venerdì 27 agosto 2010

Mia sorella è una foca monaca di Christian Frascella

Romanzo di formazione e di educazione sentimentale di un diciassettenne della provincia torinese.

Una sorella con ansie religiose ma anche alle prese con il primo fidanzato imbranato; un padre ex ubriacone nullafacente che cerca di redimersi e di rimettersi in carreggiata; una madre che un giorno se l'è svignata con un benzinaio più giovane di lei e chi s'è visto s'è visto; una futura matrigna donna in carriera che sembra Frau Blücher e invece poi non è neanche troppo cattiva; lo scontro con il mondo della fabbrica e la difficoltà di conciliare la voglia di rivalsa e di affermazione di sé con la solidarietà nei confronti dei propri compagni di lavoro; il primo amore vissuto con il desiderio di (finalmente) abbandonarsi e insieme il terrore di farlo, tra l'incanto della scoperta dell'altro e l'istinto che spinge ad attaccare per proteggersi dai sentimenti.
In questo romanzo c'è tutto.

Il protagonista, di cui non si sa il nome (forse perché una maschera, universale), è un giovane Holden che oscilla tra l'infanzia e il mondo degli adulti e, alla ricerca spasmodica di conferme, alterna slanci di generoso candore ad aggressioni scomposte e spesso dall'esito ridicolo e patetico.

Io l'ho trovato esilarante.
Una scrittura fresca, efficace, dall'umorismo a tratti perfido, che non scivola sulla buccia di banana del buonismo ma all'improvviso si apre in inaspettate, irresistibili tenerezze.


Christian Frascella, Mia sorella è una foca monaca, Fazi Editore, 2009.

sabato 21 agosto 2010

Della gioventù, dei compromessi e di una torta alla cannella


In una relazione, in qualunque relazione, si sa, prima o poi si giunge a fare qualche compromesso.

La sola parola fa scorrere brividi di raccapriccio sulla schiena di molte persone, oppure ne provoca un istantaneo 'ingobbimento' causato da immediato e irrefrenabile avvilimento.

Soprattutto quando si è giovani, e dunque spesso estremisti - non tanto per convinzione, quanto per inesperienza e per ignoranza: non si sa che esistono quasi sempre infiniti modi di fare le cose, se solo ci si prenda la briga di andarli a cercare - anche solo l'idea di doversi piegare a qualche compromesso fa venire le bolle, ed è in fondo giusto che sia così: in un momento in cui si cerca spasmodicamente di capire chi si è non è pensabile abdicare, anche per un solo istante, a quella che si crede essere la propria unicità. Se si dice 'bianco', che bianco sia, sempre, senza se e senza ma; lo stesso dicasi per il 'nero'. Poi magari, più tardi, ci si pente di tanta tetragonicità, ma si ritiene sia troppo tardi per tornare indietro (altro errore: si può inserire la retromarcia molto più spesso di quanto si voglia credere, ammesso che si sia disposti, ovviamente, a fare ammenda, il che, alla maggior parte delle persone, secca moltissimo, tanto da indurle a rinunciare a priori) e si rimane lì, a difendere ostinatamente posizioni nelle quali non si crede nemmeno più.
Ah, la gioventù! Quante energie sprecate spesso in direzioni inutili!

"Oh be', ma dove vuole andare a parare?" vi starete chiedendo - e a ben donde.

Voglio andare a parare in direzione della cucina, ovvio, per parlare di uno dei tanti compromessi di cui la mia vita con la Spia è costellata.

Mi sembra sia evidente, a questo punto, che io e il mio accompagnatore siamo due persone mooooolto diverse.
Per fortuna su alcune cose davvero fondamentali la pensiamo alla stessa maniera, altrimenti davvero non si vedrebbe - a volte - la ragione del nostro incaponirci a volerci bene.

In cucina è assai facile ci si trovi in disaccordo: i nostri gusti sono spesso agli antipodi e anche il nostro approccio alle novità.
È strano, perché io sono senz'altro un'abitudinaria, una fanatica dei riti casalinghi e domestici, eppure mi piace moltissimo sperimentare nuove ricette.

La Spia, che invece è uno spirito piuttosto avventuroso in generale (soprattutto quando si trova con il sedere su qualche mezzo di locomozione e con una cartina in mano), in cucina dà prova di un certo qual tradizionalismo.

A me piace soprattutto provare nuovi dolci (e mi pare che la cosa sia abbondantemente evidente), ma se fosse per la Spia potrei limitarmi a fare solo crostate.

Così, abbiamo deciso, come in molti altri campi, di fare un piccolo compromesso: una volta si fa una crostata, una volta un dolce nuovo, con gli strappi alla regola del caso. Dal che si deduce che io e la Spia non siamo di certo due giovanottoni. Voglio dire, per riallacciarmi alla riflessione iniziale sulla gioventù inflessibile, che anche accettare le deviazioni dall'accordo che si è più o meno tacitamente stipulato è, secondo me, segno di quel grado di tolleranza - più o meno bonaria, più o meno divertita o rassegnata - che, ai miei occhi, dovrebbe connotare ogni maturità che si rispetti (piccola postilla: qui ovviamente si parla di torte, crostate, roba seria ma non grave: su alcune questioni, altro che tolleranza! come dice la cara Grazia. Ed io sono perfettamente d'accordo con lei).

Dunque, questa settimana toccava a me decidere quale dolce fare.
Ne volevo uno leggero e non troppo complicato e dopo la mia solita sosta davanti alla libreria rossa, ecco quello che ho trovato.


Cinnamon teacake da Sweet Old-Fashioned Favourites (della serie Australian Women's Weekly)

per una teglia di 20 cm. di diametro

60 gr. di burro, a temperatura ambiente + 10 gr., fuso
1 cucchiaino di estratto di vaniglia
120 gr. di zucchero + 1 cucchiaio
1 uovo
135 gr di farina autolievitante
80 ml di latte
1 cucchiaino di cannella in polvere

Preriscaldate il forno a 180°.

Imburrate e inzuccherate la teglia e foderatene il fondo di carta forno.

Sbattete con le fruste il burro, l'estratto di vaniglia e l'uovo fino a quando il composto sia leggero e spumoso.

Incorporate la farina setacciata, aggiungete il latte e mescolate.

Versate nella tortiera e cuocete per circa 30'.

Togliete la torta dal forno, spennellatene la superficie con i 10 gr. di burro sciolto e spolverateci sopra il cucchiaino di cannella mescolato al cucchiaio extra di zucchero.

Tiepida è davvero buona, ma anche il giorno dopo (checché ne dicano le signore dell'Australian Women's Weekly, che consigliano di consumarla il giorno stesso in cui si prepara) è ottima e mi sembra si conservi benissimo: non si secca, non diventa gnucca e fa equamente felici le Papere e le Spie.

Enjoy!

sabato 14 agosto 2010

Ballata per la figlia del macellaio di Peter Manseau

Finito un romanzo, mi trovo sempre più spesso a pensare che non so bene che cosa pensarne.

Da che cosa dipenda questa mia incertezza è difficile dirlo, ma mi accade sempre più spesso.
E, lo confesso, lo considero un buon segno. Perché uno dei miei problemi è sempre stata una certa furia nel crearmi subito un'opinione precisa, mentre man mano che invecchio mi sembra sia meglio lasciare sedimentare le esperienze, le conversazioni, i pensieri, gli incontri, lasciar maturare la vita dentro di me prima di dire "È così/Non è così (forse)".

Ma per tornare al romanzo (che tra i suoi punti di forza ha indubbiamente il titolo).

Scrivevo a un amico aNobiiano che mi chiedeva che cosa ne pensassi che ogni tanto, durante la sua lettura, ho avuto l'impressione di leggere un gran bel romanzo, specialmente nella prima parte, quella ambientata nella Moldavia degli albori del secolo scorso e poi ad Odessa.
Ma anche e soprattutto perché, in questa prima parte, ci si trova di fronte a un grande affresco familiare e io sono da sempre attratta dalle storie di famiglia.

Dopo alcuni anni a Odessa - dove il protagonista Itsik Malpesh arriva appena adolescente, dopo un lungo e periglioso viaggio, per sfuggire alle conseguenze di un guaio combinato nella natìa Kishinev - la scena si sposta in America. L'approdo nella terra dell'oro, rocambolesco e letterario quant'altri mai, ovviamente da clandestino, dentro un baule che contiene le matrici con incise le lettere dell'alfabeto yiddish che il suo mentore/datore di lavoro/padre vicario Minkovsky spedisce a New York al suo vecchio amico Knobloch perché possano essere utilizzate per stampare un giornale in lingua yiddish, segna una tappa fondamentale nella lunga iniziazione di Itsik.

La sua dura vita da emigrante conoscerà una rapinosa svolta quando dal passato e da una terra lontana e sognata si materializzerà davanti ai suoi occhi, nella sera del suo debutto ufficiale come poeta, quella Sasha la cui forza e il cui coraggio Itsik crede gli abbiano salvato la vita proprio nel momento in cui egli vi si affacciava: nel giorno della sua nascita, durante un violentissimo pogrom, il pugno alzato in segno di minaccia della figlia del macellaio, che aveva allora solo quattro anni, riuscì a placare la sete di violenza e distruzione dei cristiani che avevano fatto irruzione nella stanza in cui la madre di Itsik lo stava faticosamente dando alla luce.

Da quel momento in poi, Sasha Bimko è per Itsik Malpesh la vita stessa: una potente e fiera dea protettrice, una musa elusiva, sfuggente, conturbante che dell'esistenza di Itsik è origine e fine, scopo e significato, estasi e tormento.

Eppure, nonostante immagini bellissime, pagine commoventi, alcuni personaggi ben tratteggiati e convincenti, questo romanzo non mi ha del tutto persuasa. Qualcosa nelle sue pagine è rimasto inerte, materia priva di risonanza. Forse su di me non ha presa il mondo, pur fascinoso e ricchissimo, della cultura yiddish: questo romanzo è prima di tutto un omaggio a quell'universo e alla sua tarvagliatissima storia. Forse la visione della vita che gli è sottesa non riesce a parlarmi. Sicuramente il finale un po' troppo 'americano' mi ha lasciata indifferente, per non dire perplessa.

Mi rimarrà, però, a lungo il discorso che Sasha fa a Itsik nel momento in cui la loro vicenda giunge ad un punto nevralgico e drammatico, e che riassume in modo magistrale la semplice e bruta verità che vede il mondo diviso in due categorie di persone: quelle che dalle bordate della vita traggono forza per creare (non solo arte, ma altra vita, in generale) e quelle che invece quella forza da cui sono stati brutalmente investiti la impiegano per distruggere.

Perché vogliono esorcizzare l'impotenza che ha segnato in modo infausto il loro esordio nel mondo o perché il bagno nel quale si è immersi nei primi anni della propria vita è un bagno tenace, che penetra nei pori della pelle e lascia segni, codici di comportamento e chiavi di interpretazione della realtà che si fa una fatica bestia ad abbandonare, anche qualora li si scopra manchevoli, difettosi o addirittura nocivi, per sé e per gli altri. Soprattutto quando in quel bagno di violenza e distruzione si sia immersi insieme a tutto il proprio popolo, da millenni, portandosi sulle spalle il peso di una storia complessa, tragica, apparentemente senza remissione.

Di fronte alla violenza della vita bisogna scegliere da che parte stare, come rispondere, ed essere pronti a sopportare il peso e le conseguenze della propria scelta, qualunque essa sia.

Sasha decide di spogliarsi di quell'eredità dolorosa del suo passato, sceglie di non fare più da staffetta, di spezzare quella catena di violenza di cui lei stessa è stata troppe volte un anello, ma per farlo condanna se stessa e l'uomo che ama ad un'esistenza che, pur nella sua ricchezza e nella sua generosa apertura agli altri, rimane un'esistenza a metà, fondata sulla rinuncia all'amore della sua vita.

Itsik, forse meno lucido e meno consapevole di lei, non ci riesce, e da quell'eredità di sofferenza e violenza si fa travolgere in un'unica, fatale circostanza, facendosi poi trascinare, giorno dopo giorno, da anni di grigia e quieta disperazione.

La storia, se così fosse stato, sarebbe stata tragica e assai lontana dalla mia sensibilità, ma coerente e rigorosa.
Il finale, invece, in cui tutti i fili si riannodano, gli opposti si avvicinano e l'impossibile diventa realtà, ha un'aria consolatoria e posticcia che rovina non tutto ma molto.

Ancora una volta, peccato.



Peter Manseau, Ballata per la figlia del macellaio, Fazi Editore 2009, traduzione di Giuliano Bottali e Simonetta Levantini.

lunedì 9 agosto 2010

Di amici in visita e di pesche al caramello


Uno dei vantaggi di vivere in una cosiddetta 'città d'arte' è che spesso gli amici sparsi per mezzo mondo ti vengono a trovare.

Nella scelta della nuova casa ha giocato molto anche la presenza di ben due stanze per gli ospiti; in realtà una sarebbe lo studio della Spia, che però ha graziosamente accondisceso a metterci un divano letto, nel caso in cui ci fosse bisogno di offrire un giaciglio a una seconda coppia di amici visitanti (o ai loro pargoli).

Proprio lo scorso fine settimana, la camera degli ospiti, o chambre d'amis, come si dice in francese con un'espressione che trovo molto molto più bella, è stata ufficialmente inaugurata da un nostro carissimo amico milanese-tedesco in tournée estiva per l'Italia con la sua fidanzata.

Non dirò delle bellissime ore trascorse in loro compagnia, delle appassionanti chiacchierate (soprattutto la mattina appena svegli, incredibile a dirsi), della musica ascoltata insieme e delle passeggiate per Firenze e sulle colline, e non mi dilungherò nemmeno sui bei momenti passati in cucina, a preparare pranzi e cene e colazioni.

Dirò soltanto che per me ci sono poche attività più rilassanti, appaganti e piacevoli che preparare un pasto aiutata da amici. Mi piace anche solo essere intrattenuta dalle loro chiacchiere, mentre taglio, peso, impasto, cuocio, inforno etc etc e loro, appollaiati sugli sgabelli della cucina, e magari spiluccando qualcosa o leccando ciotole e spatole, mi contan su quello che vogliono.

Che felicità! Che beatitudine!

Tra i desserts più apprezzati in questo weekend, le pesche al caramello.

Si fanno in un attimo, si preparano un'oretta prima di consumarle e si mangiano dopo una cena leggera.

Meraviglia!


(per Claudio e Betta, con grandissimo affetto)


Caramel Poached Peaches da Rachel's Favourite Food for Friends di Rachel Allen

per 4-6 persone

200 gr. di zucchero
100 ml di acqua fredda
200 ml di acqua calda
la buccia di mezzo limone, a strisce
4 pesche, tagliate a metà e senza nocciolo
il succo di mezzo limone

In una pentola che possa ospitare agevolmente le pesche mettete i 100 ml di acqua fredda e lo zucchero e lasciatelo sciogliere dolcemente.

Alzate il fuoco e fate bollire fino a quando lo sciroppo non cominci a scurirsi: per quanto grande sia la tentazione di farlo, non usate mestoli, cucchiai o altri ammennicoli per mescolare e sfrucugliare; limitatevi a inclinare la pentola di qua e di là.

Ora, se siete come me, cioè pavidi e pasticcioni, aspettate 3-4 minuti. Non avrete un caramello, ma uno sciroppo, cioè un liquido molto più lento e fluido.

Se invece avete tempre più coraggiose e intrepide resistete fino a 6-8 minuti. Il caramello dovrebbe assumere il colore del whiskey e cominciare appena a fumare. Ci vuole un attimo perché prenda uno spiacevolissimo sapore di bruciato, dunque occhio.

A questo punto abbassate il fuoco - non troppo, deve essere medio - aggiungete l'acqua calda (attenzione, perché il caramello potrebbe sputazzare per qualche secondo), mescolate appena e deponete con grazia le pesche e la buccia di limone nella pentola.

Lasciate cuocere per circa 4-5 minuti: le pesche non devono spetasciarsi, ma ammorbidirsi, mantenendo però forma e consistenza.

Spegnete il fuoco, aggiungete il succo di limone e lasciate le pesche lì, a insaporirsi.

Servitele con panna fresca appena montata, con gelato alla crema, con crema di mascarpone, con yogurt condito con un po' di zucchero mascobado.
C'è da dire - e stento a credere di essere proprio io a dirlo - che sono divine anche così, nature.

Il giorno dopo, a colazione, con dello yogurt bianco o anche con una torta secca, sono la fine del mondo.

Enjoy!