domenica 28 novembre 2010

Sunday Music: Martha - Tom Waits

Oggi voglio farvi due regali.

Il primo è che sarò breve.
Il secondo è questa cosa di Tom Waits.

Sarò breve perché voglio lasciare spazio alle parole di questa canzone, che canta di un amore mai dimenticato.

Tema abusato quant'altri mai, ne convengo.

Ma guardate con quanta semplicità, con poche immagini, Waits riesce a creare una storia e dei personaggi veri, reali.

Non sentite anche voi di voler bene a Tom Frost che cerca dopo più di 40 anni la sua Martha?

Non provate un empito di struggente tenerezza nel pensare a questo signore al telefono, emozionato, sull'orlo delle lacrime per la commozione?

Leggete anche solo l'ultimo verso: quanta poesia in quelle poche parole: And I remember quiet evenings/Trembling close to you...

Non importa quante volte io abbia ascoltato queste parole e questa voce.
Ogni volta finisco per commuovermi.

Ma come si fa a rimanere insensibili quando si sente la voce di Tom Waits, arrochita da milioni di sigarette e sbronze e chissà quante ore di malinconie e solitudine?


****

Martha
- Tom Waits (da Closing Time, 1973)

Operator, number, please:
It's been so many years
Will she remember my old voice
While I fight the tears?
Hello, hello there, is this Martha?
This is old Tom Frost,
And I am calling long distance,
Don't worry 'bout the cost.
'Cause it's been forty years or more,
Now Martha please recall,
Meet me out for coffee,
Where we'll talk about it all.

And those were the days of roses,
Poetry and prose and Martha
All I had was you and all you had was me.
There was no tomorrows,
We'd packed away our sorrows
And we saved them for a rainy day.

And I feel so much older now,
And you're much older too,
How's your husband?
And how's the kids?
You know that I got married too?
Lucky that you found someone
To make you feel secure,
'Cause we were all so young and foolish,
Now we are mature.

And those were the days of roses,
Poetry and prose and Martha
All I had was you and all you had was me.
There was no tomorrows,
We'd packed away our sorrows
And we saved them for a rainy day.

And I was always so impulsive,
I guess that I still am,
And all that really mattered then
Was that I was a man.
I guess that our being together
Was never meant to be.
And Martha, Martha,
I love you can't you see?

And those were the days of roses,
Poetry and prose and Martha
All I had was you and all you had was me.
There was no tomorrows,
We'd packed away our sorrows
And we saved them for a rainy day.

And I remember quiet evenings
Trembling close to you...








venerdì 26 novembre 2010

Di Milano, di suocere e di zaletti


Inutile stare a ripeterlo, l'ho detto e ridetto fino alla nausea (vostra): a me Milano piace un sacco.
Ecco.

Alla faccia delle espressioni talvolta incredule, talvolta di commiserazione, che si dipingono sul volto dell'interlocutore di turno quando mi sente affermare con entusiasmo che io a Milano ci sto bene, benissimo.

Espressioni che diventano di puro sconcerto, quasi sospettose, quando, tra le ragioni di questo mio grande amore, annovero anche il fatto che lì vive la suocera.

La suocera di cui ho parlato tante volte, spesso ingestibile, a volte debordante di euforie inopportune ma capace anche di cupissime apatie, a tratti brusca e scorbutica ma più spesso impacciata e affettuosa, è per me la suocera quasi perfetta.

Soprattutto quando, come regalo di benvenuto, mi fa trovare un vassoio gigantesco di zaletti, i famosi biscotti di farina gialla e uvetta (d'obbligo citare la loro presenza ne La buona moglie, commedia di Goldoni del 1749) che - strano a dirsi - mi piacciono da matti (e lei lo sa).

Dico "strano a dirsi" perché non si tratta del genere di biscotti che abitualmente mi piacciono (intendo dire, ovviamente, quelli enormi con 3 etti di cioccolato e noci o nocciole o mandorle): sono secchi, semplici; eppure, potrei mangiarmene ogni volta un badalucco.

La ricetta, della suocera, non si sa da dove venga.
Me l'ha data al telefono leggendola da un ritaglio di una qualche rivista femminile degli anni '70 che comprava lei, incollato al suo quaderno delle ricette, un raccoglitore gonfio ai limiti del collasso, in cui, da diverse decine d'anni, segna - in modo anarchico e confuso e delirante, l'unico modo che conosca di fare le cose - le sue ricette.

Di solito in questo blog propongo sempre ricette tratte da libri, perché è soprattutto di libri che mi piace parlare e perché, molto banalmente, è soprattutto attraverso i libri che ho imparato a cucinare.

Ma stavolta faccio volentieri un'eccezione.
Questi biscotti sono troppo buoni.


Zaletti della suocera

(per circa 40 biscotti)

150 gr di farina gialla
50 gr di farina 0
50 gr di maizena
100 gr scarsi di zucchero
100 gr di burro
1 uovo intero
75 gr di uvetta (fatta rinvenire in un po' di acqua tiepida)
scorza di limone
1 cucchiaino di lievito
sale

Preriscaldate il forno a 170°.

Il procedimento che ho seguito è molto semplice: si prendono tutti gli ingredienti - tranne le uvette - e si schiaffano nella coppa del robot da cucina.
Si aspetta che si siano amalgamati e si estrae il composto, che sarà molto morbido e piuttosto appiccicoso.

A quel punto lo si trasferisce in una terrina, si aggiungono le uvette strizzate e si mescola ancora.

Avrete sicuramente bisogno di lavorare su una superficie abbondantemente infarinata e forse, come me, dovrete aggiungere anche altra farina all'impasto. Regolatevi voi. Non esagerate, ma fate in modo di riuscire a lavorarlo senza farvi venire una crisi isterica.

Comunque, lavorando sulla superficie abbondantemente infarinata di cui sopra, create dei rotolini di circa 5-6 cm di lunghezza e disponeteli su una teglia foderata con carta da forno a una certa distanza l'uno dall'altro (si espandono in cottura).

Nel mio forno ci hanno messo circa 10'.

Non sono bellissimi?

Enjoy!

mercoledì 24 novembre 2010

Le poesie del mercoledì: abbozzo - Antonia Pozzi

La poesia di oggi l'ho letta una sera, prima di andare a dormire, in questa settimana trascorsa a Milano.

Era molto tardi e fuori pioveva; la casa era immersa nel silenzio.

La lettura di questa poesia mi ha travolta.

Credo anche di averla sognata, quella notte.

Ho un ricordo vago di un buio denso e silenzioso, inquieto, vibrante di una disperata nostalgia, di qualche segreta, misteriosa, dolente attesa.

Sono stata a lungo indecisa se riportarne qui i versi.

Perché l'ultima è un'immagine potentissima e, credo, volutamente ambigua e disturbante nel suo richiamo ad un'intensa esperienza anche sessuale, oltre che sentimentale.

Ho trovato a lungo imbarazzante e fuori luogo condividere queste parole con altri, in uno spazio come questo, che vuole essere leggero e nasce conscio di tutti i suoi limiti: perché questi versi mi sembrano davvero troppo intensi, il segno marcato a fuoco di un desiderio e di uno strazio infiniti, di quelli che chiedono rispetto e silenzio, prima che comprensione.

Ma poi ho pensato che questa poesia esiste, è stata scritta, ed è sopravvissuta ad una storia triste di censure e distorsioni, arrivando infine fino a me, fino a voi.

L'autrice è Antonia Pozzi, una poetessa morta suicida a 26 anni, nel 1938.

Figlia diletta di due genitori colti e benestanti, visse nella Milano altoborghese e aristocratica e nella amatissima casa di montagna di famiglia, a Pasturo.

In prima liceo incontrò l'amore della sua vita, il suo professore di lettere.
L'amore che nacque tra i due fu fieramente osteggiato dai genitori di Antonia, che non ebbe la forza di difenderlo.
Piegandosi al volere soprattutto del padre, scegliendo di agire "non secondo il cuore, ma secondo il bene", Antonia, nel 1933, rinunciò per sempre alla sua "vita sognata".

Da allora ebbe altri amori, studiò, si laureò, scrisse poesie, si dedicò al volontariato, ebbe molte amiche; pur apparentemente conducendo la vita normalissima di qualunque giovane del suo tempo e del suo ambiente, Antonia continuò ad alimentare in sé una forte depressione che alla fine la spinse al suicidio.

La poesia che vi presento è un abbozzo.

Non riesco a immaginare che cosa le manchi, che cosa Antonia Pozzi volesse ancora esprimere attraverso queste parole. Quanta intensità e vita e sofferenza volesse veicolare ancora attraverso di esse.

È triste pensare che non lo saprò mai.


****


abbozzo

Io penso questa sera
alla leggende dell'Uccello di Fuoco -
al suo apparire nel folto -
al suo canto liberatore -

e tutti narrano
del giovane principe
e del sonno dei nemici
e della sua salvezza -

nessuno pensa all'albero oscuro
dove l'uccello apparì
la prima sera -
nessuno pensa alla vita dell'albero
dopo quella sera
senza più la vampa
delle ali magiche -

io sola so
come l'albero viva
di nostalgia e d'attesa -
e intorno veda
la gente che si aggira -
ma nessuna veste variopinta
vale per lui
lo splendore
dell'Uccello scomparso -

l'albero non sa più
per chi sia il suo fiorire -
e per ogni foglia che nasce
si torce nelle intime fibre -
l'albero non sa più
a chi offrire
il suo strazio primaverile -
e attende la notte -
la notte nera senza stelle senza fontane -
l'ora del buio silenzio -
quando dalle profonde radici
in un balenio estremo accecante
sorgerà correrà per il fusto
sino alla cima delle fronde
unico bene suo -
il ricordo infuocato dell'Uccello -

(marzo-agosto 1933)

domenica 14 novembre 2010

Sunday Music: The More You Ignore Me, The Closer I get - Morrissey

Quando mi sento dire: "Come vorrei tornare ai tempi della mia giovinezza!" rispondo quasi sempre con impeto: "Ma neanche pagata!".

Non so la vostra, ma la mia giovinezza, per dirla alla giovane Holden, è stata davvero una giovinezza schifa.

Funestata da timidezze feroci mascherate da snobismo, da accessi di malinconia malmostosa, da malumori incomprensibili (a me per prima), da scomposte euforie, da irrequietezze e inquietudini e soprattutto dalla paura: insomma, una mezza tragedia.

Quanto devo essere stata indigesta a quel tempo.
Complicata, circonvoluta, rigida, apodittica, desiderosa di attenzioni e insieme terrorizzata ogni volta che qualcuno me le concedeva: nascondevo le mie insicurezze dietro una lingua biforcuta, le mie malinconie dietro la lunaticità, la mia timidezza dietro silenzi supponenti.

Ogni tanto ripenso a quei poveri disgraziati che ebbero l'infelice idea di trovarmi attraente e di venirmelo a dire e a quelli, ancora più disgraziati, che fui io a trovare attraenti (e dovettero sviluppare doti medianiche per capirlo, perché ovviamente non ero assolutamente in grado di esprimere i miei sentimenti).
Si saranno ripresi dall'esperienza?
Me lo auguro.
Se ne incontrassi qualcuno per la strada, prima ancora di dirgli "Ciao, come va?" credo chiederei subito scusa.
Di qualunque cosa.

Ci son due cose, però, che salvo di quel periodo: le letture e la musica.

Tanta, diversa, ascoltata in modo caotico, appassionato, ossessivo, ignorantissimo, seguendo solo il mio piacere e il mio gusto, da sola o in compagnia, cantata a squarciagola o mugolata durante le mie frequenti e irrequiete passeggiate di allora.

Tra i miei grandi amori dell'epoca, accanto a Mozart e ai Cure, a Beethoven e Guccini, anche il grande Morrissey, prima come leader degli Smiths, poi come solista.

Quante volte avrò ascoltato questa canzone allora?
E non sono ancora stanca di ascoltarla.

Buona domenica!


P.S. (La prossima settimana sarò latitante, felicemente latitante: sarò a Milano. A presto!)








mercoledì 10 novembre 2010

Le poesie del mercoledì: Gli odori dei mestieri - Gianni Rodari

Anche Gianni Rodari - per quanto strano possa sembrare - è stato per me una scoperta dell'età adulta.

Per me, le scoperte che si fanno fuori tempo, così come le esperienze che si fanno in ritardo, hanno spesso in sé un che di malinconico: da una parte, forse, le si apprezza di più, con maggiore consapevolezza; dall'altra, le si vive, fatalmente, con minore abbandono.

Poi, siccome sono un po' una piaga, per quanto felice sia di aver finalmente fatto l'esperienza, non posso impedirmi di rimpiangere tutto il tempo che ho vissuto senza viverla.

La bambina che sono stata, spesso solitaria e silenziosa, affascinata dalle parole e dagli infiniti giochi che con esse si possono giocare, sarebbe stata ben felice di trascorrere ore ed ore con Gianni Rodari (guardatelo in questa foto di gioventù; non vi fanno tenerezza quel viso cosparso di efelidi e quegli occhi tristi, ma dall'espressione ferma e seria?).

Invece quella bambina ha dovuto aspettare un bel po' prima di incontrare questo genio, di cui ovviamente aveva sentito parlare, ma che nessuno le aveva fatto conoscere.

Ci ha pensato la Spia che, piuttosto sconcertato dal fatto che da piccola non avessi mai letto neanche una sua filastrocca, decise di mettersi d'impegno a colmare questa mia lacuna.

La sera, a letto, mi leggeva una sua favola, o una poesia.

Ora, voi non potete saperlo, ma se c'è una cosa bella, bellissima, che ha la Spia è la voce.
Bassa, piena, rassicurante, pacata, con una erre arrotata quel tanto che basta a darle una sfumatura d'interesse in più senza trasformarla in un insopportabile birignao snob.

Tra le mie filastrocche preferite, sicuramente questa.

(Per la Spia: perché non ricominci a leggermi Rodari?)



****

Gli odori dei mestieri

Io so gli odori dei mestieri:
di noce moscata sanno i droghieri,
sa d’olio la tuta dell’operaio,
di farina sa il fornaio,
sanno di terra i contadini,
di vernice gli imbianchini,
sul camice bianco del dottore
di medicine c’è un buon odore.
I fannulloni, strano però,
non sanno di nulla e puzzano un po’.


(da Filastrocche in cielo e terra, 1960)

****

Metti un finocchio a cena... Buon appetito, Mr. B!


Come preannunciato domenica, ecco dunque il mio piccolo contributo a quella che a me pare una giustissima causa.

Non ho voglia di rammentare o commentare ulteriormente il fatto che ha originato questa sacrosanta ondata di indignazione.

Vorrei però ricordare quel che ha detto Nichi Vendola nella sua videolettera di qualche giorno fa: quanta gratuita sofferenza possono aver provocato quelle poche parole irresponsabili dette con tanta incosciente leggerezza (e per giustificare un comportamento che chiunque abbia un minimo di onestà intellettuale non potrebbe non definire inaccettabile, quanto meno da parte di chi, ahinoi, riveste un ruolo istituzionale di primo piano in questo disgraziato paese)?

Fine della riflessione.

Per l'iniziativa di oggi, all'inizio avevo pensato ad una delle mie insalate preferite: finocchi crudi con arance ed olive nere. Ma di arance italiane neanche l'ombra in giro (giustamente) e allora ho optato per questo altro piatto che è stata una vera rivelazione.

Tratta dal bel Pausa pranzo del giovane e baldo Stefano Arturi - libro che vi invito caldamente a sfogliare la prossima volta che andate in libreria: è davvero generosamente ricco di idee - questa ricetta si chiama Finocchi bruschi al vapore.

Sia lontana da voi ogni immagine di piatto triste e avvilente, di quelli che non sfigurerebbero sul vassoio dove vengono serviti i pasti in ospedale: verdura cotta e priva di ogni sapore e appeal.

Sappiate che poche persone al mondo sono più prevenute di me nei confronti delle verdure cotte, dunque fidatevi.

Se vi piacciono i sapori forti e non avete paura di sfoggiare per una giornata un alito da sera (la battuta è della Spia, prendetevela con lui), la prossima volta che comprate dei finocchi provate a prepararli così.

(Tra l'altro: a me piaceva anche - e molto - che per l'iniziativa di oggi i finocchi fossero bruschi: ne avrebbero ben donde, col trattamento poco amichevole che gli è stato spesso e volentieri riservato fino ad oggi, mi pare).



Finocchi bruschi al vapore

per 2-4 persone


2 finocchi
3-4 filetti di acciughe

2 cucchiaini di capperi (ben dissalati)
mezzo spicchio d'aglio
scorza di limone grattugiata

un limone affettato molto sottilmente
(io non l'ho messo)
prezzemolo tritato

succo di limone
(o aceto, se preferite)
olio

pecorino

Cuocete i finocchi al vapore.

Io, che non amo le verdure troppo tenere, li ho fatti cuocere per circa 10'. Qualche minuto in più, però, non credo potrebbe far loro male. Regolatevi voi, insomma.

Quando saranno pronti, metteteli ad asciugare su un canovaccio pulito.

Riducete in poltiglia i filetti di acciughe, tritate i capperi e schiacciate l'aglio con lo spremiaglio.

Riunite questi ingredienti in una ciotolina.

Aggiungetevi la scorza di limone grattugiata, il prezzemolo tritato, del succo di limone (o l'aceto), un paio di cucchiai di olio d'oliva (o di più, se non temete - come me - di ingrassare).

Condite i finocchi ancora tiepidi con questa vinaigrette.

Se potete, aspettate una mezz'oretta prima di mangiarli. Il sapore ne guadagnerà.

Prima di servirli, aggiungete delle scaglie di pecorino.

Enjoy!


P.S. (Spero di non dover partecipare ad altre iniziative del genere. E non perché non mi piaccia essere coinvolta, ma perché significherebbe che abbiamo forse cominciato a vivere in un paese governato da gente un po' meno imbarazzante).

domenica 7 novembre 2010

Mercoledì 10 novembre: Metti un finocchio a cena... Buon appetito, Mr. B!

Di solito non sono particolarmente entusiasta di partecipare a iniziative 'collettive' in rete: rifuggo i vari contest organizzati ogni 2 per 3 su ogni possibile alimento, piatto, menu e mi espongo solo quando davvero ritengo sia doveroso farlo, come in questo caso.

Non saprei trovare migliori parole di quelle che ha usato Gaia de La gaia celiaca, che cito testualmente:

Siamo un gruppo di blogger che si son trovate a condividere un'idea comune, e cioè che non se ne può più delle espressioni insultanti nei confronti degli omosessuali del nostro Presidente del Consiglio, che manifesta una volta di più atteggiamenti sessisti ed omofobi.
Il culmine tre giorni fa, quando ha dichiarato “meglio essere appassionati di belle ragazze che gay.” E quante volte ha offeso profondamente anche tutto il genere femminile?

Ricordiamo che è la stessa
Carta dei Diritti fondamentali dellUnione Europea a condannare, all'articolo 21, “qualsiasi forma di discriminazione fondata sul sesso, la razza, il colore della pelle, l'origine etnica o sociale, le caratteristiche genetiche, la lingua, la religione o le convinzioni personali, le opinioni politiche o di qualsiasi altra natura, l'appartenenza ad una minoranza nazionale, il patrimonio, la nascita, gli handicap, l'età o le tendenze sessuali”.

Se l'Italia fosse un paese più civile, l'omofobia sarebbe un reato, come raccomanda l'Unione Europea nella
risoluzione del 18 gennaio 2006.

Ci è sembrato troppo.


Abbiamo deciso che era giunto il momento di fare qualcosa, di esprimere il nostro dissenso con i mezzi che abbiamo come food-blogger: la parola, l'ironia, mestoli e padelle.

Abbiamo preso spunto dalla manifestazione organizzata per oggi pomeriggio, sabato 6 novembre, da Arcigay Firenze, che ha per slogan “porta un finocchio per Silvio”. Spiegano gli organizzatori: “regaleremo i finocchi al Presidente Berlusconi che, con quest’ennesima dichiarazione pubblica, riteniamo abbia raggiunto i limiti della decenza e della civiltà”.


Speriamo che Arcigay non se ne abbia a male se ci ispiriamo a loro promuovendo l'iniziativa
Metti un finocchio a cena... - Buon appetito Mr. B.!

Chi è sconcertato quanto noi dovrebbe pubblicare mercoledì 10 novembre una ricetta a base di finocchi, esponendo il banner dell'iniziativa, spiegando nel post le ragioni della propria partecipazione e comunicandoci l'adesione fra i commenti a questo a post.
Valgono anche le ricette già pubblicate, non è un vero e proprio contest, è un'iniziativa di dissenso.

Tutti potranno comunicare la propria adesione con un commento a questo post e sull'analogo post che troverete sul blog di
Madama Bavareisa. Vi invitiamo ad esporre il banner dell'iniziativa

Metti un finocchio a cena

Codice da incorporare:



Risultato:
Metti un finocchio a cena
Sono invitati a partecipare anche i blogger non food, secondo le stesse modalità: non pubblicheranno una ricetta ma un intervento nel merito.

Mi raccomando, accorrete numerosi, sarà bello vedere moltissimi finocchi a cena nelle case dei food-blogger e non mercoledì 10 novembre, un'ironica, corale e rumorosa manifestazione di indignazione.



Chiunque volesse partecipare segnali la sua adesione a Gaia o Madama Bavareisa.

A mercoledì, dunque!

Sunday Music: Trio pour Piano, Violon et Violoncelle en la mineur - Maurice Ravel

La mia passione per il cinema francese risale al 1992, quando al cinema vidi Un coeur en hiver, di Claude Sautet.

Fu una folgorazione.

Scoprii un nuovo amore - e capii due o tre cose fondamentali sul mio fidanzato di allora che, mentre io vivevo un'esperienza che oserei definire trasformatrice e catartica, si addormentò seraficamente sulla poltrona (probabilmente sognando la sua moto).

Scoprii di amare quella particolare sensibilità, quello stile, quel mondo di storie e quel modo di raccontarle che solo i cineasti di scuola francese hanno.

Quel tocco delicato, a tratti ironico, a tratti elegiaco, ma raramente sentimentale, speziato da dialoghi spesso di grande raffinatezza e intelligenza (e un filo di snobismo, diciamolo), anche nel caso di belle commedie spensierate.

E poi scoprii di amare le attrici francesi, se non tutte bellissime (ma molte lo sono) tutte comunque interessanti, con quel fascino indefinibile, quell'eleganza tutta loro, quello stile riconoscibile ovunque che è tipico di quella categoria a parte nell'universo femminile che per me è la 'donna francese'.

Tutte le volte che sono andata a Parigi, oltre a bearmi dell'indubbia magnificenza della città, sono sempre rimasta affascinata dalle donne che camminano per le sue strade: ognuna con un suo personalissimo incedere, un suo singolare modo di indossare il foulard o il cappello, di far dondolare la borsa dal braccio, di sistemarsi un ciuffo di capelli dietro l'orecchio.
A me sembra che a Parigi non esistano donne banali.

Anche la musica, nei film francesi, è spesso assolutamente di mio gusto.

In Un coeur en hiver, essendo i protagonisti una violinista e un liutaio, essa è fondamentale, direi quasi un personaggio a tutti gli effetti: con la sua presenza segna e commenta lo sviluppo della storia, riflettendo quel complesso gioco di sentimenti che Daniel Auteuil, Emmanuelle Béart ed André Dussollier (quest'ultimo una mia grande passione) sono così bravi ad esprimere con la loro recitazione intensa e al tempo stesso misurata.

E poi, come non innamorarsi di questo Trio di Ravel?

Buona domenica!







mercoledì 3 novembre 2010

Le poesie del mercoledì: Il giorno ad urlapicchio - Fosco Maraini

Sono molto affezionata al libro da cui è tratta la poesia di oggi.

L'ho acquistato l'anno scorso, il giorno in cui, insieme alla Spia, andammo a saldare il conto della clinica dove per 3 giorni aveva agonizzato, prima di morire, il nostro amatissimo gatto.

Avevamo entrambi bisogno, tornando in autobus a casa, di concederci un momento di piacere condiviso, di fare qualcosa di leggero che ci consentisse una breve pausa dallo strazio in cui eravamo immersi da giorni.

Entrammo in libreria e ci rimanemmo un bel po', ognuno nei suoi settori preferiti.
Ne uscimmo con le tasche alleggerite di diverse decine di euro, ben contenti di averle spese (benché alla clinica ci avessero presentato un conto astronomico).

Tra i libri acquistati, La Gnòsi delle Fànfole, di Fosco Maraini.

L'immersione nell'intelligenza colta, stralunata e straripante che trapela da queste poesie 'metasemantiche', il contatto con la vitalità gioiosa dell'autore, con l'irriverente allegria cui fa da giusto contrappunto - talvolta - una raffinata, pudica malinconia, mi fecero un gran bene.

E continuano a farmene, ogni volta che mi faccio il regalo di rileggerle.

Questa poesia in particolare, letta in quel giorno smègio e lambidioso, mi aiutò ad esser certa che altri, carmidiosi e prodigieri, sarebbero presto seguiti.

E così è stato.


****

Il giorno ad urlapicchio

Ci son dei giorni smègi e lombidiosi
col cielo dagro e un frònzero gongruto
ci son meriggi gnàlidi e budriosi
che plògidan sul mondo infrangelluto,

ma oggi è un giorno a zìmpagi e zirlecchi
un giorno tutto gnacchi e timparlini,
le nuvole buzzìllano, i bernecchi
ludèrchiano coi fèrnagi tra i pini;

è un giorno per le vànvere, un festicchio
un giorno carmidioso e prodigiero,
è il giorno a cantilegi, ad urlapicchio
in cui m'hai detto "t'amo per davvero".


(da Gnòsi delle Fànfole, 1994)

lunedì 1 novembre 2010

Di madri e figlie, di regine e mestoli e di una ricotta al forno


La mia è, sotto molti punti di vista, una tipica mamma italiana: un'ottima cuoca che ha sempre veicolato attraverso il cibo preparato con le sue mani quelle attenzioni e quei sentimenti di accudimento, amore e protezione che altrimenti non avrebbero trovato altra espressione tangibile (la mia mamma è timida e ha ricevuto un'educazione virante al calvinista).

Come tante madri italiane un po' all'antica, anche la mia è convinta che una donna che non sappia cucinare o che decida di non fare figli non sia praticamente degna di essere considerata una donna a tutti gli effetti: di questi bizzarri esemplari che per lei sono donne mancate spiega ogni mancanza e pecca con l'apodittico commento: "Ma sai, non ama cucinare/non ha voluto fare figli".

Mia madre, pur professando ad alta e lamentosa voce la preoccupazione che noi tre figlie, che non sapevamo bollire un uovo e non mostravamo nessuna intenzione di voler imparare a bollirlo, non avremmo mai trovato un uomo decente disposto a sposarci, per tutta la nostra infanzia e adolescenza non ci ha mai concesso di entrare in cucina e soprattutto di aiutarla a cucinare (e dunque di imparare).

In quello che, evidentemente, ha sempre considerato il suo unico regno e ambito di eccellenza, nell'unico campo in cui non temeva il confronto con noi (più giovani, più intraprendenti, più istruite, più libere), non ci ha mai concesso alcuno spazio.
Tenendo ben stretto in mano il mestolo, come una regina il proprio scettro, ci ha tenute per anni in una condizione di pressoché assoluta ignoranza.

Uscita di casa, dunque, come ho più volte raccontato, non sapevo praticamente cucinare niente di commestibile e per i primi tempi la cosa non mi ha preoccupato.
Poi, quando inopinatamente la curiosità e la voglia di imparare hanno cominciato a farsi sentire, mi sono rivolta soprattutto ai libri e, in seconda battuta, alla mia mamma.

Gelosa custode della sua cucina, la mia mamma non lo è mai stata infatti delle sue ricette, ché anzi, anche all'estraneo conosciuto alla ASL o alla commessa del supermercato è sempre ben lieta di svelare il segreto delle sue leggendarie fettine di carne impanata, la ricetta dell'ottima torta moka, le astuzie che accompagnano la lunga e laboriosa preparazione della torta al formaggio.

Farsi dare una ricetta da lei è dunque quanto di più semplice ma anche, al tempo stesso, quanto di più complicato si possa immaginare: bisogna armarsi di pazienza e di un lungo foglio di carta, perché mia madre divaga, apre parentesi tonde quadre e graffe, salta un passaggio che poi recupera a metà ricetta, racconta di quella volta in cui la maionese impazzì, il gelato venne strabiliante, litigò con mio padre per l'arrosto, scambiò il sale con lo zucchero etc etc.

Insomma, se non potete fare a meno di chiederle una ricetta fatelo, ma tenete dei calmanti a portata di mano.

Quel che la mia mamma mi ha insegnato, però, è che chi cucina - che sia una donna o un uomo, aggiungo io - è una persona adulta che sa badare a se stessa e, alla bisogna, anche agli altri; un essere umano più completo di chi invece, magari a 50 anni suonati, dipende ancora da altri per la sua sopravvivenza fisica.
Chi sa metter su un piatto di spaghetti o di minestra e lo fa magari anche con abilità e gusto - aggiungo sempre io - è poi, nel suo piccolo, un benefattore dell'umanità.

E un'altra cosa, anche, la mia mamma mi ha insegnato: che per cucinare bisogna sempre avere in casa alcuni ingredienti di base, un kit essenziale senza il quale diventa davvero difficile prepararsi anche un pranzo frugale.

Questo kit non potrà prescindere da alcuni prodotti fondamentali, ma potrà leggermente variare, a seconda dei gusti e della storia di ciascuno.

Per me, per esempio, esso comprende sicuramente almeno una bottiglia di latte (una casa senza una bottiglia di latte nel frigo mi mette subito una grande tristezza: mi parla di intolleranze alimentari, di regimi dietetici, di rapporti tormentati col materno, di ricordi infantili penosi) e non meno di 250 gr di ricotta. Senza timore di apparire un'esagitata fanatica, io proporrei addirittura la beatificazione di chi ha inventato la ricotta: un formaggio magro, non è una meraviglia?

E se non vi va di mangiarvela così com'è perché non vi dice granché (o uomini e donne di poca immaginazione!), provate a cuocerla in forno.


Baked ricotta da Forever Summer di Nigella Lawson


per 2 persone (o 3 di modesti appetiti):


250 gr. di ricotta (a me piace di capra)
1 albume
timo fresco
scorza di mezzo limone
sale e pepe
olio


Preriscaldate il forno a 180°.

Lavorate la ricotta e riducetela in crema.

Con una frusta, sbattete l'albume: non dovete farne una meringa, dunque adagio: basta che non sia proprio liquido ma acquisti un po' di consistenza. Unitelo alla ricotta.

Aggiungete un po' di timo fresco e la scorza del limone.

Condite con sale e pepe.

Ungete appena con l'olio d'oliva una tortiera (io ne uso una di 20 cm di diametro), versateci dentro il composto di ricotta, livellate con un cucchiaio, aggiungete ancora un po' di timo, zigzagate con altro olio e fate cuocere per circa mezz'ora + qualche minuto di grill.

Non vi aspettate un soufflé: come si vede dalla foto, quel che vi ritroverete nel piatto sarà una mezza frittella.
Ma una frittella che vi darà grande soddisfazione, credetemi, facendovi sentire, al contempo, sani e morigerati.

Praticamente santi.

Enjoy!