domenica 30 gennaio 2011

Per liberarci di Berlusconi una ricetta bastarda

Vorrei cominciare questo post invitandovi a leggere quello che ha pubblicato Gaia.

È il post che avrei voluto scrivere io, se avessi avuto una ricetta bella come quella del suo ragù, una di quelle ricette che, come un cognome, identificano gli appartenenti ad una famiglia e si fanno simbolo di eredità, rituali, memorie e valori condivisi; un modo semplice, autentico, buono, sobrio, sano e affettuoso di stare al mondo e stare insieme.

Valori che mai come in questo momento è importante, vitale e necessario far vivere e vivere.

È il post che avrei voluto scrivere io anche perché esprime con sobrietà e passione la civile ma potente e incazzata indignazione che sempre più spesso sentono sempre più persone (e per fortuna! anche se sembra sempre troppo poco).

Ma per venire a me.

Io sapevo già, quando ho deciso di aderire a questa iniziativa (promossa da Madama Bavareisa e Kemikonti), che avrei parlato di queste pork schnitzels.

Prima di tutto perché sono fatte con carne di maiale (ma va?), poi perché avrei così colto l'occasione di far felice la Spia (che mi chiedeva di farle da circa 2 mesi), infine e soprattutto perché più che una ricetta a base di maiale volevo proporre una ricetta bastarda e questa lo è parecchio.

La panatura è infatti pasticciata quasi ai limiti dell'indecenza; la carne viene fritta nell'olio (di arachidi; che non mi senta mia madre) invece che nel burro; infine, se devo dirla tutta, a me - che digerisco anche i sampietrini - queste fettine di carne qualche volta rimangono sullo stomaco (per via dell'aglio crudo).

Vi chiederete allora per quale motivo scegliere proprio questa ricetta e proporvela.
Ve l'ho detto.
"Bastardo" è l'aggettivo chiave.

Chiariamo il concetto: io non ho niente contro la categoria dei 'bastardi', soprattutto se si tratta di cani, di generi letterari e musicali, o anche di pork schnitzels non proprio elegantissime e ortodosse ma che fanno la felicità di quelli che le mangiano, non solo della Spia (e pazienza se ogni tanto "s'aripropongono", come si dice a Roma).

Ma ho pensato che forse è il caso che tutti noi, che non ci siamo fatti mai infinocchiare e incantare da quel lestofante che ci sta sulle croste da tempo immemorabile ma ci ritroviamo ugualmente ostaggi della sua Italia volgare e impresentabile, cominciamo a non dargli più tregua, una volta per tutte.

Da veri bastardi.


****

Pork schnitzels bastarde (prese più o meno da Falling Cloudberries, di Tessa Kiros)

per 4 persone (o una Spia molto affamata e molto amante di pork schnitzels + 1 coniuge morigerato)


2 uova
1 spicchio d'aglio
rosmarino
1 cucchiaino di paprika in polvere

sale
pepe
8 fettine di arista disossata, spesse un po' meno di un dito

olio di arachidi


In una fondina sbattete le uova con una forchetta.
Aggiungete lo spicchio d'aglio (spremuto con l'apposito attrezzino), il rosmarino più o meno finemente tritato, la paprika, sale e pepe.

Passate le fettine di carne nelle uova, poi nel pane finemente grattugiato.
Se avete tempo, dopo averle tutte impanate e disposte su un piatto, mettetele in frigo(la mia mamma dice che così vengono meglio. Se non ne siete convinti, chiedete a mia madre).

Quando l'olio sarà pronto (deve essere caldissimo), ricordatevi di friggere una fettina alla volta, al massimo due; in questo modo non ci saranno sbalzi di temperatura eccessivi e la carne assorbirà meno olio, credo.

Non chiedetemi di spiegarvi meglio la faccenda perché sto ripetendo a pappagallo quello che mi ha spiegato la Spia, friggitore ufficiale di casa.

(Un'ultima cosa, per concludere in bellezza.
La vedete questa specie di polpetta qui?

Ecco, questa sì che è una vera delizia, secondo me: è una polpetta di pane.

Mia suocera le fa sempre, quando fa la carne impanata, utilizzando il pane grattato e l'uovo che avanzano, invece di gettarli via [orrore e abominio].

Provate a farne anche solo una: ci scommetto che diventerà un'abitudine).

Enjoy!

Sunday Music: São Vicente di longe - Cesária Évora (e di una cena tragicomica)

Ogni volta che ascolto questa canzone non posso fare a meno di ricordare una cena tragicomica cui fui invitata quando ancora vivevamo a Cipro.

La Spia era in vacanza in Italia ed io - che allora lavoravo alla locale università - ero invece rimasta a Nicosia.

Dei conoscenti, forse temendo mi annoiassi o mi sentissi sola e abbandonata (e quanto si sbagliavano! ma il pensiero fu gentile ed io gliene rendo ancora oggi grazie), una sera mi invitarono a casa loro.

Quella cena fu un mezzo disastro, a partire dall'inizio.

L'amico che doveva venirmi a prendere si presentò con mezz'ora di ritardo e guidò come un pazzo, spaventandomi a morte, per andare a prendere un'altra comune amica che doveva venire con noi e che avrebbe dovuto - in teoria - occuparsi di acquistare una bottiglia di vino da portare in omaggio.

L'amica, però, quando suonammo sotto casa sua, era ancora sotto la doccia. Quanto alla bottiglia di vino, se ne era bellamente dimenticata.

Non ve la faccio lunga.

Ci presentammo alla cena con un ritardo di più di un'ora e a mani vuote.
I padroni di casa, però, erano due persone di mondo e non fecero una piega: entrambi sorridenti, lei prese i nostri cappotti e li portò nella stanza del guardaroba, lui ci offrì da bere e ci presentò agli altri ospiti.

Durante quella cena accadde quasi di tutto.

Il padrone di casa aveva preparato delle lasagne, ma (forse perché era metà belga e metà marocchino) non gli erano venute granché bene; praticamente erano una sorta di minestra, di cui - per altro - rovesciò un buon quarto su uno degli invitati: mentre lo stava cortesemente servendo, infatti, iniziò con la mia amica smemorata un'accesa discussione che verteva su un determinato grattacielo newyorkese di cui non ricordo il nome e nella foga si distrasse, inondando di sbroda il signore in questione che, essendo inglese, non fece però una piega (ah! le buone maniere britanniche!).

Un altro quarto delle lasagne in brodo finì invece sulla mia mano sinistra e sui miei pantaloni, sempre perché la discussione sul grattacielo non cessava di infervorare il padrone di casa, nonostante sua moglie avesse più volte - e invano - cercato di richiamarlo all'ordine.

Fu mentre ero in bagno a cercare di pulirmi che si raggiunse il clou della serata: per cercare un libro fotografico che avrebbe inequivocabilmente dimostrato le sue ragioni, il nostro anfitrione si alzò da tavola e si recò davanti alla libreria, costituita da mensole piene di ninnoli, foto in cornice, una notevole raccolta di cd e preziosi manufatti (i due erano discreti collezionisti d'arte).

Il libro era su uno degli ultimi scaffali. Per prenderlo, invece di munirsi di una scala o di uno sgabello, il padrone di casa cominciò ad arrampicarsi sulla libreria.

Tornai in sala e ripresi il mio posto a tavola giusto in tempo per assistere alla scena.
Sapete già che cosa accadde.

Mentre la padrona di casa inceneriva il marito con occhi grifagni e noi ospiti sorbivamo le lasagne, ci fu un frastuono terrificante e un agghiacciante rumore di vetri rotti: le mensole più alte avevano ceduto ed erano rovinate al suolo insieme a tutto ciò che vi si trovava sopra e all'aspirante Uomo Ragno.

Il quale, sotto gli occhi di bragia della moglie, si rialzò brandendo con un sorriso trionfante il libro che cercava, calpestando nel frattempo custodie di cd e portafotografie coi vetri rotti dietro i quali, insieme a una donna che sembrava impossibile riconoscere in quella Gorgone furiosa e livida che sedeva a tavola, sorrideva estatico il giorno del suo matrimonio.

Dopo la sorpresa e l'imbarazzo generale, che durò un lungo istante di raggelato e sbigottito silenzio, ci fu una risata più o meno generale, liberatoria e anche un po' scomposta.

Nell'esuberanza del momento, anch'io offrii il mio personale contributo alla serata: rovesciai un intero bicchiere di vino rosso sulla preziosa tovaglia di Fiandra della bisnonna della padrona di casa. Temetti, per un istante, che quest'ultima potesse avere un malore.

Fu allora che il mio amico ritardatario, che si era alzato per soccorrere l'Uomo Ragno, non trovò di meglio che ripescare, nella montagna di oggetti precipitati dalla libreria, un cd che infilò nello stereo, dicendomi "Senti che meraviglia!".

Le note di São Vicente di longe cominciarono a spandersi nella sala.

Ci volle un po' di tempo, ma piano piano la serata cominciò gradualmente ad assomigliare un po' meno a una candid camera: bevemmo, mangiammo, chiacchierammo e alla fine persino la padrona di casa parve essere contagiata dal generale buonumore - anche perché fummo tutti buoni e attentissimi a non devastarle ulteriormente la casa.

Da allora, per quanto il suo testo non sia dei più ameni, associo questa canzone a sentimenti di spensierata e un po' folle allegria : se Cesária Évora canta di chi spera nell'aiuto dei santi e della Madonna per superare le miserie della vita, io, per conto mio, mi affido ad altre risorse: l'umorismo e la bellezza - o almeno ci provo.

Buona domenica!









mercoledì 26 gennaio 2011

Le poesie del mercoledì: Li Po e un omaggio a Virginia Woolf

La poesia di oggi è in realtà poco più che un pretesto per parlare di Virginia Woolf, della cui nascita ieri ricorreva l'anniversario (ecco il post che ho scritto per l'occasione due anni fa).

Si tratta della traduzione in inglese di un testo di Li Po, poeta cinese dell'VIII sec. d.C.

L'autore è Lloyd Logan Pearsall Smith, uno scrittore americano morto nel 1946.

Di lui non si ricorda molto, di questi tempi, a parte alcuni brillanti aforismi che potete trovare anche su Wikiquote (tra cui uno, che trovo molto bello anche se estremo, persino ai miei occhi: "La gente dice che ciò che conta è vivere, ma io preferisco leggere").

Probabilmente non avrei mai saputo alcunché di Smith se parecchi anni fa non mi fossi imbattuta in lui in un libro che amo molto, Virginia Woolf. Interviews and Recollections, una raccolta di testi di varia natura e origine in cui la ricordano persone che l'hanno conosciuta.
Ci sono frammenti di lettere e diari, articoli di giornali e necrologi; tra gli autori i suoi più cari amici, ma anche conoscenti che ebbero con lei frequentazioni più superficiali e sporadiche, proprio come Smith.

I due si incrociarono a qualche festa; a qualche cena si trovarono seduti vicini allo stesso tavolo e chiacchierarono amabilmente del più e del meno.
Si scrissero qualche volta: lei lo invitò per un tè; lui le propose di entrare a far parte di qualche comitato (e lei, ovviamente, rifiutò). Poi si persero di vista.
Per quanto i loro scambi fossero sempre stati all'insegna di una scherzosa gentilezza, non riuscirono mai a diventare amici.

Smith non ci dice esattamente che cosa lo impedì; ma si capisce che lei lo trattava con una certa quale cortese accondiscendenza e che lui rimase gelato dalla sua apparente mancanza di calore.

Ed eccoci tornati a Li Po.

Pensando a Virginia Woolf, a Smith veniva in mente proprio questa sua antica poesia.

C'è una regina, che in una gelida notte d'inverno si aggira per il suo palazzo; nel silenzio notturno appena increspato dal fruscio delle sue vesti preziose, ella scende i gradini di una scala di giada, giunge poi a una finestra, la apre e vi si affaccia per contemplare la luna.

Null'altro accade nella poesia, se non questo silenzioso e solitario rimirare l'astro notturno da parte di questa ignota e misteriosa regina.

Con pochi tratti, elegantissimi e stilizzati, Li Po ne descrive la ricca e luminosa veste di seta, il lungo velo argenteo che pare imperlato di rugiada come l'erba del parco che circonda il palazzo regale; il suo quieto, immobile rimirare la luna.

La scena potrebbe essere delle più serene e idilliache, ma non lo è; in modo impalpabile ma nettamente percepibile, essa è immersa in una mortale e profonda tristezza.

In questa poesia tutto è silenzio, gelo, immobilità, solitudine; anche la bellezza - della notte di luna; del palazzo con le sue scale di giada e il suo parco immerso nella luce dell'astro notturno; della regina, che immaginiamo di maestosi e purissimi lineamenti - non basta a infondere un alito di vita a un'immagine perfetta ma algida, raggelata: come i raggi della luna, anche i sogni della regina sono pallidi e freddi, privi di calore.

Eccola, la traduzione di Smith.
Ve la trascrivo, perché trovo che abbia una sua suggestiva musicalità.
(Mi scuso con chi non abbia familiarità con l'inglese, ma non la traduco in italiano, perché tradurre la traduzione di una poesia è davvero un po' troppo).


The stairs of jade with dew are wet,
On this long autumn night, and yet
With many a pause and footstep slow,
Up in the dark the Queen must go.
Her dress of glimmering silk, her veil,
Drenched with the drops of silver, trail.
Through the pavillion will she pass,
And open the window-blind and glass;
In will a pearly radiance pour
And shine in pools upon the floor.
There gazing on the moon, whose beams
Are pale and cold as her own dreams,
A long time leaning on her hands,
A long, long time the Empress stands.


Dunque questa era l'immagine che Smith aveva di Virginia Woolf: un essere di squisita bellezza e raffinatezza, un sogno prezioso e sofisticato di perfezione, ma freddo e glaciale, scostante e privo di vitalità, immerso in un'atmosfera di sottile e inquietante disperazione sommersa.

Non che questo non fosse vero, in un certo qual modo.

Tutti conoscono, almeno per sentito dire, la storia di Virginia Woolf: il suo genio, la sua follia, il suo suicidio nelle acque del fiume Ouse, novella Ofelia.

Ma chi la conobbe bene, chi la amò, ne amò soprattutto la natura gioiosa, allegra, piena di spirito e di malizia ed ebbe di lei un'immagine lontana mille miglia da quella di un'algida, seppure splendida, principessa.

Lascio allora la parola a Clive Bell, il cognato con cui Virginia, da giovane, flirtò a lungo e pericolosamente, cui la legarono sempre sentimenti contraddittori ma profondi, la prima persona che ne abbia capito il genio e l'abbia incoraggiata a scrivere (e questo spiega molto della reciproca fascinazione che c'era tra i due).

La Virginia che ho in mente io è soprattutto quella che vive in queste righe.


(...) ho l'ardire di affermare - ed è in effetti ardito l'affermarlo - che la sua era una natura felice.

So tutto di quelle sue crisi di cupa disperazione; aveva dei motivi per essere disperata, considerato che la minaccia della rovina incombeva
sempre su di lei ogni volta che indulgeva con eccessivo abbandono alla sua passione dominante - quella creativa.
Scrivere era la sua passione, la sua gioia e il suo veleno.
Pure, lo ripeto, la sua era una natura felice e lei fu felice.

Quanto alla sua gaiezza - se può avere importanza - posso dire che i miei figli, da quando furono abbastanza grandi da godere di qualcosa al di là delle loro piccole soddisfazioni animali, amavano più di ogni altra cosa una visita da parte di Virginia. La pregustavano come la più grande festa che si potesse immaginare: "Arriva Virginia! Quanto ci divertiremo!".

Così dicevano e sentivano quando erano bambini e così continuarono a dire e a sentire fino alla fine.
E la stessa cosa dicevamo tutti, e chiunque la conoscesse. "Quanto ci divertiremo!" - e quanto ci divertivamo.


Poteva essere divinamente spiritosa o selvaggiamente bizzarra; poteva riferire i pettegolezzi del villaggio o raccontare storie dei suoi amici di Londra; era sempre incredibilmente piacevole; si divertiva sempre, e noi con lei.

"Virginia viene per il tè": sapevamo che sarebbe stato eccitante, sapevamo che ci avrebbe fatto ridere, che ci avrebbe stupito e ci avrebbe fatto sentire che la temperatura della vita era diversi gradi più calda di quanto avessimo supposto...

Ricordo di aver trascorso nella campagna più sperduta un inverno di giorni bui e penosi, durante la prima guerra mondiale, insieme a Litton Strachey.

Un giorno, dopo pranzo, guardavamo la pioggia cadere e il buio avanzare precocemente.

A un certo punto egli disse, in quel suo modo personale e penetrante: "Amanti a parte, chi ti piacerebbe di più vedere comparire sul viale?".


Esitai un istante e lui fornì la risposta: "Virginia, naturalmente".




***

Virginia Woolf. Interviews and Recollections
, edited by J.H. Stape, University of Iowa Press 1995.

Recollections of Virginia Woolf By Her Contemporaries, edited by Joan Russell Noble, Cardinal 1972.

martedì 25 gennaio 2011

Liberiamoci del maiale!

Ecco.
Ci risiamo.
Io speravo non ce ne fosse ancora bisogno, e invece, ce n'è eccome!

Vengo di nuovo contattata da Madama Bavareisa per aderire ad un'altra iniziativa di protesta contro il "loro" (qualcuno l'avrà pur votata questa piaga che ci tormenta da tempo immemorabile) Presidente del Consiglio.

Lo scorso 10 novembre era per protestare contro l'omofobia del governo (vi ricordate? Metti un finocchio a cena).

Il prossimo 6 febbraio, invece, la protesta - sacrosanta anche questa - è contro "gli atteggiamenti insultanti nei confronti delle donne" sempre di quel tanghero lì: il maiale cui si fa accenno sarebbe lui.

(Posso dire, tra parentesi, che a me il maiale sta molto simpatico come animale e che mi dispiace accomunarlo a quel tanghero lì? Ché il maiale è un essere intelligentissimo, che si affeziona agli umani che lo nutrono - e poi se ne cibano. Mentre quel tipo lì... bah. Non trovo correlativi animali adatti. Purtroppo quel coso lì, benché per più di metà sia fatto di silicone, fondotinta e tintura per capelli, è proprio un uomo. Della specie peggiore, ma è un uomo).

Come nel caso della precedente iniziativa, vi copioincollo direttamente il post che Madama Bavareisa ha scritto per l'occasione.
Meglio di lei non saprei fare per spiegare tutto.

Rieccoci qui, un gruppo di bloggers stufe dei comportamenti insultanti nei confronti delle donne del presidente del Consiglio. Atteggiamenti già noti da tempo, ahimé, ma che adesso hanno oltrepassato davvero ogni limite, manifestandosi in modo chiaro ed univoco agli occhi di chiunque abbia un minimo di buon senso e una dose di dignità.
Già quando ci ritrovammo a commentare il gran numero di adesioni e di ricette raccolte per “Metti un finocchio a cena”, uno dei pensieri ricorrenti fu: guarda, non se ne può davvero più… Qualcosa nelle nostre cucine stava fermentando, e non stiamo parlando di kefir e lievito madre, che, non ce ne voglian le fautrici, son tanto buoni e fan tanto massaia bon ton, più crescono e più cresce l’autostima, ma… mah! alla nostra dignità credo aggiungano poco. Quella dignità che negli ultimi mesi è stata calpestata al limite della sopportazione…
E’ in fermento la nostra capacità di reagire, di chiedere rispetto, da parte di chi ci governa, con i mezzi a nostra disposizione: la parola, l’ironia e….mestoli e padelle! Ora basta!! (qui il link alla raccolta firme lanciata da Concita De Gregorio, sul giornale di cui è Direttore).
nel momento in cui le donne vengono scelte e premiate in base non al merito ma a qualcos’altro che con la professionalità, l’impegno, l’intelligenza ha poco o nulla a che fare, è stata riversata addosso l’inutilità del loro sacrificio” (G.Bongiorno, presidente commissione Giustizia della Camera)
Chi è disgustato quanto noi dovrebbe pubblicare entro domenica 6 febbraio una ricetta in cui il maiale sia protagonista…non importa se cucinerete un sontuoso carré o un panino alla mortadella, non è un vero e proprio contest, ma un’iniziativa di dissenso… fotografate un wurstel, se non avete tempo di cucinare, ma partecipate ugualmente! E per i bloggers non-food, sarà sufficiente aprire un post e commentare… a ruota libera!
Basterà esporre il banner dell’iniziativa, spiegando nel post le ragioni della propria partecipazione, i vostri motivi di disgusto, e comunicarci l’adesione fra i commenti a questo a post e/o nell’analogo post che troverete da Kemikonti. (questa volta Gaia, ideatrice e paladina della scorsa edizione, ci fornirà il suo prezioso aiuto dietro le quinte)
Valgono anche le ricette già pubblicate, e ovviamente non solo da donne!! ^_^


per il codice banner, cliccate qui e copiate il codice che vi compare nella finestra: http://tinypaste.com/684b8 per incollarlo nel vostro blog!
Per carità non saremo noi a cambiare le sorti del paese, già l’altra volta c’è stato chi ha detto che non vuole mischiare politica e cucina. Beh, citerò dardadi, una commentatrice della scorsa iniziativa: “tutto ciò che acquistiamo per poter preparare un piatto..è politica, far quadrare i conti è un atto di eroica politica ai giorni nostri” e aggiungo che il nostro essere donne attive degne di rispetto va ben oltre le quattro pareti rassicuranti di una cucina.
Come ci è venuta l’idea del maiale? Beh… per analogia, ovviamente! Sicuramente troveremo mille modi per renderlo appetibile e… per esorcizzare un po’…e liberarcene almeno virtualmente!
Buona cucina!

Segnalate le vostre adesioni a Madama Bavareisa.
Al 6 febbraio, dunque!

domenica 23 gennaio 2011

Sunday Music: Naviganti - Ivano Fossati

Ieri pomeriggio, in questa città, c'era un'atmosfera strana.

Nel mio studio, affacciato su quello che normalmente è un tranquillo cortile interno popolato di gatti e uccelli e bambini che giocano a palla e vecchine che stendono sul balcone e ragazzi che fumano di nascosto dalla finestra del bagno, mi sentivo come su un'isola in mezzo all'oceano.

Di quelle su cui gli alberi crescono, sì, ma solo fino a diventare poco più che arbusti e quasi parallelamente al suolo, perché sono abituati a sopportare sferzate perenni di vento salso.
Ciò nondimeno crescono, perché non possono fare altrimenti, e lo fanno con determinazione e anche una loro particolare, commovente, fragile e riarsa grazia.

E allora, mentre attendevo non so bene neanch'io cosa (che il vento cessasse o che lo studio ed io con lui - insieme alla mia scrivania e alla sedia e alle librerie e alla gatta Linda che dormiva sulla sua poltrona - prendessimo il volo) ho pensato che la canzone di oggi avrebbe dovuto essere questa.

L'ho cercata su youtube e ho trovato questo video, in cui alla voce e alla musica di Ivano Fossati si accompagnano le immagini suggestive, evocative e fiabesche di un pittore polacco, Jacek Yerka, che non conoscevo affatto.

Spero che vi piacciano quanto sono piaciute a me, ma che non vi distolgano dallo splendido testo di questa canzone, che io trovo tra i più belli di Fossati.

Forse non vi sorprenderà sapere quanto mi emozioni, ogni volta, ascoltare queste parole:

Ma ora è il momento
di mettersi a dormire
lasciando scivolare il libro
che ci ha aiutati a capire

che basta un filo di vento
per venirci a guidare
perché siamo naviganti

senza navigare mai.


Buona domenica!








venerdì 21 gennaio 2011

Di un pranzo (molto poco) belga e di una vellutata ai porri e all'arancia

Avrei voluto scrivere un post sulla mia vacanza a Bruxelles, lo scorso dicembre.

Magari corredato di foto ritraenti angoli suggestivi della città, case e giardini imbiancati di neve, i volti sorridenti dei miei gentilissimi e (assai) pazienti amici che mi hanno ospitato, i venditori e le merci dell'incredibile mercato di Place du Jeu de Bal, le stupefacenti vetrine della boutique di qualche noto maître chocolatier: di soggetti da immortalare Bruxelles ne offre in quantità.

Invece, se avete già capito dove voglio andare a parare, niente di niente - o quasi.

Ecco praticamente le uniche foto che ho scattato in una settimana di vacanza: quelle che ritraggono un mio pasto, consumato in uno "splendido localino", direbbe la Spia citando i Blues Brothers.

Non si tratta di un ristorante tipico e caratteristico, ma di uno dei tanti Au Pain Quotidien (un noto e fortunato franchising che si trova un po' ovunque, persino a Dubai, ahimé), quello del Sablon - per la precisione.

In un'atmosfera rilassata e apparentemente casuale (ma immagino frutto anche di accorti e ben pagati studi di marketing), amabilmente intrattenuta dalla mia cara amica, immersa nella suggestiva luce perlacea che penetrava nel grande locale attraverso un luminoso lucernario, ho mangiato uno dei pranzi che più mi hanno soddisfatto in vita mia: una tartine con caprino, pesto e pomodori secchi e uno stupefacente yogurt con cereali e frutti di bosco.

Non il tipico pranzo belga, ne convengo.

La macchina fotografica è rimasta per lo più a languire nella tasca interna della mia borsa, se non addirittura sul comodino della stanza degli ospiti che i miei amici mi avevano messo gentilmente a disposizione.

Se oggi ho deciso di uscirmene fuori con Bruxelles è perché ieri ho preparato per la terza volta in meno di un mese una zuppa che con quella città, e con quel pranzo, ha molto a che fare - almeno nella mia testa.

Prima di tutto perché la ricetta viene da un bel libro acquistato proprio lì, in terra belga, l'ennesimo Marabout, Soupes de saison di Anne-Catherine Bley.
(Mi sono informata e ho saputo che la signora in questione ha partorito, prima di questo, un altro libro - che presto sarà mio - sul medesimo argomento [fa questo di mestiere, d'altra parte] che si intitola Bar à soupes, barbaramente tradotto in italiano con l'agghiacciante titolo Zuppe à porter e pubblicato ovviamente dalla Guido Tommasi).

Poi perché mi vien da pensare che nel menu di un Au pain quotidien questa zuppa ci starebbe proprio bene: è un abbinamento classico ma declinato in una versione un po' fighetta, che sfiora appena appena la leziosità - almeno così mi pare.


****

Velouté de poireaux aux zestes d'orange

(per 2 persone)

3-4 porri non affetti da gigantismo
1 patata di medie dimensioni

1 cipolla

1 cucchiaio d'olio d'oliva

mezzo litro d'acqua

150 ml di panna
(anche meno)
la buccia finemente grattugiata di mezza arancia non trattata

1 cucchiaio di Grand Marnier (nell'originale, di Cointreau; io avevo il Grand Marnier in casa e quello ho usato)


Lavate e tagliate il bianco dei porri a lamelle sottili.

Sbucciate e tagliate allo stesso modo anche la cipolla.

Fate appassire porri e cipolla nel cucchiaio d'olio per circa 5'.

Aggiungete la patata, sbucciata e tagliata a cubetti, e l'acqua (cui io, in realtà, aggiungo del brodo granulare di verdure; solo l'acqua mi sembra faccia un po' tristezza).

Portate a bollore, indi abbassate la fiamma e fate sobbollire dolcemente per 20'.

Nel frattempo mescolate la buccia dell'arancia alla panna e aggiungete il cucchiaio di liquore. Mettete da parte.

Quando saranno trascorsi i 20' di cui sopra, spegnete il fuoco e passate al minipimer la zuppa.
Aggiungetevi metà della panna aromatizzata.

Montate appena l'altra metà (o - se siete degli sciattoni come me - meno che appena, come si nota dalla foto, dove la panna ha l'aspetto di una schiumetta poco invitante e di dubbia provenienza, mi rendo conto; vi assicuro che è panna, comunque) e portate in tavola.

Enjoy!

mercoledì 19 gennaio 2011

Le poesie del mercoledì: da Xenia I - Eugenio Montale

Ricordo bene chi mi ha regalato il voluminoso tomo che raccoglie l'intera produzione poetica di Eugenio Montale.

Sul frontespizio, una dedica un po' pretenziosa forse (soprattutto perché in inglese e infedele all'originale), ma molto vera.

Si tratta di un notissimo verso dell'Amleto di Shakespeare, quello che dice


There are more things in heaven and earth , Horatio,
Than are dreamt of in our philosophy

Penso che poche poesie come quella di Montale esemplifichino al meglio questo pensiero.

Pochi poeti hanno esplorato, come lui, la vertigine del nulla che si cela dietro l'affollata e caotica apparenza della realtà, la paradossale compresenza, nella vita, di senso e vacuità, fine e gratuità, permanenza e provvisorietà.

Benché mi affascini molto il Montale "metafisico", indagatore inquieto ma insieme distaccato, ironico e anche un po' snob di quella grande finzione che per lui era la realtà, quello che mi ha subito e per sempre conquistato - e non sorprenderà nessuno, tutto ciò - è il Montale in versione per così dire casalinga, quello che canta - per esempio - l'elegia di una vita quotidiana condivisa con una moglie molto amata e perduta.

Molti di voi, qualche sera fa da Fazio, avranno sentito Luca Zingaretti declamare - forse con fin troppa teatralità, ma gliela si perdona, è tanto fascinoso - la celeberrima Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale, omaggio gentile e struggente (speriamo non tardivo) alla compagna di una vita, Drusilla Tanzi, affettuosamente soprannominata la Mosca, per via della forte miopia.

Di poesie a lei dedicate Montale ne scrisse diverse.
Tutte permeate di grande nostalgia e tenerezza ma insieme anche di fascinazione per una donna che rimase imprevedibilmente, a modo suo, un enigma.
Tutte frammenti di un dialogo che cerca di superare il baratro apparente che la morte crea tra chi va e chi resta.
Un dialogo a tratti ironico, a tratti tenero, alla ricerca di risposte impossibili da avere, o permeato dalla dolcezza di qualche ricordo condiviso.

Tra le mie preferite, questa.


****


Tuo fratello morì giovane; tu eri
la bimba scarruffata che mi guarda
"in posa" nell'ovale di un ritratto.
Scrisse musiche inedite, inaudite,
oggi sepolte in un baule o andate
al màcero. Forse le riinventa
qualcuno inconsapevole, se ciò che è scritto è scritto.
L'amavo senza averlo conosciuto.
Fuori di te nessuno lo ricordava.
Non ho fatto ricerche: ora è inutile.
Dopo di te sono rimasto il solo
per cui egli è esistito. Ma è possibile,
lo sai, amare un'ombra, ombre noi stessi.


(da Xenia I, in Satura, 1960)

domenica 16 gennaio 2011

Sunday Music: Both Sides Now - Joni Mitchell

Un pomeriggio di parecchi anni fa, chiacchieravo del più e del meno con una mia amica di allora.
Parlavamo di chi o di che cosa avremmo voluto essere se avessimo potuto mai rinascere in un'altra vita.

Sinceramente non ricordo che cosa dissi io (poco male, sarà stata qualcuna delle mie scemenze), ma la risposta della mia interlocutrice mi colpì moltissimo.

Senza un attimo di esitazione, la mia amica mi disse: "Io vorrei rinascere Joni Mitchell".

Allora, mi vergogno a dirlo, non sapevo di chi stesse parlando, dunque la sua risposta mi colse davvero alla sprovvista.
Per qualche istante pensai si trattasse, non so perché, di qualche eroina benefattrice dell'umanità tipo Florence Nightingale.

La mia interlocutrice, che aveva una decina di anni più di me, rimase scandalizzata dalla mia ignoranza e qualche giorno dopo mi omaggiò di una cassetta con su registrati un paio di album di Joni Mitchell, ascoltando i quali, secondo lei, avrei dovuto capire il motivo della sua risposta apparentemente bizzarra.

Da quel giorno sono passati molti anni.
Di Joni Mitchell ho ascoltato e comprato, nel tempo, altri dischi, alcuni dei quali, a mio parere, sono dei capolavori.

Pur trovando innegabilmente straordinaria la sua voce e infusi di incredibile poesia e profondità gran parte dei suoi testi, faccio nondimeno ancora fatica a capire perché qualcuno potrebbe desiderare di rinascere lei.

E non posso fare a meno di ricordare con un sorriso quella scena del romanzo di Nick Hornby, About a Boy, in cui la madre di Marcus, Fiona, una vegetariana figlia dei fiori depressa con tendenze suicide e gusti musicali "antiquati", la prima sera in cui invita a cena Will, il protagonista del libro, comincia, con grande imbarazzo di quest'ultimo, a suonare il piano e a cantare con trasporto e sentimento proprio la canzone di Joni Mitchell che ho scelto per oggi.

Che comunque rimane per me una delle sue più belle.

Buona domenica!






mercoledì 12 gennaio 2011

Le poesie del mercoledì: 1964 - Jorge Luis Borges

Ci sono autori, molti autori, nei confronti dei quali nutro da sempre un timore reverenziale.

Scrittori le cui opere sento richiedere una maturità, una concentrazione, un accumulo di esperienze di vita che mi pare di non poter ancora attribuirmi.

Scrittori per i quali da tempo mi preparo, senza sentirmi pronta, senza neanche saperlo.

In passato invidiavo quanti li avessero già conosciuti, amati, chi avesse potuto annoverarli tra i suoi numi tutelari.

Adesso invece sono contenta che ci siano ancora così tante voci, così tanta ricchezza di vita ancora a mia disposizione, tutta da scoprire e di cui far tesoro, come le pagine fragranti di un libro nuovo nuovo, appena acquistato.

Tra questi autori c'è sicuramente Jorge Luis Borges: da anni attendo trepidante di incontrarlo.

Nel frattempo, prima di affrontare la sua vertiginosa produzione narrativa e saggistica, mi godo qualche sua poesia, in una manovra dolcissima e avvolgente, apparentemente distratta e casuale, di avvicinamento reciproco.
Così mi appare meno titanico e distante.
Più facile mi sembra conoscerlo.
E inevitabile già amarlo.


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1964

I

Non più magico è il mondo. Ti han lasciato.
Non condividerai la chiara luna
Più né i lenti giardini. Non c'è luna
Ormai che non sia specchio del passato,
Vero a chi è solo, sole del morente.
Addio alle mutue mani, addio alle tempie
Che amore avvicinava. Non hai più
Che il fedele ricordo e i vuoti giorni.
Non si perde (ripeti vanamente)
Che quanto non si ha e non s'è avuto
Mai, ma non basta l'intimo coraggio
Per imparare l'arte dell'oblio.
Un simbolo, una rosa può ferirti,
Un accordo di chitarra straziarti.

(da L'altro, lo stesso - 1964)

domenica 9 gennaio 2011

Sunday Music: Nothing to Lose - Claudine Longet

Per qualche tempo, quando ero giovine, ho cercato di imparare a suonare la chitarra.

Me ne regalò una un mio fidanzato con velleità da pianista, per consolarmi del fatto che sarebbe partito per un mese per una vacanza a New York (e che non aveva nemmeno lontanamente pensato di portarmi con sé).

Il suo regalo rimase a prender polvere per qualche anno, fino a quando - il fidanzato quasipianista era già acqua passata - non mi decisi a prendere delle lezioni.

Il mio maestro era un chitarrista jazz e del chitarrista jazz aveva il physique du rôle: capelli arruffati e incolti, abiti sempre stazzonati, voce arrochita dalla nicotina e da chissà quali altre sostanze letali per l'organismo, occhi circondati dalle occhiaie di chi vive di notte e dorme di giorno, più, tanto per gradire, un certo fascino maudit e randagio.

Fare lezione con lui non era semplice: già accordarsi per l'orario era un'impresa, in più il fascinoso jazzista parlava poco, con voce cavernosa e una sigaretta perennemente penzolante tra le labbra; spesso era con me solo in spiritu (e a più di una lezione si presentò chiaramente sofferente dei postumi di qualche sbornia), o si assentava - me presente - con un'espressione a metà tra il beato e il sofferente, perdendosi in solitari assoli, che concludeva con un sorriso sghembo col quale, probabilmente, mi chiedeva scusa.

Aveva però molta pazienza e modi zen (o forse solo molto sonno).
Ogni tanto, per motivi a me misteriosi, se ne usciva inopinatamente con battute ed espressioni esilaranti; una volta mi salutò con un pittoresco "S'arincastramo" (che voleva dire, più o meno, "ci vediamo").

Non sarà dunque per voi motivo di sorpresa sapere che le nostre lezioni non portarono a nulla.
Il problema principale, in realtà, era mio: mancavo completamente di coordinazione.
Se mi concentravo sulla mano destra, non riuscivo a muovere la mano sinistra sulla tastiera; se la mia attenzione si rivolgeva a quest'ultima per centrare gli accordi, la mano destra si agitava incerta e spesso mancava del tutto le corde.

Un pomeriggio in cui era stranamente di umore ilare e giocoso, il mio maestro si accovacciò ai miei piedi ed eseguì con me un grazioso motivetto che si insegna ai principianti: io mi occupai degli accordi, lui delle corde.
Avremmo potuto metter su un inusuale duo, in effetti.

Poco prima delle vacanze estive, alla fine di quella che poi si rivelò essere l'ultima nostra lezione, il jazzista mi disse, con un sorriso forse un po' piacione: "Guarda, te lo dico contro il mio interesse: tu hai una bellissima voce, davvero. È già tantissimo": un invito allusivo - ma neanche tanto - a lasciar perdere.

Peccato, però.

Quello di non saper suonare la chitarra è uno dei miei rimpianti più cocenti.
Cocente soprattutto perché so che non ho avuto e non avrei nemmeno ora la costanza e la disciplina necessarie e dove non c'è la volontà è davvero difficile ottenere dei risultati, anche mediocri.

Non ho certo mai pensato, neanche nei miei momenti più ispirati, di poter diventare un Andrés Segovia in gonnella.

Mi sarei ampiamente accontentata di sapere accompagnare le mie cantatine, che amo moltissimo fare e, in verità, faccio quasi ininterrottamente, praticamente senza neanche accorgermene (e la canzone di oggi è una di quelle che canticchio più spesso).

Ma qualche volta mi capita ancora di sognare ad occhi aperti e mi piace immaginarmi così, bella e leggiadra come l'incantevole Claudine Longet, che nel mitico Hollywood Party, con la sua (un po' troppo, per i miei gusti) esile voce canta questa canzone, scritta da Henry Mancini, sotto lo sguardo rapito e già sedotto del grandissimo Peter Sellers.








venerdì 7 gennaio 2011

Del cattivo gusto - forse - e di una crema da spalmare al cioccolato bianco e all'arancia

Poche persone amano il cioccolato bianco.

Voglio dire poche persone che frequentino la cucina in modo non dico professionale ma almeno non casuale o distratto.

Io lo adoro, anche quello abbastanza becero del supermercato.

Una volta ho avuto la possibilità di assaggiarne uno "speciale", graziosamente donatomi da un amico il quale, orripilato da questa mia vile e volgare debolezza, volle almeno farmi conoscere un cioccolato bianco da intenditori.

Ricordo che i quadretti color dell'avorio erano punteggiati dai semini della vaniglia, che la confezione e la carta erano di un'eleganza squisita e raffinatissima, ma anche che la consistenza della cioccolata non mi conquistò: era meno morbida, meno burrosa e untuosa di quella del cioccolato bianco da abbrutiti che in genere prediligo.

Alla fine il mio verdetto fu: "Meglio quello del supermercato".

Il mio amico meditò a lungo sull'eventualità di togliermi il saluto, almeno per un po'.

Poi decise che sarebbe bastato non spendere soldi invano omaggiandomi di raffinatezze che il mio palato troppo rozzo non avrebbe comunque potuto e saputo apprezzare.

Non so dire se questa crema da spalmare (un altro dei regali natalizi) sarebbe più buona o meno buona se preparata con un cioccolato bianco "serio".

Fatta con quella del supermercato, però, e lo so bene, è un delirio.

È ricca, volgare, esagerata e, per tradurre un'espressione inglese, decadente, cioè voluttuosa, al limite del cattivo gusto e decisamente letale per la salute - se consumata in quantità smodate (e la tentazione di consumarla proprio così è tanta) - ma miracolosa per il buonumore.

La ricetta - se di ricetta si può parlare - è sempre tratta da quel Je fais mes pâtes à tartiner di cui ho parlato qui.



250 gr di cioccolato bianco
150 ml di panna liquida
1 pizzico di sale
la buccia finemente grattugiata di un'arancia non trattata
scorza d'arancia candita

Tagliate a quadretti il cioccolato bianco e mettetelo in una ciotola.

In un pentolino scaldate - senza farla bollire - la panna, alla quale avrete aggiunto la scorza grattugiata assai finemente dell'arancia e un pizzico di sale.

Quando comincia a fumare, versate il composto sulla cioccolata, aspettate un minuto poi amalgamate.

Aggiungete la scorza d'arancia candita, tagliata a quadratini.
Regolatevi voi sulle quantità e tenete presente che tenderà a precipitare verso il fondo del barattolo*.

Invasate e tenete in frigo.
La consistenza ricorda quella del burro morbido.

Consumate questa libidinosissima vaccata entro due settimane**.

Enjoy!

* Nel libro si dice di aggiungere i canditi solo dopo aver atteso che la crema si sia freddata per una quindicina di minuti nel frigorifero. Forse questo evita il loro inabissamento? Non ne sono sicura, ma intanto ve lo segnalo. Va da sé che pigra come sono non ho mai seguito la procedura - per questo non ne ho parlato nel post - ma se qualcuno volesse essere ligio...

** Esmé nutre dubbi circa il fatto che questa crema e quella alla cioccolata fondente e caffè, contenendo entrambe panna, possano mantenersi - anche in frigo - per 15 giorni e avendo a cuore l'incolumità dei miei lettori - è una donna di gentile sentire - mi ha chiesto la cortesia di aggiungere una postilla nella quale specificare, ancora una volta, che il barattolo, appena si sia freddato, va immediatamente messo in frigorifero e lì conservato.
Da parte mia posso garantire che entrambe le creme sopportano benissimo una settimana (di più non sono durate).

mercoledì 5 gennaio 2011

Le poesie del mercoledì: Una strana gioia - Ariodante Marianni



Ricordate Ariodante Marianni e la sua L'amore è una guerra?

Per questo primo appuntamento del nuovo anno delle poesie del mercoledì, poche mi appaiono più adatte e più beneauguranti di questa sua piccola gemma.

Sarebbe bello se ogni giorno di questo nuovo anno cominciasse così.


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Una strana gioia


Strana gioia di vivere
la chiamò Sandro Penna,

un frizzante vinello,
un diavoletto in corpo.

Ti svegli e vai alla finestra,
respiri largo, ti stiri,

senza volerlo sorridi,
cerchi un motivo ma non c'è,

niente è diverso da ieri,
nessun prodigio è in corso.

Forse è un compenso,
o un premio perché vivi.


(da Una strana gioia, 2002)

sabato 1 gennaio 2011

Sunday Music: Not Too Late - Norah Jones

Questo nuovo anno voglio proprio cominciarlo con questa canzone.

Prima di tutto perché la trovo molto bella, poi perché so di fare un regalo alla Spia - che ha per Norah Jones una grande passione - infine perché mi piace tanto il titolo, Not too late, non troppo tardi.

Mi piace, mi è sempre piaciuto, pensare che non sia mai troppo tardi per molte cose.

Per esempio, come canta la bella Norah Jones, non è mai troppo tardi per l'amore (o almeno si spera che mai lo sia).

Né lo è per scegliere di avere curiosità nei confronti degli altri e delle esperienze cui si va incontro.

Per me non è mai troppo tardi, soprattutto, per imparare qualcosa di nuovo.

Mi piace fantasticare sulle mille e mille cose che non ho mai fatto e che potrei fare, magari proprio quest'anno, proprio perché non è troppo tardi per farle.

Ho deciso, per esempio, che per me non è tardi per imparare a cucire (storia vecchia, questa; ma non è mai tardi per continuare a volerlo).

Né è troppo tardi per la lettura - finalmente! - dei classici che non ho mai avuto il coraggio di approcciare (Borges e Proust, i primi due che mi vengono in mente).

Non è troppo tardi, anche, per scoprire, almeno una volta al mese, un angolo nuovo di questa splendida città che ha la grazia di ospitarmi facendomi sentire tanto ben accolta.

Questi alcuni dei miei "non è troppo tardi".

E i vostri?

Buon anno a tutti!