venerdì 26 febbraio 2010

In nome della madre di Erri De Luca

Scrivere qualcosa su un libro come questo è davvero un'impresa.
Non solo perché è un libro compreso in sé e che, a mio avviso, nella sua 'perfezione' non chiede, non cerca, non ha bisogno di altro, men che meno della mia opinione.

Ma anche perché in queste poche pagine quel che si legge è un canto, che unisce in sé il mistero dell'amore divino per l'uomo e dell'accettazione umile e fiduciosa, da parte di quest'ultimo, del peso enorme e a tratti insostenibile che questo amore inevitabilmente finisce per poggiare sulle fragili spalle di un essere umano.

La giovanissima Miriàm è visitata da un angelo che le porta il più inaudito degli annunci. Dio l'ha scelta, tra tutte le donne, per farne la madre del proprio figlio. Miriàm non si chiede perché proprio lei. Nella sua docile forza, Miriàm accetta, china la testa, si arrende al mistero del sacro e al volere divino, si fa strumento, canale, contenitore.

E lo fa con un incredibile, commovente e sublime coraggio, lo fa con quella grazia che De Luca definisce, attraverso le parole dello sposo di Miriàm, Iosef, come "la forza sovrumana di affrontare il mondo da soli senza sforzo, sfidarlo a duello tutto intero senza neanche spettinarsi".

Quel Iosef che, dopo un primo comprensibile momento di smarrimento, di sospetto e dubbio, uomo giusto e retto si abbandona con fiducia all'amore per Dio e di Dio e a quello del tutto umano che lo unisce alla sua giovane sposa, perché, dice, "Siamo acque correnti chiamate dal mare a riempirlo, senza possibilità di riuscita, però in obbedienza".

De Luca è poeta, prima che scrittore, e poeta capace di cantare con vivida e sobria commozione la bellezza umile del quotidiano, spesso appannata dalla consuetudine, ma che un occhio attento, insieme compassionevole e lucido, basta a riscoprire (e da questo amore per il quotidiano nascono le straordinarie immagini tratte dalla vita semplice, nuda e cruda, l'attenzione ai dettagli che rendono una storia viva, come se si svolgesse in tempo reale sotto gli occhi del lettore, coinvolgendolo).

A mio parere, De Luca è anche uno dei pochi veri 'saggi' che esistono in Italia al giorno d'oggi.
Un uomo che offre le sue riflessioni con convinzione ma anche senza alcuna traccia di sicumera, con intensità ma senza essere fazioso, che sa indignarsi per le cause giuste e compatire realmente chi merita la compassione degli uomini, che sembra saper sempre distinguere l'essenziale dal superfluo, il luccichio falso e pacchiano dallo splendore vero della realtà.
Un uomo le cui parole non sono mai né superflue, né superficiali, né pronunciate con leggerezza, e hanno sempre e comunque il suono semplice, seducente e terribile della verità.

Per questo, pur essendo uomo, De Luca riesce a cantare con grande semplicità, intensità e rispettosa passione l'amore che come uomo non ha potuto mai provare e non proverà mai, ma che, pure, sembra conoscere bene: quello materno.
Questo libro, infatti, oltre ad una poetica meditazione sull'amore di Dio per l'uomo e dell'uomo per Dio, è anche la storia dell'ennesima, commovente incarnazione, antichissima ed eterna, di quell'amore umano che però ha del divino, quello che unisce una donna al proprio figlio.

La lunga e silenziosa preghiera che Miriàm rivolge a Dio nella notte in cui Ieshu viene al mondo è tra le cose più commoventi e belle che io abbia mai letto.


Erri De Luca, In nome della madre, Feltrinelli 2006.

domenica 21 febbraio 2010

Sorelle Materassi di Aldo Palazzeschi

La ragione per cui ho scelto di leggere questo romanzo è di natura squisitamente affettiva e riguarda mio padre, che ha sempre chiamato me e le altre due sue figlie "le sorelle Materassi" e che da quando ne ho consapevolezza lo ha sempre citato come IL romanzo palloso per antonomasia.

Ho scoperto solo al momento in cui ho iniziato a leggerlo che era ambientato a Firenze, la città in cui non sono nata ma in cui vivo ora e questa cosa me lo ha fatto amare subito un po'. Credo che si costruisca un legame affettuoso con un libro i cui personaggi si muovono in quello stesso paesaggio in cui si muove - anche se anni dopo, anche se in modo diverso - chi lo legge. Ci si sente meno spettatori e più partecipi.

Ora, io non ho trovato affatto palloso questo libro, al contrario.
E non mi sento di essere d'accordo con una recensione poco lusinghiera letta di recente, la cui autrice liquidava sommariamente le due protagoniste definendole 'due tonte'.
In realtà, chiunque abbia letto le Sorelle Materassi di primo acchito potrebbe difficilmente dissentire da un simile giudizio, che però, ad essere poco poco sinceri e un po' meno superficiali, appare senz'altro troppo poco pietoso e soprattutto poco articolato.

La storia di Teresa e Carolina Materassi è senz'altro una storia patetica e in certe pagine anche grottesca. Quando le si incontra, all'inizio del romanzo, sono due zitelle cinquantenni che con il loro mestiere di ricamatrici sono riuscite a risanare una situazione finanziaria catastrofica ereditata dal padre e che per farlo si sono annullate in una vita fatta esclusivamente di lavoro, sacrifici e rinunce.

Insieme a loro vive la fedelissima domestica Niobe, dal passato non proprio integerrimo ma solo per candore e per una genuina e innocente natura sensuale, e Giselda, la più bella e la più giovane delle Materassi che, a differenza di Teresa e Carolina, non si è sacrificata nel tentativo di recuperare i possessi e la dignità perduta della famiglia ma anzi, ha contribuito in parte alla sua disgrazia, ignorandone il divieto di sposare un uomo bello e egoista che dopo poco l'ha abbandonata, costringendola a fare un triste ed amaro ritorno alla casa paterna.

Tra le tre sorelle esistono violente correnti di rancore e invidia, gelosia e odio: Giselda odia Teresa e Carolina per la loro vita integerrima e la forza e l'abilità dimostrata nel recuperare una posizione sociale che sembrava ormai impossibile da recuperare, tutte cose che le due sorelle non si premurano di sbatterle in faccia ogni volta che possono; Carolina e Teresa odiano Giselda perché, essendosi imposte il sacrificio di ignorare il lato piacevole e sensuale della vita, non le perdonano di non aver fatto altrettanto e invidiano la sua conoscenza, anche se breve e pagata a caro prezzo, del piacere sensuale e dell'amore.

Privandosi di una realizzazione sentimentale e personale, Teresa e Carolina sono, all'inizio della storia, finalmente agiate, anche se incapaci di godersi il frutto del loro lavoro, hanno conquistato una nomea professionale d'eccellenza e vantano una fama di moralità impeccabile che le risarcisce di un passato di vergogna in cui si sono sentite in difetto per essere le figlie di uno scialacquatore incosciente.

È in questa situazione di benessere e di tranquillità che arriva, come un fulmine a ciel sereno, la morte di una quarta sorella, che ha vissuto in una città lontana una vita grigia e ai limiti della miseria, ma che per qualche strano scherzo del destino ha messo al mondo un fanciullo che per fascino, bellezza ed innata eleganza pare essere il figlio stesso degli dèi.

E come un dio, la cui apparizione acceca il misero mortale che non può tollerarne lo splendore, Remo appare nella vita di Teresa e Carolina e la stravolge.
Le due zitelle, ne sono, in fondo, le salvatrici: invece di abbandonarlo ad un destino probabilmente magro e anonimo, prendendolo sotto la loro ala protettrice e subito morbosa, gli offrono una vita splendida, un amore incondizionato e oblativo, un'ammirazione sconfinata e ai limiti dell'idiozia, un'accettazione totale e assoluta anche e soprattutto dei suoi difetti, del suo egoismo e della sua assenza di considerazione per niente e per nessuno che non sia lui o il suo amico Palle.

Remo, infatti, si concede (con fredda e paziente rassegnazione la maggior parte delle volte, con grazia in altre rare occasioni) all'adorazione delle sue benefattrici, pur restando sempre e comunque compreso in uno spazio vitale solo suo. Come spesso accade a chi è nato bello e sa di esserlo e sa bene quanto possa la sua bellezza sugli altri, egli agisce da catalizzatore di tutto il vissuto emotivo represso di queste due donne, ma pretende in cambio la soddisfazione immediata e incondizionata di ogni suo più piccolo capriccio venale.

Anche Niobe è vittima di questo potente incantesimo, mentre Giselda, che sulla sua pelle ha ancora il marchio dolorante che le ha lasciato l'amore per un uomo come Remo, è l'unico personaggio di tutto il romanzo a rimanere immune al suo fascino ipnotico.

Fin dalle prime pagine si sa che questo Adone amorale e sempre olimpico nella sua serenità e indifferenza degli altri porterà alla rovina queste due zitelle il cui unico ma imperdonabile e fatale errore è quello di esserglisi aggrappate come alla loro ultima occasione di speranza, bellezza, gioventù e amore, di aver proiettato su di lui ogni loro residuo sogno di passione, eccitazione, libertà e piacere.
Il loro ritratto è dunque un capolavoro finissimo di sfumature e complessità: sono al contempo due personaggi ridicoli e intollerabili nella loro cecità di fronte all'evidente, egoista meschinità del nipote e sublimi nella loro capacità di amare incondizionatamente chi è tanto poco degno di un amore tanto grande.

La dinamica psicologica che unisce i componenti di questo bizzarro terzetto è sottile e profonda e ahimé quanto vera e reale e crudele. Ho trovato notevole, quasi paranormale, l'acutezza con cui l'autore è riuscito a descriverla, a sviscerarla, a darle vita in un romanzo che, anche solo per questo, merita, a mio avviso, di essere letto.

Infine, ho la netta impressione che Palazzeschi sia stato un uomo cresciuto dalle donne o che le donne, per qualche suo motivo, deve averle conosciute o quanto meno studiate assai.
Forse per amore, forse per rancore, forse per tutte e due le cose.




martedì 16 febbraio 2010

Meditazione in forma di gioco davanti a una libreria



La cara Wenny mi ha chiesto di partecipare ad un altro meme che attualmente circola nella blogosfera. Trattandosi di libri, mi è stato praticamente impossibile rifiutare (e tu lo sapevi, vero diabolica Wenny?).
Anzi, a conti fatti, la devo ringraziare, e molto, per avermi coinvolta: grazie a lei, mi sono seduta sul divano di fianco alla mia libreria e per un po' mi sono immersa in una piacevole meditazione.

Ecco qui, a chi sia interessato!

SEI UN UOMO O UNA DONNA? Orlando di Virginia Woolf

DESCRIVITI: La lettrice di Annie François

COME TI SENTI? Pellegrina e straniera di Marguerite Yourcenar

DESCRIVI DOVE VIVI AL MOMENTO: Camera con vista di Edward Morgan Forster

SE POTESSI ANDARE OVUNQUE, DOVE ANDRESTI? Eremita a Parigi di Italo Calvino

CHE COSA AVRESTI VOLUTO FARE DA GRANDE? La scrittrice abita qui di Sandra Petrignani

LA COSA CHE TI FA SOFFRIRE MAGGIORMENTE: Distacchi di Judith Viorst

UNA COSA CHE NON FARAI MAI: Il piacere di soffrire di Alain de Botton

TU E IL/LA TUO/TUA MIGLIORE AMICO/A SIETE: Andante con tenerezza di Laura Mancinelli

CHE COSA TI MANCA: La casa degli spiriti di Isabel Allende

LA STAGIONE IN CUI TI SENTI PIÙ VIVO: Racconti d'inverno di Karen Blixen

MOMENTO PREFERITO DELLA GIORNATA: Ore in biblioteca di Virginia Woolf

SE LA TUA VITA FOSSE UNO SHOW TELEVISIVO, COME SI CHIAMEREBBE? Home Cooking di Laurie Colwin

COS'È LA VITA PER TE? La rivoluzione interiore di Osho Rajneesh

UN ANNO CHE NON SI PUÒ DIMENTICARE: Come io mi voglio di Giulietta Rovera

LA TUA RELAZIONE: Un riflesso dell'altro di Virginia Woolf

HAI PAURA DI: I barbari di Alessandro Baricco

IN ALCUNI MOMENTI TI SENTI: Uno splendido isolamento di Edna O'Brien

UN LUOGO IN CUI NON SEI MAI STATO: L'odore dell'India di Pier Paolo Pasolini

MEZZO DI TRASPORTO PREFERITO: Il barone rampante di Italo Calvino

QUAL È IL MIGLIOR CONSIGLIO CHE TU POSSA DARE? Il destino come scelta di Thorwald Dethlefsen

UNA COSA DI CUI SEI CONSAPEVOLE: È difficile parlare di sé di Natalia Ginzburg

OGNI TANTO PENSI CHE: Una pietra sopra di Italo Calvino

DI CHE COSA HAI BISOGNO IN QUESTO MOMENTO? Una stanza tutta per sé di Virginia Woolf

OGNI TANTO TI DOMANDI: Quoi? L'Eternité di Marguerite Yourcenar

PENSIERO DELLA GIORNATA: La vita davanti a sé di Romain Gary

SE POTESSI RIAVERE INDIETRO QUALCOSA DELLA TUA VITA CHE COSA VORRESTI? Bambini nel tempo di Ian McEwan

IL TUO MOTTO: Possiedo la mia anima di Nadia Fusini

venerdì 12 febbraio 2010

Delle orecchie a sventola e di una manualità ritrovata


Qualche tempo fa, la Spia, in un dopo pranzo silenzioso e assorto, se n'è uscito dicendo, come se riprendesse una conversazione interrotta pochi istanti prima (che invece non era mai iniziata):
"Tra l'altro nel tuo blog non scrivi mai delle cose che fai con le perline, la lana etc."
Mi ha presa in contropiede e ho dovuto dargli ragione (di solito, pur di non dargli questa soddisfazione, mi produco in circonvoluzioni mentali degne di un contorsionista, ma ho bisogno di un minimo preavviso).

In effetti, in questo blog, che porta addirittura nel titolo un'indicazione della mia passione per la manualità, di manualità si parla ben poco. Per non dire che non se ne parla affatto, se si esclude quella che si esplica in cucina (e che poi, ad essere sinceri, è poca cosa, considerato che evito come la peste qualunque ricetta richieda la minima destrezza).

Delle mie ore trascorse assorta e concentrata a far qualcosa con le mie mani, in effetti non ho mai parlato, se non di sfuggita.

Perché il problema è che io, sì, mi dedico con grande divertimento ed entusiasmo alle mie innumerevoli attività manuali, ma non sono molte le volte in cui sono davvero soddisfatta di ciò che alla fine riesco a combinare e l'idea di mostrare le mie 'creature', soprattutto in uno spazio come questo, mi ha sempre lasciata piuttosto perplessa (se avete voglia, date un'occhiata a qualcuno dei blog che segnalo e capirete che cosa intendo).

Non per fare la piccola fiammiferaia che cerca di impietosirvi, ma per fare la piccola fiammiferaia che cerca di impietosirvi vi racconterò un illuminante aneddoto, nella cui eloquenza confido.

Per molti, moltissimi anni, ho avuto il complesso delle orecchie a sventola.
Da piccola pregavo i miei genitori perché mi dessero il permesso di farmi crescere i capelli, così da parzialmente occultare quelle due foglie di verza che pensavo di avere al posto delle orecchie.
I miei, ovviamente, si guardavano bene dall'accontentarmi ("I capelli corti sono più pratici e igienici, e poi stanno bene a tutti!"), continuavano a portarmi regolarmente dal barbiere di mio padre (specializzato nel taglio 'a carciofo') e minimizzavano il mio complesso, salvo poi unirsi ai cori scherzosi dei miei fratelli che mi chiamavano Dumbo o Andreotti o Glemp (un cardinale polacco che quando ero piccola era un giorno sì e l'altro pure in tv, non ricordo il motivo).

Intorno ai 14 anni, mi svegliai dal mio torpore e decisi che dal barbiere non ci sarei più andata. Punto e basta.
Ricordo ancora la sera in cui lo comunicai, tremebonda, ai miei. Mi aspettavo chissà quali furibonde reazioni. Invece niente, annuirono distrattamente e tornarono a dedicarsi alla loro cena (allora avrei dovuto trarre da quel fatto conclusioni più generali che invece ho impiegato anni a trarre, ma lasciamo stare).

Cominciai a farmi crescere i capelli, dunque, facendo però sempre bene attenzione a non scoprire le orecchie: niente code, niente trecce, niente di niente. Solo i capelli con la riga in mezzo, portati lunghi e mossi come una nostalgica degli anni '70, come una Janis Joplin de noantri ("come la Madonna del petrolio", diceva mia madre).

Ci son voluti anni perché io mi liberassi, in un pomeriggio, di un complesso del quale, ora ne sono perfettamente consapevole, posso fare a meno di soffrire.
Io ho tante cose che non vanno, ma non ho le orecchie a sventola, non le ho mai avute. Però sono stata per tantissimi anni convinta di averle, perché così mi era stato detto e io ci ho creduto, perché, come diceva l'eroina di non ricordo più quale film, è più facile credere alle cattiverie che ai complimenti (o qualcosa del genere).

Così, ci sono voluti anni perché io mi liberassi - e solo parzialmente - anche della convinzione di non essere capace di fare nulla con le mani. In una famiglia composta di persone assai dotate da questo punto di vista, io ero l'eccezione, quella che sapeva a malapena allacciarsi le scarpe.

Poi, quando ero all'università, quasi di nascosto e vergognandomene, con aria da cospiratrice, un pomeriggio chiesi a mia madre di insegnarmi a lavorare ai ferri.
Fu un incubo.
Sotto lo sguardo allibito della mia genitrice, in qualche ora riuscii a creare qualcosa che non aveva una forma conosciuta né in natura né in geometria, su cui proliferava una fitta vegetazione di fili aggrovigliati, crateri, gnocchi, maglie perse per strada o magicamente moltiplicatesi per partenogenesi.

Il mio fidanzato di allora credette di incoraggiarmi chiedendomi di confezionare per lui una sciarpa a righe.
Ci misi dei mesi per produrne una, orrida e sbilenca (e, essendo fatta di scarti e rimasugli, dai colori raccapriccianti). Lui ne fu commosso fino alla demenza, che Dio lo benedica, ma sua madre - che per altro mi adorava, ricambiata - gli impedì tassativamente di indossarla, cosa per la quale neanche allora fui capace di biasimarla (lui la indossò un paio di volte, di nascosto, per la cronaca. Poi fui io stessa a pregarlo di bruciarla).

Ho impiegato quasi un decennio per cominciare a produrre qualcosa, non dico di bello, ma di riconoscibile ("questo è indubbiamente e incontrovertibilmente un maglione"), e un altro decennio per creare con le mie mani qualcosa che non mi vergognassi di regalare.
Benché spesso frustrata e insoddisfatta dei risultati e innervosita fino alle lacrime da schemi che non capivo, maglie che sparivano, punti che non venivano etc etc., non ho desistito. Novella Penelope, ho fatto, sfatto e rifatto infinite volte maglioni, sciarpe, scialli e coperte, tutto senza la supervisione materna. Quando si vive a migliaia di chilometri di distanza, non è facile farsi spiegare per telefono come si chiudono le maglie o come si fa una cucitura invisibile. E si ricorre ai libri (che Dio benedica anche loro).

Sono contenta di averlo fatto. Molto contenta. Contenta di aver perseverato, di non essermi arresa, di aver continuato a coltivare, con pazienza, con dedizione, in silenzio, quella manualità di cui sentivo una grande nostalgia e un grande bisogno. Di aver liberato una parte di me repressa e per anni negletta, finendo, così, davvero per risvegliarla.

Negli anni mi sono infatti dedicata anche al ricamo, alla pittura sul vetro, alle perline, e infine al cucito.

Ovviamente, siccome tendenzialmente sono una maniaca, quando mi infervoro per qualche nuova tecnica devo possedere:

a. tutti i libri che sono stati scritti sull'argomento
b. tutto il materiale necessario (soprattutto quello accessorio e facoltativo)
c. un luogo specifico e dedicato per mettere tutta questa roba - al momento la stanza degli ospiti, dove ora campeggia trionfalmente la famosa vetrina dell'Ikea, oggetto del mio desiderio su cui, at last!, ho potuto (rocambolescamente) mettere sopra le mani.

Nelle foto che vedete sparse nel post ci sono alcune delle cose che ho fatto di recente.
Vado particolarmente fiera del microscopico scaldacuore (un modello che faccio da anni per tutte le mie amiche che aspettano un bambino, una specie di maglione portafortuna) e soprattutto delle prime, primissime cose che ho cucito.

La macchina per cucire, modello dismesso dalla mamma, mi intimidisce.
Non so perché ma ho il terrore di romperla, e ogni volta che mi accingo ad usarla, per un lungo istante, mi passano davanti agli occhi scene raccapriccianti e apocalittiche di aghi spezzati, spolette aggrovigliate, clangori sinistri provenienti dal motore, tecnici basiti che scuotono la testa e mi dicono "In tanti anni che faccio questo mestiere non ho mai visto niente del genere".

Poi, la paura che questa catastrofe accada (e proprio a me, e proprio in questo momento) lascia il posto a un po' di ragionevolezza. Potrebbe accadere, certo. Ma potrebbe anche non accadere. E allora, nell'incertezza, perché intanto non provare?


Enjoy!

mercoledì 10 febbraio 2010

Diario di scuola di Daniel Pennac

Era tanto che non leggevo Pennac.

Sono stata (come moltissimi) fulminata, anni fa, dal suo Malaussène (soprattutto dai primi tre romanzi), ho amato il suo saggio sulla lettura, poi ho smesso di comprare i suoi libri, che mi hanno 'trovata' lo stesso, grazie ad amici generosi che me li hanno prestati.
Ma non ho più rivissuto la magia degli inizi.

Pennac è uno scrittore generoso, un uomo simpatico che emana calore, intelligenza, tolleranza, sensibilità. Questo penso nessuno possa metterlo in dubbio, neanche il più prevenuto dei lettori.

La sua voce, anche in questo suo Diario di scuola, è calda, venata di umorismo, addolcita di comprensione, a volte vibrante di passione indignata per quella scuola in cui ha lavorato e vissuto per venticinque anni. Si sente che ha messo l'anima nel suo lavoro, che ha saputo davvero conoscere e, in qualche caso, cambiare in meglio la vita dei (fortunati) ragazzi che lo hanno avuto come professore.

Però questo libro non mi ha convinta.
Le prime pagine con il ritratto affettuoso e ironico della madre che non riesce a capacitarsi di come il suo figlio più piccolo, ex somaro, poi professore e ora scrittore tra i più osannati e amati in patria e all'estero, sia ormai un uomo di successo, e il cui futuro continua ciò nonostante ad angustiarla, sono deliziose.

Poi, non so che cosa sia successo. Mi sono disamorata. La voce di Pennac, pur simpatica e piacevole, mi ha quasi fatto addormentare.

Dunque, son certa di rendere omaggio a questo autore che un tempo ho tanto amato, abbandonando questo suo libro al suo destino, obbedendo così a due dei suoi diritti imprescindibili del lettore:

II. Il diritto di saltare le pagine
III. Il diritto di non finire un libro.



Daniel Pennac, Diario di scuola, Feltrinelli 2008, traduzione di Yasmina Melaouah.


giovedì 4 febbraio 2010

Come mi batte forte il tuo cuore di Benedetta Tobagi

Benedetta Tobagi ha 33 anni, l'età che aveva il padre, Walter, quando fu assassinato a Milano nel 1980 da un gruppuscolo di terroristi rossi. Lei allora, di anni ne aveva 3.
Essendo stato Tobagi freddato sotto casa, colpito alle spalle, la sua bambina fece in tempo a scendere con la madre e a vederne il corpo senza vita, riverso tra il marciapiede e la strada, immerso in una pozzanghera, la nuca sporca di sangue, prima che un cameriere di una trattoria lì vicino lo coprisse pietosamente con una tovaglia bianca.

Per anni la bambina Benedetta penserà di essere stata la crudele responsabile di quella morte, perché pur avendo disperatamente chiesto a tutti i presenti di chiamare un dottore, fu ignorata da tutti, che in parte erano sotto choc e in parte pensavano che, ignorandola, avrebbero potuto distrarla da quel fatto traumatico e crudele.

È difficile scrivere qualcosa su un libro come questo senza scadere immediatamente nel mélo, nel retorico e nel sentimentale. Ancora più difficile sarà stato scriverlo, facendone al tempo stesso una ricognizione puntuale e informata del variegato - per non dire caotico - mondo del terrorismo italiano, una biografia professionale e privata del giornalista Tobagi e uno struggente atto d'amore di una figlia per un padre perso troppo presto, nei confronti del quale, come è scritto nel bellissimo epilogo, Benedetta sente di avere un doppio debito di riconoscenza: perché questo padre l'ha generata e le ha dato poi la forza di nascere una seconda volta, quando il suo esempio e la sua lezione l'hanno spinta, pur in preda al disagio e alla disperazione a cospetto di un vuoto troppo grande, a voler capire, a voler conoscere, a cercare di dare un significato, o quanto meno una ragione, a una perdita tanto crudele. A scegliere, insomma, la vita.

La sofferenza, lo straniamento, il vuoto atroce che una morte così tragica e insensata ha provocato sono raccontati con sincerità e pudore, con accenti accorati ma sobri, in un gioco sapiente e fragilissimo di equilibrismo tra sentimenti e indignazione, pietà e struggimento, analisi storica e ricerca del padre, nel tentativo di restituire alla vita quell'uomo che, circondato dalla retorica e dall'epica dell'eroismo, per troppi anni è apparso alla figlia come Ettore appare al piccolo Astianatte prima di andare in battaglia, nascosto sotto l'elmo che ne fa un essere estraneo e spaventoso e fa scoppiare in lacrime il bambino che non lo riconosce. Spogliando il padre dell'aura perfetta del martire, Benedetta ha finalmente ritrovato l'uomo che visse per il suo lavoro e per la sua famiglia e temeva di morire prima di esser stato capace di "scrivere una riflessione che spiegasse agli altri, penso a Luca e a Benedetta, il senso di questa mia vita così affannosa".

Quella riflessione Tobagi non fece in tempo a scriverla, ma le parole che avrebbe probabilmente scelto per essa sono tutte lì, nei suoi articoli lucidi e coraggiosi, nei suoi quaderni privati dove annotava tutto (conversazioni, appunti, meditazioni, spunti) e soprattutto nel modo in cui ha saputo vivere la sua vita, i suoi rapporti di amicizia e d'amore, e trasmettere ai figli un'eredità fatta di fiducia nella capacità degli uomini di "cercare soluzioni realistiche e rispettose, per ricavare il meglio dalla realtà, per trasformare e costruire piuttosto che distruggere".

Bellissima quella pagina in cui Benedetta racconta del ritrovamento di un vecchio nastro, registrato in casa in occasione del penultimo compleanno del padre, in cui lo si sente invitare amorevolmente la piccola 'Bebina', intimidita e messa in ombra dal più esuberante e ciarliero fratello maggiore, a dire qualcosa nel registratore.

"Mio padre tiene a bada Luca e ripetutamente, con pazienza e immensa tenerezza, mi invita a parlare, finché non mi faccio coraggio e affronto il microfono. (...) Ogni tanto penso a quella voce dolce e mi ci avvolgo dentro. Non riesco ad ascoltarla spesso, è un'emozione troppo forte, uguale ogni volta. Un minuscolo caleidoscopio di relazioni. Un minuto e cinquantaquattro secondi che mi hanno fatto capire tante cose.
Lo immagino così, un buon padre: una persona che ti sostiene, ti protegge e ti sollecita, amorevole, affinché trovi il coraggio di tirare fuori la tua voce."

Se questo è un buon padre (ed io tendo a pensare che lo sia), in un modo misterioso e sublime Walter Tobagi lo è stato.

Benedetta Tobagi, Come mi batte forte il tuo cuore. Storia di mio padre, Einaudi 2009.