mercoledì 30 marzo 2011

Le poesie del mercoledì: da La traversata dell'oasi di Maria Luisa Spaziani

Di Maria Luisa Spaziani non sapevo e non so praticamente nulla (se non che ebbe una famosa liaison con Eugenio Montale) e mi rendo conto che questi post sulla poesia esordiscono spesso con questa professione di ignoranza, assai poco promettente.

Ma vorrei fosse chiaro che le poesie che propongo sono per lo più scoperte anche per me: sono tappe di un percorso in divenire, che compio in modo del tutto libero e casuale (se esiste davvero qualcosa di casuale in questa vita, cosa di cui mi piace dubitare), seguendo unicamente l'intuizione, la curiosità, il ghiribizzo.

Come spiegavo qui, i poeti li ho frequentati soprattutto all'università, e per molto tempo - per quanto strano mi possa sembrare oggi - ho fatto a meno della loro compagnia e delle loro parole.

Dico che oggi mi sembra strano aver vissuto tanti anni senza poesia perché sono in un momento della mia vita in cui invece sento proprio il bisogno di leggerla: comincio davvero a sentire, intimamente, profondamente, che si tratta di un'altra voce che parla della realtà in modo unico e insostituibile, soggettivo - ovviamente - e insieme, però, così illuminante per tutti e dunque necessario, tanto più adesso, in questo momento storico in cui mi sembra ci sia un disperato bisogno di strumenti il più possibile diversificati e sofisticati (nel senso di sensibili) che possano aiutare a interpretare la realtà.
Di sicuro questo bisogno quasi disperato ce l'ho io. 

Mi piace immensamente andare alla biblioteca di quartiere e curiosare tra gli scaffali di poesia, prendere qualche volume, scorrerne le pagine, magari sedermi per qualche istante ai tavoli della piccola sala di lettura - sempre un po' rumorosa: la gente che frequenta la biblioteca è gente del quartiere, appunto, che si conosce magari da una vita e va in biblioteca anche per veder qualcuno, scambiare due chiacchiere e a me questa cosa piace tanto, sì sì, anche se mi distrae dalle mie letture - e poi scegliere tre volumi, il massimo consentito, e tornarmene a casa tenendomeli sotto il braccio e sentirli quasi fremere di vita: quali parole, quali immagini nuove, inaudite o familiari mi offriranno? Quali illuminazioni, quali intuizioni?

Arrivata a casa li appoggio sulla piccola cassa ottagonale in salotto che mi fa da tavolino da caffè, vicino alla mia poltrona, accanto a un mazzetto di segnalibri che tengo a portata di mano per infilarli tra le pagine che voglio ritrovare in seguito, e da lì li prendo per leggerli dopo pranzo, la casa avvolta nel silenzio, le gatte che dormicchiano, una sul divano, l'altra sulla seconda poltrona, la Spia che riposa in camera da letto, la porta appena socchiusa, il sole che entra dalle alte finestre.

Ecco, ho aperto il libro.
Siete con me, ora, e i vostri occhi leggono quel che leggono i miei.


****


Nei miei vent'anni non ero felice
e non vorrei che il tempo s'invertisse.
Un salice d'argento mi consolava a volte,
a volte ci riusciva con presagi e promesse.

Nessuno dice mai quant'è difficile
la giovinezza. Giunti in cima al cammino
teneramente la guardiamo. In due,
forse la prima volta.


(da La traversata dell'oasi. Poesie d'amore 1998-2001, Mondadori 2002)

lunedì 28 marzo 2011

1984 di George Orwell

Leggere questo libro oggi - si tratta di una rilettura, in realtà, ma la prima volta non conta: ero giovine e un po' stolta - è stata un'esperienza dura.

Dura ed esaltante al tempo stesso, come lo sono tutte le esperienze che lasciano un segno, piccolo o grande non importa, e tutti gli incontri che ci aiutano a conoscere e interpretare questa realtà sempre più complessa e indecifrabile e al tempo stesso sempre più appiattita, elementare, bidimensionale, impoverita.

Critici e lettori ben più esperti e colti di me hanno scritto a lungo sull'impressionante e inquietante valore profetico della visione di Orwell, quella di un futuro possibile in cui esiste solo una massa condizionata da media asserviti al potere e in cui è repressa e condannata ogni espressione individuale, dalla più insignificante, come tenere un diario, alla più sublime, come innamorarsi.

Orwell è potente ed efficace nel rendere l'assoluta inerzia e mancanza di volontà della massa bruta, senza mai esprimere un giudizio, senza mai fare del facile moralismo: pure il suo ribrezzo si respira ad ogni pagina, il suo inquieto e disperato presagire un simile futuro contagia il lettore ad ogni riga: il libro si legge con crescente cupezza e a volte con un'avvilente sensazione di déjà vu.

Ripenso, ad esempio, alla scena delle donne che al mercato si contendono fieramente alcune pentole e che lottano per accaparrarsele con una violenza e un'energia che, se ben dirette, potrebbero costruire la possibilità per tutti di liberarsi dallo squallido ottundimento della volontà e della dignità.
 
Eppure, per un istante, quale spaventosa potenza non era risuonata in quel grido emesso soltanto da poche centinaia di gole! Perché non riuscivano mai a gridare in quello stesso modo per qualcosa che fosse importante sul serio?

Quante volte ho pensato qualcosa di simile negli ultimi tempi?


George Orwell, 1984, Mondadori 1950, traduzione di Gabriele Baldini.

domenica 27 marzo 2011

Sunday Music: La Noyée - Yann Tiersen

(Una brevissima parentesi, giusto per ringraziare Nela San e Barbara di aver segnalato il mio blog nell'ambito del Kreativ Blogger Award e per ribadire che, benché sia mooooolto lusingata e colpita da questa manifestazione di apprezzamento, questa storia di premi mi mette sempre un po' in imbarazzo e dunque passo la palla a chi ci vorrà giocare.

Le regole consistono nel segnalare a propria volta 10 blog - soltanto? - e nello scrivere 10 cose di sé che i lettori presumibilmente ignorano - figurarsi! io che, come si dice a Roma, "non mi tengo un cecio in bocca" vi dico sempre tutto, manca solo che vi metta a parte del colore delle mutande che indosso in questo momento - nere.

Di tutto ciò [ma non delle mutande] avevo già parlato, ma in privato, con Isabella Paglia, che nel gennaio scorso era stata tanto gentile da segnalarmi per un altro premio.
Spero si capisca che la mia non è né falsa modestia né leziosa ritrosia e soprattutto che arrivi, ancora una volta, a queste tre fanciulle la mia felice e stupita riconoscenza per la loro gentilezza.
E adesso procediamo...)

Pare proprio che la primavera sia arrivata.

Almeno questo è ciò che mi sta dicendo, da qualche giorno, la grande quercia che dal cortile si erge fino a riempire di verde e di trilli d'uccelli anche le stanze di questa nostra casa al secondo piano.

L'ho osservata attentamente, la quercia, in questi mesi: ha perso tutte le foglie tra novembre e gennaio, ma proprio tutte, aprendo all'improvviso la vista sulle case che si trovano dall'altra parte del cortile e la cui presenza si poteva, fino ad allora, solo intuire, tra un ramo e l'altro.

È rimasta spoglia fino a circa venti giorni fa, quando, appena impercettibilmente, si è coperta di tenerissime gemme, quasi invisibili ad occhio nudo.

Poi, più o meno una settimana fa, una mattina, appena sveglia, sono andata in cucina per fare colazione e aprendo le imposte eccola là, la quercia, completamente coperta di foglie, verdissima.

Sarò sciocca, ma a vederla con il suo abitino verde nuovo di zecca, tutta risuonante di gorgheggi e richiami, ho sentito un moto d'affetto nei suoi confronti e avrei voluto dirle "Congratulazioni! Tanti auguri!" come a chi si sposa o si laurea.

E poi mi è tornata in mente quella scena in Le fabuleux destin d'Amélie Poulain in cui lei, dopo aver accompagnato il signore cieco nella sua breve passeggiata per il quartiere, galvanizzata dalle endorfine che scatena una buona azione totalmente gratuita e disinteressata, cammina immersa nell'aria tiepida e dolce di una mattina primaverile, con il passo elastico, gli occhi sfavillanti (e quel meraviglioso taglio di capelli che mi piacerebbe tanto adottare se non avessi una chioma da Erinni), felice di essere al mondo.

E allora, questa domenica, vi auguro di sentirvi proprio così, felici di essere al mondo.

Buona domenica!

(Mi viene in mente anche mio padre che la prima volta che vide il film, alla fine di quella scena, un po' commosso ma con tono burbero esclamò: "Ma se quel povero cieco non avesse voluto affatto essere accompagnato alla stazione della metropolitana? Magari veniva proprio da lì e ci aveva messo mezza mattinata!")







mercoledì 23 marzo 2011

Le poesie del mercoledì: L'albatros - Charles Baudelaire

Eccomi, sono tornata, dopo una settimana di silenzio.

Una settimana durante la quale ho imparato anche diverse cose, alcune delle quali abbastanza sorprendenti per me.

Per esempio, cosa che non avrei mai detto, che sono internet-dipendente.

Ci sono giorni in cui ci passo diverse ore ed altri in cui controllo solo la posta e basta, ma non sapevo che l'idea di non poter scegliere se starci mezza giornata o mezz'ora mi stranisse così tanto e mi facesse sentire una mezza derelitta esiliata dal mondo e da tutti (io la chiamo "sindrome della piccola fiammiferaia").

Soprattutto mi sono mancate molto le tante finestre - una diversa dall'altra, ognuna affacciata su un panorama differente - che apro quasi ogni giorno sul mondo che mi circonda.

Il che in parole povere vuol dire che mi siete mancati voi, lettori e amici bloggers che passate di qui. 
E rendermene conto mi ha fatto molto molto piacere.

Ed ora basta sdilinquimenti e passiamo alla poesia di oggi.

Era da un po' che pensavo che avrei voluto postare qualcosa di Charles Baudelaire (e sono rimasta piacevolmente stupita quando ho visto che anche Grazia e anche Paola, tempo fa, hanno parlato di lui: sarà un "momento Baudelaire", forse legato alla primavera appena arrivata).

Famosissima, anche se non mi risulta venga considerata un suo capolavoro, la poesia di oggi ha per me un valore sentimentale enorme: la copiai, con una punta di vergogna e una di snobismo, su una delle prime lettere che spedii alla Spia, quando ancora la mail non si sapeva nemmeno che cosa fosse e il pc ce lo avevano in pochi (ed io ovviamente non ero tra loro).

La storia nacque così: lui un giorno mi scrisse che qualcosa di me gli ricordava un cigno (oggi probabilmente sarebbero i miei occhi cerchiati a fargli dire una cosa del genere; allora, forse, una certa qual inconsapevole leggiadria dovuta alla giovinezza, chissà...); io gli risposi che, più che a un cigno, mi sentivo somigliare all'albatros di Baudelaire, tormentato dai marinai e avvilito nel suo esilio terrestre (noterete da soli l'autocompiacimento adolescenziale insito in una simile affermazione).

Lui commentò dicendomi che la poesia era bella ma assai deprimente e che se proprio dovevo assomigliare a un pennuto, allora tra il cigno (il paragone col quale mi metteva a disagio) e l'albatros (la cui immagine gli comunicava una grande tristezza) era meglio la papera, che almeno è simpatica.

E quel giorno nacque Duck.

****

L'albatros
 

Per divertirsi, spesso, gli uomini degli equipaggi
catturano gli albatri, grandi uccelli marini 
che seguono,  indolenti compagni di viaggio,
il bastimento che scivola sugli amari abissi.

Non appena li depongono sulla plancia,
questi re dell'azzurro, goffi e vergognosi,
penosamente trascinano lungo i fianchi le loro grandi ali bianche,
come fossero remi.

Com'è goffo e debole questo viaggiatore alato!
Lui, prima così bello, com'è comico e brutto!
Uno gli stuzzica il becco con la pipa.
L'altro, zoppicando, imita l'infermo che volava!

Il poeta è simile al principe delle nubi
che è aduso alla tempesta e ride dell'arciere;
esiliato sulla terra, tra gli scherni,
le sue ali da gigante gli impediscono di camminare. 




****

mercoledì 16 marzo 2011

Le poesie del mercoledì: intervallo

Oggi niente poesia, purtroppo.

Il mio pc, al momento, è dal dottore: deve essersi preso un virus grosso come la testa della Spia (e vi assicuro che è mooolto grossa) e lo stanno curando.

E dunque non ho la possibilità di postare una poesia (e sarò forzatamente latitante anche dai vostri blog, cosa che mi dispiace assai), ma vi lascio con questo "intervallo", da intendersi un po' come quelle immagini di paesi italiani che ogni tanto andavano in onda sulla rai quando qualcuno, nella cabina della regia, schiacciava un pisolino - almeno questa era la spiegazione che mi davo da bambina.

L'ho trovato su Pinterest, luogo di perdizione in cui sono entrata per la prima volta qualche giorno fa e dal quale non vorrei mai uscire: una enorme collezione di bacheche fotografiche corredate di commenti, su qualunque argomento e qualunque cosa.

Io ho una bacheca di questi "cartelli", li trovo irresistibili.

E questo potrei averlo scritto davvero io (e tu lo sai bene, vero Grazia?)

Arrivederci a presto!


lunedì 14 marzo 2011

Che cosa combino nella stanza accanto: lavorare con le Delica (e con pazienza)



Quando le persone vedono la bigiotteria che creo commentano quasi sempre dicendo "Eh ma che pazienza che devi avere!".

In effetti alcune tecniche che mi piace usare ne richiedono una discreta dose. 

Guardate ad esempio queste microscopiche perline giapponesi, le Delica, che vengono soprattutto utilizzate per le cosiddette tecniche di tessitura - cioè con ago e filo: sono piccolissime e lavorarci a volte significa davvero sguerciarsi, anche solo per infilare l'ago, che ha una cruna sottile sottile, quasi invisibile; e poi bisogna stare attenti ed evitare che il filo speciale utilizzato per questi lavori non si annodi e non si aggrovigli - cosa che purtroppo a volte capita.
Nella malaugurata ipotesi che questo infausto evento si verifichi non si può che tagliare, sfare e rifare tutto (magari dopo aver smadonnato un po').

La cosa buffa è che chiunque mi conosca un po' sa che non sono affatto una persona paziente, al contrario!

La Spia vede in questo lato del mio carattere una sorta di residuo dell'infanzia e ama prendermi in giro sfidandomi a rimandare a tempo indefinito cose che invece voglio fare subito; per esempio, quando ricevo con la posta un libro ordinato su Internet (faccio fatica a immaginare evento più elettrizzante per me), immancabilmente mi provoca: "Perché non aspetti e non apri questo pacco domani?", sapendo già che molto spesso comincio a sbranarlo - è il termine adatto - direttamente sulle scale. 

In realtà, è proprio perché non sono paziente che mi piace dedicarmi a questi lavori da certosino, che per me hanno anche un valore terapeutico: mi inducono a fare le cose con lentezza, con cura e attenzione, e a combattere il desiderio un po' idiota di consumare subito l'esperienza e passare ad altro (ho sempre paura di non avere abbastanza tempo e di non riuscire a fare tutto quello che devo e voglio fare).


Ed ecco dunque i miei ultimi lavori, fatti in questi giorni in cui mi trascino per casa malaticcia e un po' assente, stile ectoplasma, preda di un raffreddore e di una tossetta fastidiosi ma indecisi (i peggiori, per me): grazie a loro, in questi ultimi pomeriggi, ho passato delle ore serene e piacevolmente concentrate.
 
Li trovate ovviamente nel mio shop.

domenica 13 marzo 2011

Sunday Music: The Last Chance Texaco - Rickie Lee Jones

Anni fa ricordo che la Spia mi disse di aver cominciato ad ascoltare realmente musica solo intorno ai 18 anni.

"E prima?" gli chiesi, sconcertata.
"Mah, ascoltavo quello che capitava", mi rispose, non molto convinto e desideroso di non entrare nei particolari (e ne aveva ben donde).

Per fortuna, poi, ci ha pensato il suo amico Alberto (chiamato familiarmente Lupo) a sottoporlo ad un intensivo programma di rieducazione musicale a suon di Beatles, Rolling Stones, Crosby Still & Nash - tra i molti altri.

È quindi forse anche a lui e non solo alla Spia che devo il mio incontro con Rickie Lee Jones, una cantautrice americana che in questa casa amiamo moltissimo.

Alla fine degli anni '70 divenne famosa soprattutto per la sua tempestosa e pittoresca storia d'amore con Tom Waits, una storia di talento, genio, passione e purtroppo anche alcolismo, abbrutimento e violenza.

In tutti questi anni, Rickie Lee Jones ha combattuto - anche lei - le sue belle battaglie con le sue varie dipendenze, continuando a scrivere e cantare musica cambiando genere e look con risultati altalenanti, ma alcuni suoi lavori sono secondo me dei gioielli - a partire dal primo, Rickie Lee Jones, del 1979 - anche quando si tratta di album di cover, genere che di solito detesto (non mi piacciono nemmeno quelle di Mina, per dire) e per il quale invece mi pare quest'artista abbia un vero e proprio talento: il suo album che preferisco, in effetti, è proprio un album di cover di pezzi soprattutto jazz, Pop Pop.

Questa è tra le sue canzoni che mi piacciono di più.

È una canzone strana, che apparentemente parla di distributori di benzina e meccanici, di macchine in panne e serbatoi vuoti e pezzi di ricambio che vanno sostituiti, ma si capisce che invece parla d'altro: di quanto a volte sia difficile capire che cosa c'è che non va, anche se è indubbio che qualcosa non vada, e di come sia complicato cercare di comprendere che cosa si deve fare perché le cose vadano meglio.

Ma credo soprattutto parli di quanta paura faccia, a volte, anche solo accettare l'idea di aver bisogno d'aiuto e decidersi ad andarlo a cercare e fidarsi di chi quest'aiuto può darlo.

Io penso che sia una canzone molto autobiografica e che Rickie Lee Jones la canti con grande intensità e commozione.
Io, almeno, mi commuovo molto ogni volta che la ascolto (ma avrete capito, ormai, che io mi commuovo assai facilmente).

Buona domenica!








venerdì 11 marzo 2011

Della mancanza di tempo e memoria, di un anniversario e di una quiche di porri

"Non ho tempo, non ho tempo" sembra essere diventato, ultimamente, il mio mantra, ripetuto a ritmo martellante soprattutto in silenzio nella mia testona vuota e bacata e ogni tanto anche a voce alta, a beneficio - si fa per dire - dei poveri disgraziati che hanno la sventura di capitarmi a tiro.
E dunque oggi sarò breve (grida di giubilo dal pubblico).

Ecco qui una quiche classica, provata poco tempo fa e subito entrata a far parte del gruppo delle ricette "di famiglia": la mia famiglia, intendo, quella che compongo con la Spia - e le gatte, volendo esser precisi.

Una famiglia che proprio ieri ha compiuto 11 anni.
Possibile?
Pare di sì.

Ieri pomeriggio la Spia, offrendomi una tazza di tè verde appena fatto mi ha chiesto scusa.

"Di cosa?" ho chiesto io perplessa.
"Di essermi dimenticato" ha risposto lui.
"Di cosa?" ho richiesto io, ancora più perplessa.
"Ah, andiamo bene, te ne sei dimenticata anche tu", ha concluso lui, indeciso se essere sollevato o offeso.
Per fortuna, alla fine, ha scelto la prima possibilità e con pazienza, ridendo un po', mi ha spiegato che 11 anni fa, il 10 marzo, io e lui etc. etc.

È sicuramente bello ricordare e festeggiare le cosiddette liete ricorrenze.
Ma ancora più bello, forse, è dimenticarsene (entrambi però, se no è un disastro). 
Perché di occasioni belle per festeggiare se ne crea una - o anche più di una - ogni giorno; oppure perché si è entrambi due smemorati di Collegno e di questa condivisa condizione si ride insieme, con complicità (e un filo di preoccupazione: se siamo già così adesso e facciamo poco più di 80 anni in due che succederà tra un po'? Meglio non pensarci).

E ora, prima di cadere tutti dritti in un grande bidone di melassa o di dimenticare quello che volevamo dire, ecco la ricetta.

****

Quiche di porri da Twelve di Tessa Kiros (con qualche modifica)

per la pasta brisée:

200 gr di farina 0
100 gr di burro
1/2 cucchiaino di sale fino
acqua ghiacciata

per il ripieno: 

3-4 porri
2 cucchiai di olio d'oliva
250 ml di vino bianco
3 uova
60 gr di parmigiano reggiano, grattugiato
noce moscata
120 ml di panna liquida

Io la pasta brisée la preparo nel robot.

E questa è la procedura (di ispirazione Nigellonica): pesate il burro e la farina in una ciotola ed infilate quest'ultima nel freezer per una decina di minuti.

Passati i quali svuotatela nella coppa del robot da cucina, aggiungete il sale e avviate il motore con la funzione pulse: burro e farina devono sbriciolarsi.

A quel punto aggiungete l'acqua ghiacciata (ne tengo sempre una bottiglietta in frigorifero), cucchiaino dopo cucchiaino: fermatevi non appena vedete che la pasta comincia ad ammassarsi.
A volte prima dell'acqua aggiungo un tuorlo d'uovo; non sempre. La pasta mi sembra venir bene anche senza.

Non appena la pasta comincia a formare la cosiddetta "palla", dunque,  tiratela fuori dal robot, lavoratela molto sommariamente giusto per ammassarla, avvolgetela nella pellicola e mettetela in frigo per almeno una mezz'oretta.

Stendetela poi tra il foglio di pellicola con la quale l'avete avvolta e un foglio di carta da forno che servirà per la cottura in bianco; adagiatela sulla tortiera, infilzatela un po' qui e un po' là con una forchetta e rimettetela in frigo per un'altra mezz'oretta, il tempo di scaldare il forno a 180°.

Indi copritela con il foglio di carta da forno, versateci sopra i fagioli secchi o quel che è e cuocetela in bianco per circa 20'-25', poi togliete la carta e i fagioli e lasciatela in forno per altri 5'-10'.

Nel frattempo lavate i porri e lavateli benissimo, perché poche altre verdure al mondo possono essere più terrose dei porri (forse solo gli spinaci): eliminate il fondo e la parte verde e tagliateli a rondelle sottili: mettete queste rondelle dentro una capace terrina piena di acqua e smuovetele graziosamente per liberarle di ogni traccia di terriccio. A volte servono due bagni. Poi scolateli in uno scolapasta.

In una padella fate scaldare l'olio, aggiungete i porri, salate, pepate e cuocete a fuoco dolce fino a quando i suddetti porri non siano appena appassiti.

Versate il vino bianco e continuate a cuocere fino alla sua quasi totale evaporazione.

A quel punto aggiungete 250 ml di acqua e proseguite la cottura di altri 10', più o meno: i porri saranno morbidi e ci sarà pochissimo liquido nella padella. 

Toglieteli dal fuoco.

In una ciotola sbattete appena le uova, aggiungete il formaggio, la panna, la noce moscata e infine i porri; amalgamate bene ed evitate di fare una frittata.

Versate il ripieno nel guscio di pasta brisée, distribuendolo bene e cercando di non farlo tracimare (io non ci riesco mai, accidenti, ma nessuno se n'è mai lamentato).

Cuocete per circa 20'-30': la superficie dovrà essere dorata e appena rassodata.

La torta è ottima non caldissima, ma ancora tiepida.

Enjoy!



 

mercoledì 9 marzo 2011

Le poesie del mercoledì: Sotto i colpi - Nelo Risi

Qualche giorno fa ho ripreso in mano un testo che portai a un esame all'università, un'antologia della poesia italiana del '900 pubblicata da Mondadori. 

Mille e passa pagine di versi e profili biografici e critica letteraria da studiare, metabolizzare, ricordare e di cui riferire.

Ogni tanto rimango basita di fronte alla quantità di informazioni, dati, stimoli da cui la mia mente in quegli anni è stata letteralmente bombardata - senza apparenti risultati: ho dimenticato gran parte di ciò che ho studiato, cosa di cui mi cruccio in modo inverosimile.

E quando ci penso, non riesco a non pensare a quella famosa battuta di Lella Costa che dice più o meno: perché ricordo per filo e per segno tutto il testo di 44 gatti in fila per 6 col resto di 2 e tutti i nomi dei figli di Al Bano e Romina Power e solo poche parole smozzicate dei capolavori della poesia studiati al liceo?

Ecco, appunto.

Mi sono sempre consolata di questa sorta di deficit della memoria pensando che però, di tutti quegli anni di studio matto e disperatissimo, qualcosa mi è rimasto: una sorta di mappatura mentale della mia biblioteca che mi consente di ritrovare in tempi di solito brevissimi il luogo fisico, cioè il libro, in cui reperire una delle tantissime informazioni che nel dettaglio sono state allegramente rimosse dai miei pochi neuroni.

Per cui, stamattina, prendendo in mano questo libro, sono andata subito a cercare questa poesia, che ricordavo essermi piaciuta moltissimo.

È di Nelo Risi, di cui, ça va sans dire, non ricordavo nulla.

Ho dunque riletto il breve profilo introduttivo alla scelta di versi che l'antologia di cui sopra proponeva e in una selva di frasi per me criptiche (Di qui anche il "gusto per la scheggia verbale ed il graffito" (Forti) e una tendenza alla specializzazione nell'epigramma che tuttavia è sempre pronto a convertirsi, per politicità immanente, in ciò che ancora Forti ha chiamato "ideogramma lirico" etc etc.  e ancora: Risi sa bene che  anche - o specialmente - il professionalismo e il compiacimento per il risultato possono essere, per un poeta, "alibi cinico della questione meridionale" - questa proprio mi sfugge...) sono venuta a sapere che è nato aMilano nel 1920 e che ha studiato medicina, che ha fatto la guerra in Russia e quando è tornato si è trasferito a Roma e che ha cominciato a scrivere poesie e a lavorare, come il fratello Dino, nel cinema.

A me basta così.
Mi basta leggere questi versi.
Il resto lo lascio ai critici - e agli studenti con più memoria di me.


****

Sotto i colpi


C'è gente che ci passa la vita
che smania di ferire:
dov'è il tallone gridano dov'è il tallone,
quasi con metodo
sordi applicati caparbi.

Sapessero
che disarmato è il cuore
dove più la corazza è alta
tutta borchie e lastre, e come sotto
è tenero l'istrice.



(da Pensieri elementari, 1961)

domenica 6 marzo 2011

Sunday Music: Franco da Catania - David Riondino

Ieri sera io e la Spia siamo andati a una festa.

C'era gente molto simpatica, interessante e garbata (persone normali, insomma, se così si può dire, anche se in questi tempi bui in cui ci tocca vivere le "persone normali" di questo genere sembrano essere in via di estinzione) ed un po' di amici cui vogliamo bene e che ci fa sempre un gran piacere vedere.

Io ho riso come un orco e mangiato e bevuto molto più di quanto avrei dovuto - la padrona di casa è una giapponese che ha imparato a cucinare come la Marietta dell'Artusi, mettendo a frutto quella determinazione da kamikaze, quella ricerca della perfezione e quella cura estrema del dettaglio che paiono essere caratteristiche imprescendibili di certo spirito nipponico. 

Ho naturalmente fatto qualche gaffe e, in un paio di occasioni, anche la figura della demente (un must, per me, nelle occasioni conviviali) e, più in generale, mi sono divertita da matti.

Per questo stamattina (benché sia lo spettro di me stessa; devo ricordarmi di non bere vino la sera, nemmeno sotto tortura) ho deciso che volevo portare qui la bella sensazione di leggera euforia che mi è rimasta appiccicata addosso da ieri sera.

Lo faccio con un video che, ogni volta che lo guardo, ha su di me effetti quasi catastrofici: mi prendono attacchi di fou rire ingovernabili - e quando rido, e rido forte, dicono che faccio addirittura un po' paura.

Si tratta di un omaggio, irriverente ma credo affettuoso, del grande David Riondino (un altro della lista dei possibili corni che potrei, nel caso, mettere alla Spia; tanto per confermarvi che in effetti i miei gusti in fatto di uomini possono essere considerati eccentrici) al grande Franco Battiato.

Franco Battiato è spesso oggetto di discussioni e arguti battibecchi tra me e la Spia, che non ne sopporta i testi astrusi e a suo giudizio pretenziosi, i motivi a volte troppo ammiccanti alla musica elettronica, la spocchia da intellettuale sofisticato e le arie da santone ("non che ne voglia dir male", commenterebbe Woody Allen).

Io l'ho invece molto amato quando ero più giovane e ancora oggi certe sue canzoni mi emozionano in modo indicibile. 
Quando la Spia me lo demolisce lo difendo a spada tratta, arrivando a sostenere tesi assurde e paradossali, ma per gioco.

Devo confessare, infatti, che non ho una grandissima simpatia per il personaggio (che mi sembra, d'altra parte, non si sforzi molto di suscitarne, ma magari mi sbaglio) e penso di essere obiettiva riguardo certi suoi lati indubbiamente "respingenti".

Detto ciò, guai a chi me lo tocca!
A meno che non si tratti, ovviamente, dell'irresistibile David Riondino, toscanaccio stralunato e dissacrante, sì, ma anche generoso e rifulgente di grande ironia e intelligenza.

D'altra parte uno che dà questa definizione dell'intellettuale - "una persona fisica, che comunica, che partecipa, che sa trasformare la sua esperienza in qualcosa che serva anche agli altri, che non trasforma il sapere in potere, che ha un'idea sentimentale del comunicare ed è alla ricerca di un nuovo linguaggio" (la citazione è presa dalla pagina a lui dedicata su Wikipedia) non può che conquistarsi il mio imperituro affetto e permettersi di fare questo e ben altro.

Buona domenica!

(se sentite in lontananza una risata da orco, non vi preoccupate: sono io).



venerdì 4 marzo 2011

Le città invisibili di Italo Calvino

La prima volta che ho letto questo libro ero all'università, e preparavo l'esame di letteratura italiana moderna e contemporanea.

In realtà non era tra i testi in programma (c'era invece Il sentiero dei nidi di ragno, ricordo), ma mi prese una tale smania di conoscere tutto quello che si poteva conoscere su Calvino che cominciai ad acquistare tutti i suoi libri e a leggerli.

Lo lessi con grande piacere, con la solita stupefatta e direi commossa ammirazione che ho sempre provato per questo gigante dall'intelligenza adamantina e spericolata.

L'ho ripreso in mano adesso, pregustando il piacere che avrei ritrovato, intatto, e anzi, aumentato dal passare del tempo - e l'ho trovato invece tra le letture più difficoltose e complesse della mia vita.

Non ho capito bene che cosa sia successo, ma non sono riuscita proprio a entrare dentro questo libro e ho passato gran parte del tempo sentendomi lasciata fuori, smarrita e sola come la piccola fiammiferaia, una sensazione non molto piacevole.

Persino le sottolineature di quella mia prima lettura non mi hanno offerto alcuna indicazione utile, per così dire.

Mi riecheggiavano nella mente certe conversazioni fatte allora, ai tempi dell'università, con amici studenti come me: tutti entusiasti di questo libro, tutti incantati, e mi chiedevo che cosa avessi potuto capire e amare, allora, di quello che oggi mi è parso tanto enigmatico e complesso ed ho capito che forse quell'entusiasmo adolescenziale doveva molto a quella sorta di ammirazione "programmatica" che da giovani a volte si sente per autori e opere di culto che "bisogna" amare - pena la condanna alla condizione di paria intellettuali.

Di sicuro esiste un momento giusto per leggere ogni libro e questo, evidentemente, non era quello giusto per questa rilettura.

Di sicuro negli anni sono assai cambiata e per quanto continui ad amare Calvino e la gran parte della sua produzione, pure sento di non avere ormai che un blando interesse per il suo lato più cerebrale e matematico e strutturalista, cui pure riconosco - chi potrebbe negarlo? - una grande, sofisticata e coltissima originalità e libertà e che tanto mi affascinava, invece, quando ero una giovane fanciulla.

Le cinque stelle, però, rimangono (avercene di Calvino!), anche solo per una delle poche pagine che mi hanno davvero emozionata e coinvolta, quella - per me meravigliosa - dedicata alla città di Raissa e per quelle poche righe a conclusione dell'intero libro, così drammaticamente attuali e vere anche adesso:

L'inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n'è uno, è quello che è già qui, l'inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l'inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all'inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio.




Italo Calvino, Le città invisibili, Mondadori 1993.

mercoledì 2 marzo 2011

Le poesie del mercoledì: Natività - Natale 1992 - Michele Serra

Su aNobii, tempo fa, ho scritto questo commento a uno dei libri cui sono più affezionata, Il ragazzo mucca di Michele Serra.

Dico sempre scherzando che ci sono pochi uomini per cui mi prenderei la briga di mettere le corna a mio marito, e che tra di loro c'è sicuramente Michele Serra.

Non so, a me piace qualunque cosa dica o scriva quest'uomo, dalle sue Amache su Repubblica, ai suoi testi narrativi, alle rare sue incursioni in tv, mi sembra riesca sempre a dire ciò che penso.
Quando lo sento parlare o lo leggo, che si tratti di  un intervento spiritoso o di un'opinione meditata su un importante fatto di cronaca, è come se fossi di fronte a una versione molto più intelligente, articolata e profonda dei miei stessi sentimenti, delle mie stesse opinioni.

Mi piace questo suo riuscire ad unire sempre complessità del pensiero e fluida chiarezza dell'esposizione, quel suo tocco personalissimo che spesso è ironico e arguto, ma si fa a volte accorato e vibrante di passione senza mai essere patetico o retorico.

Mi piace che abbia sempre delle idee sue, che si sente nascono proprio da lui, distillate dalla sua propria esperienza, trasformate dal suo vissuto e non semplicemente un rimasticamento di cose sentite altrove e parzialmente metabolizzate e fatte proprie.

La verità è che più che l'amante, se proprio fosse possibile, di Michele Serra io vorrei essere la figlia.

E visto che si parla di padri e di figli, ecco la poesia di oggi.
È lunga e densa, non una poesia "da blog", sicuramente, ma se la leggerete comunque ho la presunzione di credere che non ve ne pentirete.

****

Natività
Natale 1992


Grotta ospedale, asino medico, bue infermiere
(il fiato che ho visto io era grigiastro
fiato da quarantesima emme-esse)
la madre sconquassata dalle doglie
(per una primipara circa dieci ore)
i camici inzuppati di sudore
e finalmente dalle cosce sfianche
sbuca questo tipetto sconosciuto
né rosa, né paffuto, né bello
con la testa sformata dal passaggio
dentro quel famosissimo budello
che muove il mondo, dicono, ma ora
sembra un cratere di granata. Il bambinello
è sporco di sangue, di placenta, "interiors"
una specie di fagotto sbrodolato
ridicolo, imbarazzante. La scena
più che un presepe ricorda i filmati
di Quark sul parto dello gnù.
Annichilitti tutti (madre, padre, personale
medico e paramedico, nonostante l'abitudine)
da questo arrivo irrimediabile
che sovrasta, annienta, terrorizza
perché niente può impedirgli di uscire
a questo teppistello di natura
stupratore della sua genitrice-nutrice
e la cosa più pazzesca è la felicità animale
di fronte a questo mostro imprevedibile
cieco, brutto, informe, dai gesti sconnessi
inumano, assolutamente inumano
questo astronauta delle viscere
che atterra proprio là dove ti trovi
(e anche se scappi, non hai scampo
perché lui atterra dal di dentro, il tuo dentro).
Hai un bel non credere ai marziani
ma quando lo lavano (era ora) e gli guardi le mani
i piedi, il naso e tutto il resto
ti accorgi che non sei tu, è un altro:
un implacabile alieno.
E ancora non sai che ti succhierà la vita
la maledetta blatta, diventando carino
(per giunta) in proporzione diretta
a ciò che riesce a rubarti: il tempo,
il sonno, l'amore, la protezione, il cibo
lo fanno bello, lo formano, lo crescono.
Nemmeno l'ombra di un presepe
addolcisce la vera natività
la cui sconvolgente cruenza, infine,
è proprio ciò che ti impedisce di reagire,
meravigliato come un pastorello
davanti a questo livido macello
che non ha niente di divino né di casto
e proprio niente di rasserenante.
Finalmente qualcosa che è più forte di te
questo sì, questo è decisivo
un amore impossibile da trattare
un amore coatto, obbligatorio: 
finalmente, per la prima volta nella vita
qualcosa che non è da discutere.
La nascita è nemica del dibattito
per sua natura è poco democratica.
Non è un che fare. È un fatto.
Poi viene la Chicco: per contratto. 



(da Poetastro. Poesie per incartare l'insalata, 1993)