domenica 3 gennaio 2010

Quer pasticciaccio brutto de via Merulana di Carlo Emilio Gadda

Se cercate nei libri la cosiddetta evasione dalla realtà, un modo per rilassarvi immergendovi per un po' in un mondo altro che non richieda particolari sforzi mentali per essere compreso e fruito, allora prendete questo libro e rimettetelo subito sullo scaffale dal quale l'avete preso. Non fa per voi.

Questo romanzo, infatti, impegnerà molta della vostra energia e ogni vostro neurone: non solo quelli preposti al funzionamento del vostro intelletto, ma anche, probabilmente, quelli che sovrintendono al corretto svolgimento delle vostre funzioni più brute. Quando ne avrete letto l'ultima parola, vi sentirete deliziosamente stanchi e svuotati, ma anche misteriosamente corroborati e rinvigoriti, come ci si sente dopo una bella corsa di almeno un'oretta (o almeno così mi dicono ci si senta; io, mai corso in vita mia; figuriamoci se per almeno un'oretta).

Quello che sulla carta si presenta come un giallo (in un condominio 'di signori' si consuma un efferato delitto sul quale si indaga: questa la trama), nella realtà è un canto d'amore e di odio per la città in cui la storia si svolge. Mi chiedo, però, che cosa possa capire di questa storia qualcuno che non abbia avuto la sfortuna (o fortuna, dipende dai punti di vista) di nascere e crescere, o almeno vivere per un po', in quel luogo laocoontico e selvaggio, bizantino e fagocitante, psichedelico e polipesco che è Roma.

In questo romanzo la fa da padrone il dialetto romanesco, quello più becero e popolare parlato nei mercati, nelle portinerie, nelle baracche e nelle campagne spelacchiate e squallide che ancora negli anni '50 circondavano i quartieri più centrali di Roma; quello che si parla in Brutti, sporchi e cattivi, per intendersi. Io, che a Roma ci sono nata e cresciuta, ho avuto qualche problema a capire tutto. E infatti di questa storia non ho capito quasi niente; per esempio, a me pare che, se di un giallo si tratta, si tratti di uno di quelli senza soluzione, in cui alla fatidica domanda: 'Chi è il colpevole?' non si possa che rispondere con un convinto: 'Boh'. Il che però non mi ha impedito di godermi immensamente intere pagine assolutamente incomprensibili, delle quali mi è piaciuto farmi risuonare nel testone la musicalità di certi periodi lunghi e contorti, ingemmati di parole mai sentite e probabilmente create per l'occasione, o tanto vetuste e preziose da apparire incredibili invenzioni dell'autore.

La sperimentazione linguistica è infatti spericolata, audace e felicissima (ed è stata negli anni ampiamente studiata e giustamente celebrata e lodata), totalmente disinibita e noncurante di ogni considerazione di armonia e misura. La complessa e selvaggia commistione di registri linguistici e stilistici crea un caleidoscopio che lascia ipnotizzati e intontiti, in cui tutto si mescola senza soluzioni di continuità. Nella stessa frase possono trovarsi fianco a fianco parole tratte dal dialetto più becero, lemmi sofisticatissimi e arcaici, colti anglicismi o francesismi.

Tutto ciò fa capire come dietro il personaggio austero, timidissimo e sorvegliato dell'ingegnere milanese Carlo Emilio Gadda (sulle cui fobie e manie e sulla cui distanza dal mondo reale sono fiorite, negli anni, infinite leggende metropolitane, in parte da lui stesso create), vivesse un uomo vulcanico, un appassionato e attento osservatore della realtà 'altra' che lo circondava, attratto morbosamente e intensamente dal cosmo degradato e bruto delle periferie romane, quello che, tanto per dire una banalità, esercitò il suo fascino anche su quell'intellettuale raffinato e nordico che fu Pasolini.

A differenza di quest'ultimo, però, Gadda di quel mondo colse gli aspetti meno pittoreschi e più inquietanti, il rovescio della medaglia dell'ingenuità, della primitiva purezza, della bontà evangelica che invece, secondo Pasolini, risiedeva solo nelle anime candide dei proletari, non ancora contaminate dalla corruzione della cultura e dell'ipocrisia borghesi.

Questa umanità incattivita dalla miseria, selvaggiamente attaccata alla vita e in lotta per la sopravvivenza, perennemente tormentata da un'inquieta e inutile fuga dalla fame, raramente si concede bontà e nobili sentimenti. Essa è troppo presa dalla necessità animale di rimanere in vita, di non soccombere; ne è schiacciata al punto di non avere tempo e modo di essere pietosa, caritatevole, altruista, solidale. Non può permettersi simili lussi. Ed è dunque condannata, per lo più, a uno squallore morale irredimibile e spietato, ad una meschina grettezza che spesso si traduce in connotati fisici sbilenchi e deformi (abbondano i freaks, in questo romanzo), secondo l'antica, classica legge della corrispondenza tra panorama interiore ed aspetto esteriore.

Sul borghese e colto Gadda, però, questa povertà affamata, amorale e animalesca deve aver esercitato, a tratti, anche un'attrazione sensuale irresistibile: basti pensare agli inquietanti e conturbanti personaggi femminili di Ines e Tina, magistralmente tratteggiati dall'affascinato autore, che ce ne fa addirittura indovinare l'odore di piccole e selvatiche bestiole, di quelle coi denti ben affilati e taglienti, e il pelo che sarebbe serico e lucente se la polvere e la sporcizia non lo rendessero opaco e appiccicoso.
Fa loro da contraltare la bellezza nobile e classica, pur se estenuata, della povera vittima, l'elegantissima, misericordiosa, malinconica e sublime signora Liliana, la cui ultima immagine, però, ce la presenta con la testa quasi staccata dal collo e incrostata di sangue e le gonne sollevate a scoprire in modo indecente, umiliante e poco pietoso la biancheria, anche se raffinatissima e di seta.
Queste due diverse facce della femminilità, sideralmente lontane tra loro, sono però simili nell'attrarre e conturbare Gadda, e con lui il commissario Don Ciccio Ingravallo, uomo solissimo e malinconico, intelligente e acuto, capace di squisite delicatezze e insieme di brutale veemenza, al quale bisognerebbe dedicare un'intera recensione (tranquilli, non lo faccio).

Una cosa questi due mondi (quello dei poveracci e quello dei signori) hanno in comune: un'infelice solitudine. Questo è l'unico vero campo in cui tutti i personaggi del romanzo potrebbero incontrarsi e riconoscersi simili, a dispetto di ogni differenza di classe, censo, cultura e provenienza. Peccato che nessuno lo faccia.

Insomma, mi pare di esser stata chiara.
Questa non è una lettura di tutto riposo.
Al contrario.
Ma vi fareste un grave torto a privarvene.



Carlo Emilio Gadda, Quer pasticciaccio brutto de via Merulana, Garzanti, 1957 (prima edizione)

2 commenti:

  1. Indimenticabile la scena di Ingravallo e la gallina (in Gadda ci sono spesso, le galline ;-)
    Grande sempre e grande tutto, il Gaddus!
    Ciao e Buon Anno :-)

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  2. Sì, deve essere stata un'altra delle sue numerose e curiose manie quella delle galline.
    Buon anno anche a te! Che questo 2010 ti porti molte e molte ore di corroboranti letture!

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