dove erano stati ciucciati e poi sputati a terra dai cammelli.

Tralasciamo qualsiasi considerazione sulla crudeltà mentale dimostrata in quella e in altre occasioni dal mio venerabile fratello e passiamo direttamente alla ricetta, che è presa da Modern Classics book 2 di Donna Hay.

Si fa un gran parlare delle ricette ipercaloriche di Nigellona, ma ci si dimentica spesso che quelle di Donna Hay non scherzano affatto. Sono buone, però. E quando si hanno le paturnie si ha altro cui pensare che le calorie.

(A proposito. Spero siate avvezzi al sistema cups/spoons, altrimenti la preparazione di questa torta potrebbe farvi venire, invece che farvi passare, un attacco di paturnie. E sarebbe un grande peccato. Vi do dunque un consiglio: la prossima volta che vi capita, acquistate uno di quei set che ormai si trovano praticamente ovunque di cups e spoons. Sono mooooolto comodi qualora ci si trovi a cucinare seguendo delle ricette americane. Altrimenti comprate l'edizione italiana del libro in questione: lo trovate pubblicato da Guido Tommasi).


Date loaf

1 e 1/2 cups di farina
1 cucchiaino e mezzo di lievito per dolci
2/3 cup di zucchero
1 cup di datteri tagliati grossolanamente
1/2 cup di noci pecan tagliate grossolanemente
125 gr. di burro
1/4 cup di latte
2 uova

Preriscaldate il forno a 170° (nella ricetta originale c'è scritto 160°, ma per il mio forno è una temperatura troppo bassa).

In una ciotola mettete tutti gli ingredienti secchi.

Mettete in un pentolino a fuoco dolce il latte e il burro fino a quando quest'ultimo non si sia sciolto.

Versate il composto nella ciotola con la farina e compagnia bella (per dirla alla giovane Holden) e aggiungete anche le uova. Amalgamate.

Versate in una teglia da plumcake imburrata e infarinata e cuocete per circa 1 ora (1 ora e un quarto nella ricetta originale): affidatevi, as usual, alla prova dello stecchino.

La Hay consiglia di mangiare questa torta tagliata a fette e spalmata di burro.
In linea di principio trovo questa pratica aberrante (e totalmente inutile; questo dolce è ricco di suo). Ma non bisogna mai dire mai. Magari al prossimo attacco di paturnie potreste ritrovarmi in cucina, appollaiata sullo sgabello a spalmare di burro una fetta di questa torta.

Speriamo di no.

Enjoy!

domenica 24 gennaio 2010

Della dromofobia, della buona compagnia, o di un'insalata e una zuppa

















Chi mi conosce sa che odio viaggiare e che ci sono poche cose al mondo che mi gettano in uno stato di prostrazione e di ansia quanto la prospettiva di doverlo fare.
Tutte le fasi di un viaggio mi sgomentano, a partire dalla preparazione della valigia, che per me è sempre un incubo.

Non c'è mai stata una volta, dico una sola volta, a memoria d'uomo, che io abbia fatto una valigia in modo sensato, mettendoci dentro cose utili e necessarie. In passato mi portavo dietro la casa intera, nel tentativo inutile e destinato al fallimento di sentirmi ancora tra le sue quattro mura proprio quando ne sarei stata lontana per un periodo più o meno lungo.

Ovviamente, in quella versione leggermente più ristretta della mia casa che cercavo di infilare nei miei valigioni sempre pesantissimi, figuravano proprio gli oggetti più assurdi e incongrui e brillavano per la loro assenza quelli essenziali e opportuni. Se andavo al mare lasciavo a casa il costume, per intenderci, o il telo da spiaggia. Dio solo sa quanti spazzolini e quante paia di ciabatte ho dovuto ricomprare negli anni, per non parlare di mutande e calzini.

Vorrei chiarire, però, un punto essenziale.
Quando dico che odio viaggiare non voglio dire che non mi piaccia scoprire paesi a me sconosciuti, camminare per le vie di città di cui sogno da anni, immergermi in realtà assai lontane dalla mia.
È solo che odio l'idea di spostarmi, di muovermi fisicamente nello spazio per arrivare infine a destinazione. E odio quasi tutti i mezzi di trasporto. Se potessi viaggiare a piedi sarei molto più contenta.

Sono sempre stata terrorizzata dagli aerei e negli ultimi dieci anni ne ho presi molti ma molti più di quanti avevo previsto ne avrei presi in tutta la mia vita. La gamma di reazioni psicosomatiche che scatena in me un viaggio in aereo (tutte sgradevolissime e socialmente imbarazzanti) è ampia e variegata e ve la risparmio. Ma credetemi, su un aereo ci salgo proprio se non c'è alternativa e per tutto il viaggio soffro, soffro, soffro.

Delle navi non parlo nemmeno: probabilmente in qualche vita precedente sono morta annegata, non so. Sta di fatto che a stento riesco ad immaginare situazione per me più ansiogena che un viaggio per mare (uno in aereo, appunto). Appena mi ritrovo su un piroscafo, un traghetto, una barca o un canotto (a volte basta un materassino, giuro), a bordo di qualunque cosa immersa nell'acqua, insomma, vengo presa immantinente da furiosi attacchi di nausea e in genere finisco per accasciarmi da qualche parte, gemendo come un'anima in pena e con la faccia verde. Sono rimasta famosa per aver sofferto il mal di mare su un grosso barcone che però era ancorato in un porto e, mi dicono, perfettamente immobile.

Viaggiare in treno non sarebbe neanche tragico (e infatti è così che viaggio, per lo più) se non fosse per la promiscuità cui condannano i vagoni, dove si è quasi sempre costretti a subire le continue telefonate degli altri viaggiatori, che sembrano non essere capaci di resistere neanche un minuto senza utilizzare compulsivamente il cellulare, o, peggio ancora, le loro conversazioni spesso atroci, e poi anche gli urli, i capricci, i pianti dei bambini e gli smadonnamenti dei loro genitori, per tacere degli annunci deliranti del capotreno (soprattutto quelli che dovrebbero essere in inglese e sono ahimé pronunciati in un idioma sconosciuto e mai sentito), che ripetono senza sosta informazioni che nessuno sente il bisogno di avere. Sto pensando di comprarmi l'ipod esclusivamente per ovviare a questi penosi inconvenienti.

Quanto alla macchina ha i suoi indubbi vantaggi: si può ascoltare la musica, starsene tranquilli (o almeno si spera), ci si può fermare quando si vuole e per quanto si vuole, ma dopo un po' che sto chiusa lì dentro l'abitacolo comincia a sembrarmi un sudario, divento inquieta, mi viene da mangiare ogni genere di schifezza a portata di mano (quintali di caramelle, crackers, biscotti, panini) messa da parte per il viaggio che invece finisce nelle mie fauci dopo neanche mezz'ora aver lasciato la mia casa. E se poi ci sono ingorghi o code, mi riduco in uno stato pietoso, simile a quello della mia versione 'marittima', con in più una dose di insofferenza e di nervosismo che non mi rende, propriamente, la compagna ideale per un viaggio.

Dal momento in cui, però, finalmente, giungo a destinazione, sono felicissima di avere vinto le mie ataviche resistenze all'idea di partire e in genere sono una viaggiatrice infaticabile e del genere 'entusiasta', di quelle che trovano incredibilmente bella e interessante qualunque cosa, dalle fontane ai piccioni, dai marciapiedi ai negozi, dallo stile di guida al modo in cui si veste la gente.
Se posso, mi piace moltissimo interloquire con gli indigeni e, ovviamente, mangiare quello che mangiano loro: tutti i miei viaggi, anche di pochi chilometri, sono per lo più pretesti per avventure e scoperte gastronomiche.

Ovviamente ho bisogno di motivazioni 'forti' per abbandonare la mia cuccia, come per esempio la nostalgia di persone e luoghi a me molto cari, o il desiderio di dare un volto a un'amica 'telematica'. Questa è stata la ragione di un mio recente viaggio in Puglia, viaggio tra l'altro funestato da orrendi ritardi delle ferrovie che mi hanno costretto a passare tre ore e mezzo tra le più miserabili della mia vita in quel girone infernale che è la Stazione Termini. Roba da 'attaccone di squallore' fulminante (per dirla con la mia amica Annalisa).

Non parlerò di quanto felice sia stata la mia settimana in compagnia della mia amica, di quanto accolta e in famiglia mi sia potuta sentire nella sua casa, con la sua famiglia e con i suoi amici, ma di quanto mi sia piaciuta la sua terra. Ho visto campagne splendide e cittadine linde e pinte, sontuosi palazzi barocchi e vicoli da presepe, spiagge raccolte e torri saracene e poi ho mangiato cose paradisiache e che nemmeno nelle mie fantasie più sfrenate avrei potuto immaginare. Per esempio quella frittella fatta di pasta di pane fritta nell'olio bollente e spalmata di ricotta acida, che detta così sembra una roba tremenda ed è invece una delle sette meraviglie del mondo. Per non parlare poi di quei rettangoli di polenta, ahimè sempre fritti, cosparsi di grani di sale e infilati in un sacchetto, assaporati in preda all'incantamento e all'estasi nei vicoli di Bari vecchia, in una sera freddissima.

Innumerevoli sono state le scoperte gastronomiche in quella settimana, non solo della tradizione locale ma anche della tradizione 'casalinga' della mia cara amica. Adoro essere ospite di qualcuno e vedermi proposto un piatto 'della casa', un cavallo di battaglia, una pietanza la cui ricetta si tramanda di generazione in generazione e, se possibile, sentirmi raccontare la genesi di una ricetta, le storie nate intorno ad essa che a volte coinvolgono vecchie zie zitelle o bisnonne dispostiche, zii eccentrici e con l'amore per la cucina o cugine perse o dimenticate se non fosse per quella loro splendida interpretazione culinaria.

Le due di cui parlo oggi non hanno origini tanto antiche e appartenenti al folklore familiare, ma sono buone, buonissime e ultratestate. Per una di esse, la zuppa di zucca e arancia, violo un mio personale criterio di selezione delle ricette, rispettato fin dall'inizio in questo blog: è la prima di cui scrivo qui che probabilmente non è stata presa da un libro. Dico probabilmente perché se ne ignora l'origine. La splendida cuoca che me l'ha cucinata, la bella Piera, non ricordava più dove l'avesse presa. Io l'ho copiata dal suo quaderno delle ricette.
Eccola qui:

Vellutata di zucca all'arancia

(per 4 persone)

400 gr. di zucca già pulita
1 arancia
4 foglie di salvia
20 gr. di farina
8 dl. di latte tiepido
1 porro
noci

In tre cucchiai di olio fate appassire per circa 3' la parte verde del porro, le foglie di salvia spezzettate, un paio di strisce di scorza d'arancia e la zucca tagliata a cubetti.

Aggiungete la farina, poi il latte tiepido.

Coprite e cuocete a fuoco lento per circa 30'.

In un paio di cucchiai di olio ben caldo fate friggere per mezzo minuto la parte bianca del porro tagliata a julienne. Tenete in caldo.

Ripescate dalla zuppa la scorza dell'arancia e frullate. Aggiustate di sale.

Guarnite i piatti con alcuni gherigli di noce spezzettati, il porro a julienne e riccioli di scorza dell'arancia.


Questa, invece, è l'insalata che ha concluso il pranzo; la ricetta è tratta da La grande enciclopedia della cucina di Anne Willan (Rizzoli).

Insalata di salmone, avocado e pompelmo rosa

(per 4 persone)

2 pompelmi rosa
90 gr. di rucola (volendo si può usare un misto di rucola e valeriana; io, che in genere non amo la rucola, penso però che qui sia necessaria)
125 gr. di salmone affumicato
2 avocado

Disponete sul piatto di portata la rucola (o il misto di rucola e valeriana), tagliate a straccetti il salmone e adagiatevelo sopra.

Pelate i pompelmi al vivo, tagliateli a cubetti e uniteli al resto degli ingredienti.

Tagliate a fettine sottili gli avocado, spruzzatele di succo di limone, salatele leggermente e disponetele sul piatto di portata.

Non è necessario condire con olio.

Paola ha abbellito l'insalata con riccioli di scorza d'arancia (sempre quella della zuppa) (ERRATA CORRIGE: Leggere il commento di Paola al post; la scorza è quella del pompelmo, scottata in acqua bollente per toglierle l'amaro).

Da mangiare preferibilmente con persone affettuose, intelligenti e vivaci, rendendo grazie per il buon cibo e, soprattutto, sempre sempre sempre per la buona compagnia, in nome della quale si vincono, a volte, le proprie idiosincrasie più radicate.
Ed è giusto che sia così. La buona compagnia è merce rarissima sotto il sole, molto più di quanto si creda, e soprattutto di questi tempi.

Enjoy!

P.S. Ringrazio per le foto Anna e Paola; io, ovviamente, avevo dimenticato di portare con me la macchina fotografica.

domenica 17 gennaio 2010

La vita davanti a sé di Romain Gary

Relazioni sentimentali appassionate hanno scricchiolato ed amicizie decennali e profonde si sono incrinate nell'udire pronunciare la fatidica frase: "Non hai mai letto questo libro? Deeeevi assolutamente leggerlo! Non puoi non averlo letto! E' il libro fondamentale della mia vita!".

Pare una frase innocente, dettata dal sincero e insopprimibile desiderio di condividere tutto con una persona amata, anche e soprattutto ciò che ci ha dato piacere e senso e comunicato bellezza, sapienza, commozione. Si vuole che anche lei faccia l'esperienza che ha cambiato in meglio la nostra vita, che le ha dato maggiore spessore e ricchezza, forse addirittura un nuovo corso (perché, sì, i libri sono capaci anche di questo; i libri veri) e che sicuramente ha aperto nuove finestre e nuovi affacci su di essa, consentendoci di averne una visione più ampia, più distesa, più complessa, più reale.

Invece è una frase tremenda, che non bisognerebbe pronunciare mai. Non ci si può impedire di pensarla, non dico che bisognerebbe censurarsi fino a questo punto - anche perché lo ritengo impossibile. Però credo senz'altro sarebbe necessario eliminarla dal nostro frasario 'sociale', per così dire. Dovremmo tenercela per noi, anche quando incontriamo una persona che ci piace infinitamente e che pensiamo possa davvero accogliere, tra le sue mani, l'offerta forse misera, ma per noi preziosa e vulnerabile, della nostra vita interiore. Dovremmo esprimere il nostro entusiasmo, la nostra gratitudine nei confronti di quel libro, ma mai l'invito a leggerlo. Mai e poi mai, soprattutto, l'ingiunzione a farlo.

E così, quando Paola mi ha porto un pacchetto rosso e aprendolo mi sono trovata di fronte a questo romanzo, ho avuto un brivido di apprensione. Sapevo bene quanto sia attaccata a questo libro, quanto esso significhi per lei e per un attimo sono stata presa da inquietudine e ho pensato: 'E se non mi piacesse? E se non ci vedessi quel che lei ci ha visto? Se non ci trovassi quei tesori che lei ci ha trovato?'.

Poi però, un po' la curiosità, un po' un sesto senso che mi ha fatto immediatamente sentire che qualcosa in quel libro ci avrei trovato comunque, ho vinto la mia riluttanza e mi sono tuffata nella sua lettura. Su un treno deserto che mi riportava a casa, durante un lungo viaggio solitario e meditabondo, proprio alla fine di una settimana trascorsa con lei.

Non potevo non leggerlo senza sentire nella mia testa, insieme alla mia voce, anche la sua. L'ho scorta in molte pagine, ho creduto di intravederne le lacrime e di sentirne il riso. Ho letto questo romanzo insieme a lei, presenza benevola e protettiva come certe fate buone che appaiono nelle fiabe e vegliano sulle sorti del protagonista.

Ma non credo che questo solo abbia contribuito a farmi amare questo romanzo.
Perché questo è un libro davvero speciale e il fatto che per me sia legato indissolubilmente ad una cara amica ha senz'altro reso più intensa e significativa la sua lettura, ma non gli ha donato pregi e virtù che altrimenti non avrebbe avuto.

Ci si commuove molto leggendo la storia di Momò e si ride anche, moltissimo, perché Momò è un bambino, e come tutti i bambini ha un suo linguaggio, personalissimo e buffo e immaginifico, e sue categorie, spesso inusuali ed eccentriche, con le quali interpreta il mondo intorno a sé. Un mondo particolare e che non sembrerebbe affatto adatto ad un bambino: quello di una Belleville multietnica e spesso criminale, negli inquieti e carichi di tensione anni '70.

Momò è insieme l'innocenza dell'infanzia e il cinismo dell'età adulta; ha dentro di sé intatti certi sogni e certe fantasie che abbiamo avuto tutti alla sua età e la consapevolezza, precoce, della bruttura e della spietatezza della vita, della gratuità del male, dell'incomprensibilità della sofferenza umana, della sua ingiustizia.

Ci si commuove, e tanto, perché Gary è riuscito a ricreare, in modo magico e che ha del paranormale, i sentimenti e i pensieri e le paure di un bambino, di tutti i bambini: quella di non essere amati, di rimanere soli, di non essere protetti ma anche di non poter proteggere chi si ama, il senso di inadeguatezza e di impotenza che da piccoli si prova di fronte a un mondo, quello degli adulti, che appare spesso indecifrabile e dominato da leggi assurde e a volte crudeli e nei confronti del quale si prova insieme desiderio e timore, attrazione e repulsione.

Ma soprattutto, leggendo questo romanzo, si incontrano uomini e donne speciali e indimenticabili, prima fra tutti la vecchia e malata Madame Rosa, l'ex prostituta polacca sopravvissuta all'olocausto che ha creato una pensione per i figli delle prostitute (Momò è uno dei suoi pensionati) e tiene un ritratto di Hitler sotto il letto, da contemplare quando si sente infelice, per ritrovare un po' di serenità nella consapevolezza che "era pur sempre una grossa preoccupazione di meno" non dover più avere a che fare con lui.

Da lei Momò impara che cosa significhi amare dell'amore che dovrebbe essere più puro e sublime, quello di una madre. Pur nello squallore e nella povertà, e nel discutibile ed equivoco ambiente in cui Madame Rosa lo fa crescere, tra spacciatori ed eroinomani, estorsori e travestiti, truffatori e pappa, a Momò vengono trasmessi i valori umani fondamentali e imprescindibili: la solidarietà, la compassione, la generosità, la capacità di discernere tra il bene e il male, la comprensione e il superamento delle differenze, la pietà per le debolezze altrui, l'infinito rispetto per la fragilità della vecchiaia e la gratitudine per il bagaglio di sapienza ed esperienza che essa, a volte, sa trasmettere, quando si sia disposti ad ascoltarla.

Grazie a questa eredità di affetti e di calore umano, anche quando Madame Rosa lo lascerà per sempre, il lettore sa che Momò riuscirà a trovare la forza e il coraggio di non chiudersi nel dolore e nella paura e si affaccerà alla vita adulta, forse non con allegria e spensieratezza, ma disposto a credere nella possibilità del bene.

Grazie, Paola cara. Grazie.


Romain Gary, La vita davanti a sé, Neri Pozza 2005, traduzione di Giovanni Bogliolo.

giovedì 14 gennaio 2010

Di altri traumi infantili, del vittimismo e di uno sformato di verza


Recentemente mi sono imbattuta in una bella frase di Theodore Roosevelt che dice, testualmente:

Do what you can, with what you have, where you are.

Ovvero sia:

Fa' quel che puoi, con ciò che possiedi, dove ti trovi.

Penso sia un gran bel motto da tenere presente, soprattutto quando nella cassetta 'a sorpresa' che il produttore biodinamico da cui si rifornisce il nostro GAS ci prepara ogni due settimane (a sorpresa perché sul suo contenuto noi del GAS non possiamo esprimere preferenze, ma accettiamo quello che, nei vari mesi dell'anno, il produttore ha a disposizione) ci si trova davanti un gran bel verzone e si viene presi da momentaneo - e per me comprensibilissimo - sgomento/avvilimento e dal desiderio irrefrenabile di lasciarlo a marcire lì nella cassetta e mangiare per pranzo un panino al salame.

Pure, non si può certo pensare ogni volta di regalare questa verza a qualcuno (e a chi, poi? visto che quasi tutti i nostri amici qui a Firenze fanno parte del nostro GAS e hanno dunque, anche loro, eventualmente, il loro bel da fare a smaltirne la loro quota personale?).

Se c'è qualcosa che proprio non ho mai tollerato è la verza. Ho ricordi traumatici infantili di orridi e brodosi involtini preparati con le sue foglie e ripieni di carne e altrettanto traumatiche memorie di certe padellate di verza stufata all'aceto che in casa mia accompagnavano immancabilmente, alternandosi con i broccoletti, le salsicce.

Ho scritto più volte in questo blog che da anni cerco di portare avanti una sorta di personale programma di rieducazione alimentare, nel tentativo di raddrizzare le numerose storture del gusto cui i miei sadici genitori mi hanno indotto e di vincere certe idiosincrasie che hanno limitato per molto tempo le mie esperienze culinarie.
Questo programma di rieducazione ha avuto, finora, un discreto successo. A parte quelle per i cardi e il cavolfiore lesso, sono orgogliosa di aver vinto molte mie storiche avversioni (ultimamente addirittura quella nei confronti dei finocchi cotti, di cui si favoleggiava nei cinque continenti).
La natura è evidentemente e fortunatamente più saggia di noi e fa in modo che ogni tot i nostri gusti cambino, in armonia con il ricambio delle nostre cellule, forse.

Quel che è difficile cambiare, però, è la propria testa. Se da decenni siamo convinti di non poter sostenere nemmeno la vista di una verza senza automaticamente provare un desiderio di fuga, un istinto omicida nei confronti del povero contadino che l'ha coltivata o dei nostri genitori che ci hanno costretto per anni a cibarcene, o semplicemente un conato di vomito, sarà assai difficile provare a mettere in dubbio questa granitica certezza. I meccanismi cristallizzati che scattano quasi senza che ce se ne accorga sono tra le robe più letali dell'esistenza. Si rimane incastrati in quell'ingranaggio che sembra partire da sé (sembra, e proprio questo è il punto), e ci si ritrova vittime inconsapevoli e passive.

Ora, se c'è una cosa che proprio non sopporto è sentirmi una vittima. E visto che ci sono diverse occasioni che la vita mi offre quotidianamente perché io possa fare questa avvilente esperienza, non voglio proprio metterci del mio e crearmene altre da me, dal nulla.

Dunque, qualche giorno fa, di fronte a quel bel cespone di verza che occhieggiava dal bordo della cassetta, invece di farmi prendere dallo scoramento ho deciso di sedermi in corridoio, per terra, davanti alla libreria su cui trovano posto i miei libri di cucina, alla ricerca di una ricetta che utilizzasse proprio ciò che in quel momento avevo a disposizione, e in abbondanza (do what you can, with what you have etc. etc.), e che, sperabilmente, mi facesse anche cambiare idea sull'argomento.

E siccome chi cerca (quasi sempre) trova - a meno che non sia la Spia, che come gran parte degli uomini ha delle difficoltà intrinseche nel reperire qualunque oggetto, a meno che non si tratti del telecomando del televisore - mi sono imbattuta in una splendida creatura del mio caro Stefano Arturi. Da quella grotta di Alì Babà che è il suo Pausa pranzo, ecco qui uno stupefacente sformato. La ricetta è copiata pari pari, senza variazioni di rilievo.


per 4-6 persone

una verza (un kg circa)
50 gr. di farina
50 gr. di parmigiano grattugiato + 3 cucchiai (io ho usato del pecorino e del parmigiano, in proporzioni che al momento mi sfuggono; più pecorino che parmigiano, comunque)
400 ml di latte intero
60 ml di olio d'oliva
3 cucchiai di farina di mais per polenta
sale e pepe

Scartate le foglie più esterne della verza, tagliatela a metà, poi in quarti. Affettatela sottilmente e lavatela. Mettetela in una capace terrina e versateci sopra dell'acqua bollente. Lasciatela a bagno per circa 5', poi scolatela, passatela sotto l'acqua fredda, scolatela ancora, asciugatela con un canovaccio pulito e tritatela in modo grossolano (sembra complicato, non lo è. Non usate questa scusa per non provare questo sformato!).

Mettetela nella coppa del robot da cucina insieme alla farina, ai 50 gr. di formaggio, al latte e all'olio. Aggiungete sale e pepe. Se volete (ed io lo volli), unite anche un pezzetto di salamella piccante. Ci sta benissimo. Il bell'Arturi suggerisce anche, eventualmente, 50 gr. di groviera o una salsiccia a tocchetti precedentemente rosolata in padella.

Imburrate una tortiera di 28 cm di diametro, spolveratela con un cucchiaio di polenta e uno di parmigiano. Versate il composto di verza, livellate, spolverate con gli altri due cucchiai di polenta e di formaggio, zigzagate con olio e mettete in forno a cuocere per circa 30'-40'.

Lo sformato sarà bello dorato e per la vostra casa si sarà diffuso un profumo invitante che - statene certi - risveglierà l'appetito del più schifiltoso e rompiballe degli ospiti (o di eventuali mariti/compagni/fidanzati/tizietti, ma anche suocere; la mia ne è stata entusiasta e non l'ha neanche trovato cancerogeno).

Come tutti gli sformati che si rispettino, appena uscito dal forno non dà il suo meglio.
Per mangiarlo, aspettate che abbia raggiunto una temperatura che sia inferiore a quella di fusione del criceto (citazione! chissà chi la indovina...).
Il giorno dopo, vi dirò, sarà ancora più buono.

Enjoy!


mercoledì 13 gennaio 2010

Per favore, mi lasci nell'ombra di Carlo Emilio Gadda


"Temperamento piuttosto incline a solitudine, inetto a cicalare con brio, alieno dalla mondanità, io avvicino e frequento i miei simili con una certa fatica e una certa titubanza”.
Una scelta di interviste fatte allo scrittore ingegnere tra il 1950 e il 1972, dalla lettura delle quali emerge l'immagine di un uomo solitario, pieno di manie e piccole e grandi ossessioni, sempre pronto ad allevare sensi di colpa, a scusarsi di mancanze inesistenti, a ritenersi responsabile di varie e orribili nefandezze, ma anche convinto di essere oggetto di cospirazioni e complotti e malato di manie di persecuzione.
Tra reticenze e improvvise aperture, frasi involute e di barocca, spagnoleggiante cortesia, nostalgie e attacchi di furente indignazione, una lettura piacevolissima, a tratti involontariamente comica per via del modo spesso bizzarro e inusuale di esprimersi di Gadda. Per dire che non aveva ancora comprato un volume (perché questo avrebbe significato per lui prendere un autobus e recarsi in qualche libreria del centro, cosa che non amava fare e che lo stancava molto) ecco cosa disse: "per stanchezza fisica e mancanza di possibilità di moto topografico non sono ancora riuscito a procurarlo".
Gustosissimo il lungo pezzo scritto da Alberto Arbasino, La formazione dell'ingegnere, in cui Gadda esprime i suoi giudizi trincianti e spesso crudeli sui grandi della letteratura italiana. Dal Foscolo, odiatissimo per la sua ossessione per le donne e la sua sciocca vanità, che lo induceva a vantarsi di avere un petto villoso e una folta chioma ("Vantarsi del pelo! E' un'opinione da parrucchiere!") al Carducci, un tempo molto amato ma del quale Gadda non ignorava
le pecche e le ingenuità retoriche ai limiti del grottesco e del ridicolo, dal Pascoli (ritenuto troppo piagnucoloso) al Manzoni, fino ad arrivare a D'Annunzio. Pagine divertentissime e ricche di spunti e stimoli.
La mia intervista preferita è però, senza dubbio, quella di Cesare Garboli, Felice chi è diverso, che prende a prestito nel titolo un bellissimo verso di Sandro Penna. E' la mia preferita perché mi sembra che sia l'unica in cui alla giusta ammirazione per il genio e lo scrittore si unisca la nient'affatto inopportuna e sincera pietà per l'uomo Gadda che, dopo aver trascorso con Garboli un pomeriggio, prima di chiudere dietro di sé la porta di casa gli disse: "Lei sentirà dire che io sono un misantropo, in fondo è questo che si pensa di me. Smentisca, la prego, dica che non è vero".
Carlo Emilio Gadda, Per favore, mi lasci nell'ombra. Interviste 1950-1972, Adelphi 1993, a cura di Claudio Vela.

domenica 3 gennaio 2010

Quer pasticciaccio brutto de via Merulana di Carlo Emilio Gadda

Se cercate nei libri la cosiddetta evasione dalla realtà, un modo per rilassarvi immergendovi per un po' in un mondo altro che non richieda particolari sforzi mentali per essere compreso e fruito, allora prendete questo libro e rimettetelo subito sullo scaffale dal quale l'avete preso. Non fa per voi.

Questo romanzo, infatti, impegnerà molta della vostra energia e ogni vostro neurone: non solo quelli preposti al funzionamento del vostro intelletto, ma anche, probabilmente, quelli che sovrintendono al corretto svolgimento delle vostre funzioni più brute. Quando ne avrete letto l'ultima parola, vi sentirete deliziosamente stanchi e svuotati, ma anche misteriosamente corroborati e rinvigoriti, come ci si sente dopo una bella corsa di almeno un'oretta (o almeno così mi dicono ci si senta; io, mai corso in vita mia; figuriamoci se per almeno un'oretta).

Quello che sulla carta si presenta come un giallo (in un condominio 'di signori' si consuma un efferato delitto sul quale si indaga: questa la trama), nella realtà è un canto d'amore e di odio per la città in cui la storia si svolge. Mi chiedo, però, che cosa possa capire di questa storia qualcuno che non abbia avuto la sfortuna (o fortuna, dipende dai punti di vista) di nascere e crescere, o almeno vivere per un po', in quel luogo laocoontico e selvaggio, bizantino e fagocitante, psichedelico e polipesco che è Roma.

In questo romanzo la fa da padrone il dialetto romanesco, quello più becero e popolare parlato nei mercati, nelle portinerie, nelle baracche e nelle campagne spelacchiate e squallide che ancora negli anni '50 circondavano i quartieri più centrali di Roma; quello che si parla in Brutti, sporchi e cattivi, per intendersi. Io, che a Roma ci sono nata e cresciuta, ho avuto qualche problema a capire tutto. E infatti di questa storia non ho capito quasi niente; per esempio, a me pare che, se di un giallo si tratta, si tratti di uno di quelli senza soluzione, in cui alla fatidica domanda: 'Chi è il colpevole?' non si possa che rispondere con un convinto: 'Boh'. Il che però non mi ha impedito di godermi immensamente intere pagine assolutamente incomprensibili, delle quali mi è piaciuto farmi risuonare nel testone la musicalità di certi periodi lunghi e contorti, ingemmati di parole mai sentite e probabilmente create per l'occasione, o tanto vetuste e preziose da apparire incredibili invenzioni dell'autore.

La sperimentazione linguistica è infatti spericolata, audace e felicissima (ed è stata negli anni ampiamente studiata e giustamente celebrata e lodata), totalmente disinibita e noncurante di ogni considerazione di armonia e misura. La complessa e selvaggia commistione di registri linguistici e stilistici crea un caleidoscopio che lascia ipnotizzati e intontiti, in cui tutto si mescola senza soluzioni di continuità. Nella stessa frase possono trovarsi fianco a fianco parole tratte dal dialetto più becero, lemmi sofisticatissimi e arcaici, colti anglicismi o francesismi.

Tutto ciò fa capire come dietro il personaggio austero, timidissimo e sorvegliato dell'ingegnere milanese Carlo Emilio Gadda (sulle cui fobie e manie e sulla cui distanza dal mondo reale sono fiorite, negli anni, infinite leggende metropolitane, in parte da lui stesso create), vivesse un uomo vulcanico, un appassionato e attento osservatore della realtà 'altra' che lo circondava, attratto morbosamente e intensamente dal cosmo degradato e bruto delle periferie romane, quello che, tanto per dire una banalità, esercitò il suo fascino anche su quell'intellettuale raffinato e nordico che fu Pasolini.

A differenza di quest'ultimo, però, Gadda di quel mondo colse gli aspetti meno pittoreschi e più inquietanti, il rovescio della medaglia dell'ingenuità, della primitiva purezza, della bontà evangelica che invece, secondo Pasolini, risiedeva solo nelle anime candide dei proletari, non ancora contaminate dalla corruzione della cultura e dell'ipocrisia borghesi.

Questa umanità incattivita dalla miseria, selvaggiamente attaccata alla vita e in lotta per la sopravvivenza, perennemente tormentata da un'inquieta e inutile fuga dalla fame, raramente si concede bontà e nobili sentimenti. Essa è troppo presa dalla necessità animale di rimanere in vita, di non soccombere; ne è schiacciata al punto di non avere tempo e modo di essere pietosa, caritatevole, altruista, solidale. Non può permettersi simili lussi. Ed è dunque condannata, per lo più, a uno squallore morale irredimibile e spietato, ad una meschina grettezza che spesso si traduce in connotati fisici sbilenchi e deformi (abbondano i freaks, in questo romanzo), secondo l'antica, classica legge della corrispondenza tra panorama interiore ed aspetto esteriore.

Sul borghese e colto Gadda, però, questa povertà affamata, amorale e animalesca deve aver esercitato, a tratti, anche un'attrazione sensuale irresistibile: basti pensare agli inquietanti e conturbanti personaggi femminili di Ines e Tina, magistralmente tratteggiati dall'affascinato autore, che ce ne fa addirittura indovinare l'odore di piccole e selvatiche bestiole, di quelle coi denti ben affilati e taglienti, e il pelo che sarebbe serico e lucente se la polvere e la sporcizia non lo rendessero opaco e appiccicoso.
Fa loro da contraltare la bellezza nobile e classica, pur se estenuata, della povera vittima, l'elegantissima, misericordiosa, malinconica e sublime signora Liliana, la cui ultima immagine, però, ce la presenta con la testa quasi staccata dal collo e incrostata di sangue e le gonne sollevate a scoprire in modo indecente, umiliante e poco pietoso la biancheria, anche se raffinatissima e di seta.
Queste due diverse facce della femminilità, sideralmente lontane tra loro, sono però simili nell'attrarre e conturbare Gadda, e con lui il commissario Don Ciccio Ingravallo, uomo solissimo e malinconico, intelligente e acuto, capace di squisite delicatezze e insieme di brutale veemenza, al quale bisognerebbe dedicare un'intera recensione (tranquilli, non lo faccio).

Una cosa questi due mondi (quello dei poveracci e quello dei signori) hanno in comune: un'infelice solitudine. Questo è l'unico vero campo in cui tutti i personaggi del romanzo potrebbero incontrarsi e riconoscersi simili, a dispetto di ogni differenza di classe, censo, cultura e provenienza. Peccato che nessuno lo faccia.

Insomma, mi pare di esser stata chiara.
Questa non è una lettura di tutto riposo.
Al contrario.
Ma vi fareste un grave torto a privarvene.



Carlo Emilio Gadda, Quer pasticciaccio brutto de via Merulana, Garzanti, 1957 (prima edizione)