martedì 31 maggio 2011

Di alcune ragioni per festeggiare e di un buon modo di farlo o di un crumble alle albicocche

Buongiorno!

Un buongiorno davvero. Un giorno nuovo, di quasi estate, un giorno importante e soprattutto un giorno felice.

Ieri mi sono commossa, una cosa che mi succede spesso negli ultimi tempi. Con l'età i miei dotti lacrimali devono esser diventati ipersensibili, non so. 

Fatto sta che mi ritrovo spesso con gli occhi lucidi, e per motivi molto diversi; ma quasi sempre c'entra un sentimento strano, difficile da spiegare a parole.

Lo ha fatto per me, senza saperlo e tanti anni fa, Brunella Gasperini - autrice milanese da me molto amata e ancora poco conosciuta e sottovalutata - nel suo libro per me più bello, Una donna e altri animali, tenero e divertito omaggio - come si evince dal titolo - a tutti gli animali che hanno vissuto con la sua famiglia (e sono stati tanti). 

Tra gli amatissimi cani della sua infanzia c'era il Baffo, morto sulle montagne da vero partigiano insieme a tutti e quattro i fratelli maschi della Gasperini, l'unico in grado di sedare le frequenti risse che scoppiavano tra due dei suoi amatissimi "padroni", Fabio ed Ettore.

Guardando il Baffo aver ragione di quel viluppo umano di braccia e di gambe, "la gran coda fremente, la lingua penzoloni nel sorriso", la Gasperini spesso piangeva.
"Ma perché piangi, ochina?" chiedeva maternamente mia sorella.
"Non piango" rispondevo felice, gli occhi pieni di lacrime. Lacrime di eccitazione, di sollievo, di tifo sportivo, non so dire. So che dopo l'infanzia, una sola volta nella vita mi son venute le lacrime agli occhi in quel modo: quando abbiamo vinto il referendum sul divorzio.
Ecco, le lacrime che mi sono venute agli occhi ieri pomeriggio, quando ho aperto la pagina di Repubblica on line e ho capito che Pisapia ce l'aveva fatta, erano proprio di questo genere: di eccitazione, di sollievo e anche di tifo sportivo.

Chi capita da queste parti sa bene quanto io sia legata a Milano, quanto affetto provi per quella città e per alcune persone che la abitano, e non sarà sorpreso dunque di vedermi scrivere queste righe.

Stamattina sono qui, a festeggiare. A modo mio, ovviamente, cioè con qualcosa da mangiare, una ricetta che mi sembra molto adatta, per diverse ragioni.

Prima di tutto perché è un dolce, che per me è sempre il cibo celebrativo per eccellenza (insieme all'arrosto).
Poi perché è con le albicocche, che stanno per diventare frutta di stagione - manca davvero poco - e sono arancioni.
Infine perché è del caro Stefano, che a Milano vive e lavora, e di quella Milano che piace a me è parte e anche un po' incarnazione: una Milano che ai miei occhi ha sempre saputo essere una città seria ma aperta anche all'ironia, pragmatica ma non arida, con un senso sano e dignitoso e contadino, direi,  dell'etica e della decenza, capace di distinguere con lucido realismo la sostanza dai lustrini usati per abbellire il nulla o peggio, il brutto, il cattivo, l'indecente.

A quella città che c'è sempre stata e ha patito, sempre più disgustata e indignata, le manifestazioni via via più grottesche e volgari e proterve di un certo modo di intendere la politica e l'amministrazione della cosa pubblica e i rapporti umani, quella città che si è espressa attraverso un uomo nuovo come Giuliano Pisapia, che della gentilezza, della mitezza, della ricerca del dialogo e della ragionevolezza ha fatto i suoi punti di forza, quella città cui ha appartenuto e cui ha dato voce anche l'amata Brunella Gasperini (che se non fosse morta già da tanto tempo oggi sarebbe, ne sono certa, felice come me), offro simbolicamente questo crumble di albicocche e mandorle.

(P.S. Quella Milano che spero non sia respinta dall'orrida foto di questo post, sempre per il discorso della sostanza e dei lustrini etc etc. Almeno spero).

****

Crumble con albicocche e mandorle da English Puddings di Stefano Arturi  (praticamente verbatim)

(per 4-6 persone)

24 albicocche, tagliate a metà e snocciolate
1 cucchiaio di essenza naturale di vaniglia
2 cucchiai di zucchero

per il crumble mix

125 gr di farina
80 gr di zucchero (io ho usato il golden caster sugar del commercio equo e solidale)
un pizzico di sale
la buccia di un limone grattugiata
120 gr di mandorle tostate e tritate grossolanamente
150 gr di burro freddo a pezzetti

Preparate il crumble mix nel robot da cucina: mettete tutti gli ingredienti nella coppa e azionate brevemente (usate la funzione pulse) fino ad ottenere delle belle briciolone. 
Travasate il mix in una ciotola e mettete in freezer per 10' circa.

Preriscaldate il forno a 200° e imburrate una tortiera in cui le albicocche possano essere disposte in un unico strato.
Versateci sopra la vaniglia, spolverizzate con i 2 cucchiai di zucchero e distribuite qualche fiocchetto di burro.

Versate il crumble mix sulle albicocche, aiutandovi con un cucchiaio per far sì che il composto le ricopra interamente e uniformemente (attenzione ai bordi, che devono essere ben "sigillati").

Cuocete in forno per 20' poi portate la temperatura a 180° e proseguite la cottura per altri 20': il dolce deve essere ben dorato.

Tirate fuori il crumble e fatelo riposare per un quarto d'ora prima di servirlo: il topping nel frattempo si farà croccante.

Stefano dice: "Un inglese si offende se gli offrite il crumble senza la custard, io preferisco crème fraîche o yogurt greco scolato"
Io invece amo mangiarlo con panna fresca appena montata.

Evvivaaaaaa!

venerdì 20 maggio 2011

Di piloti automatici, di piccole accortezze e di una torta all'ananas

Ora, è evidente che in questa casa si continui a cucinare, e tutti i giorni, due volte al giorno.

Però, sempre per il discorso che facevo nel post precedente, sembra che ultimamente non ci sia più il tempo, per me, di dedicarmi ad una delle attività che in assoluto mi piacciono di più: sfogliare riviste e libri di cucina e farmi ispirare da qualche novità.

E dunque cucino con il pilota automatico, attingendo a quell'archivio esclusivamente mentale ("ah, allora siamo a cavallo", potrebbe commentare la Spia) in cui sono raccolte tutte le ricette che conosco e faccio da anni e potrei riprodurre praticamente ad occhi chiusi e a testa in giù, tanto per rendere l'idea.

Unica eccezione, ultimamente, questa torta all'ananas.

Un'eccezione per modo di dire, perché in realtà non è una ricetta nuovissima: è stata già testata e con risultati ambivalenti anni fa, nella mia cucina africana.
L'ambivalenza del risultato fu dovuta al fatto che innegabilmente la torta ci piacque, ma che gran parte del caramello speziato che la ricopriva fuoriuscì dalla tortiera durante la cottura e si sparse sul fondo del forno, creando uno strato bruciato della stessa durezza del granito e appiccicoso come l'asfalto che si scioglie in estate.

Sinceramente non ricordo come riuscii a ripulire quell'inferno: dev'essere stata un'esperienza talmente traumatizzante da indurre il mio inconscio a rimuoverla, perché venissero preservati un minimo equilibrio mentale e la voglia, in un futuro forse non troppo lontano, di riprovare l'esperienza.

Ci ho messo circa 6 anni per avere il coraggio di rifare questa torta e devo dire che nessun evento catastrofico e infausto si è abbattuto sulla mia cucina e sulla mia fragile psiche.
Per scongiurare il delirio è bastata qualche piccola accortezza, e del tipo - come dire - intuitivo, che cioè non richiede particolari elucubrazioni o lampi di genio.

Devo ricordarmi che spesso nella vita basta davvero solo questo: è un pensiero molto confortante. 

****

Pineapple, cinnamon & allspice cake da Falling Cloudberries di Tessa Kiros (con sostanziali modifiche che riguardano la quantità di burro e zucchero, nella versione originale per me stupefacenti, ecco)

(per una tortiera di 24 cm di diametro, possibilmente a cerniera)

miscela di spezie

5 chiodi di garofano
1 stecca di cannella
1/2 cucchiaino di allspice (una spezia giamaicana: io non l'avevo e, in modo del tutto arbitrario, ho invece aggiunto una grattata di pepe nero, una di noce moscata e un pizzico di zenzero in polvere)
la scorza di mezzo limone

sciroppo

succo di un'arancia
60 gr di burro
70 gr di zucchero di canna (io ho usato il Mascobado del commercio equo)
1 ananas fresco (io ho usato un ananas in scatola, scolato del suo succo: ho usato le fette necessarie a ricoprire il fondo della tortiera)

per la torta

125 gr di burro
125 gr di zucchero di canna
3 uova
250 gr di farina 0
2 cucchiaini di lievito per dolci
185 ml di latte


Preriscaldate il forno a 200°, mettete le spezie in un macinaspezie e poi tenetele da parte, foderate la tortiera con un foglio di carta di alluminio facendolo ben aderire alle pareti e al fondo; avvolgete anche l'esterno della tortiera con un secondo foglio di alluminio.

Preparate lo sciroppo: in un pentolino mettete il succo d'arancia, il burro, lo zucchero e 1/2 cucchiaino delle spezie che avete preparato e portate a bollore. 
Abbassate la fiamma e fate sobbolire fino a quando lo sciroppo non sia leggermente ispessito.

Se usate l'ananas fresco pulitelo e tagliatelo a fette; se siete degli sciattoni pigri come me aprite la lattina di ananas in scatola e scolate le fette: disponetele sul fondo della tortiera in un solo strato, cercando di creare - se siete degli esteti - anche qualcosa che potrebbe assomigliare a un disegno decorativo: con l'ananas non è difficile, se ci sono riuscita io ci può riuscire chiunque, forse anche le mie gatte.

Indi montate con le fruste elettriche il burro fino a ridurlo in crema, aggiungete lo zucchero, poi la farina e il lievito setacciati insieme. 
Aggiungete il latte, mescolate.
In ultimo, unite mezzo cucchiaino di spezie e amalgamate.

Versate sulle fette di ananas nella tortiera lo sciroppo che avete fatto bollire, poi l'impasto della torta.

Cuocete in forno per circa 10', poi riducete la temperatura a 180° e proseguite la cottura per circa 1 ora e 10': la torta dovrà essere bella dorata e il solito stecchino dovrà uscire asciutto.

Togliete la torta dal forno, aspettate che si raffreddi un poco, poi rovesciatela con grazia e disinvoltura sul piatto in cui la servirete, rimuovendo ovviamente il fondo della tortiera e il foglio di carta d'alluminio: attenzione perchè lo sciroppo sarà liquido e moooolto caldo - ve lo dico perché, come  si suol dire, ho già dato.

La torta è ottima con del gelato alla crema; alla Spia, però, piace così com'è.

Enjoy!

mercoledì 18 maggio 2011

Le poesie del mercoledì: I nomi delle strade di Nino Pedretti

Da diverso tempo sto meditando di rinegoziare - se così si può dire - il mio rapporto con il mondo della rete.

Ci sono molte occasioni in cui mi sento sopraffatta dalla considerevole mole di messaggi cui rispondere, blog da leggere, post da scrivere e mi chiedo se tutto questo bell'affannarsi dietro lo schermo del pc non possa e non debba essere in qualche modo ridimensionato.

So bene che son discorsi che si sentono fare da più parti e proprio per questo motivo rivendico il diritto di farli anche io: mi chiedo cioè, e so non trattarsi di una domanda originale, come sia possibile che nel giro di una manciata di anni la mia vita sia stata così tanto assorbita (felicemente assorbita, per lo più) da questo magico e in parte inquietante mondo della blogosfera.

Ultimamente prevale un certo qual sbigottimento di fronte a questa domanda e anche la tentazione, come dicevo in apertura di post, di ridimensionare - e in modo drastico - la porzione di tempo, energie, attenzione e cura che giornalmente dedico a questo mondo.

Perché sento il bisogno di fare altro, anche.

Per esempio di muover le gambe e di muovere le mani, e non solo sopra intorno accanto a questa tastiera; di avere più ore a disposizione per leggere libri invece che pagine web (per quanto interessanti, divertenti, serie, profonde, stimolanti, ricche di suggestioni e di idee esse possano essere) e soprattutto per parlare con chi nella mia vita ha una voce reale  e non solo "virtuale" e anche, in allegro sovrappiù, un corpo e una presenza fisica di cui godere con tutti i sensi.

Proprio in questi giorni, però, mentre nel mio testone mi rigiravo simili riflessioni, ho avuto anche l'ennesima riprova di quanto questo mondo, quello virtuale della rete,  possa anche essere, e spessissimo sia, veicolo e mezzo di begli incontri, di grandi scoperte, di nuove prospettive da cui guardare al mondo: tutte cose di cui si ha sempre bisogno, io credo - o quanto meno di cui io ho sempre bisogno - ed allora tutte le riflessioni di cui sopra si sono di nuovo offuscate e ingarbugliate e complicate e sono state dunque rimandate ad altro momento.

La cara Tiziana mi ha fatto scoprire, proprio qualche giorno fa, un poeta a me del tutto ignoto, che lei stessa ha scoperto grazie al blog di Paolo Nori.

Il poeta è Nino Pedretti, romagnolo di Santarcangelo, nato nel 1923 e morto nel 1981, autore di liriche in dialetto.
Paolo Nori, nel suo blog, ne ha presentate alcune e Tiziana me le ha segnalate, cosa di cui le sono molto grata.

Quelle scelte da Tiziana mi sono piaciute tutte (e ho già deciso di recuperare il volume dell'Einaudi che raccoglie i versi di Pedretti, benché non abbia capito se si tratti dell'opera omnia o solo di una selezione), ma in particolar modo mi ha colpito questa, che vi riporto oggi.

Mi piace, di questa poesia, il tono colloquiale, quotidiano e casalingo - ormai lo sapete, queste sono le atmosfere che più sento mie e nelle quali mi riconosco con maggiore slancio - e quell'immagine finale che mi parla di un modo di stare al mondo apparentemente semplice e facile e non complicato, ma che è in realtà un modo che richiede una precisa scelta, e un impegno e una certa costanza e il desiderio di non perdere mai di vista l'essenziale, il necessario, e di goderne, con grazia, consapevolezza, riconoscenza e naturalezza.

Una bellissima lezione, che cerco di fare mia giorno dopo giorno.

****

I nomi delle strade


Le strade sono
tutte di Mazzini, di Garibaldi,
son dei papi,
di quelli che scrivono,
che dan dei comandi, che fan la guerra.
E mai che ti capiti di vedere
via di uno che faceva i berretti
via di uno che stava sotto un ciliegio
via di uno che non ha fatto niente
perché andava a spasso
sopra una cavalla.
E pensare che il mondo
è fatto di gente come me
che mangia il radicchio
alla finestra
contenta di stare, d’estate,
a piedi nudi.


(da Al vòusi, Einaudi 2007)

domenica 15 maggio 2011

Sunday Music: Sparring partner - Paolo Conte

Ogni volta che ascolto Paolo Conte mi chiedo come si possa non amarlo.

Dal punto di vista musicale, è vero, non posso esprimere un'opinione meditata: sono un'ignorante che non sa neanche leggere le note, ascolta solo ciò che le piace e non ha una formazione musicale né tecnica né artistica, ma mi pare innegabile che l'avvocato abbia non solo uno stile tutto suo (uno stile che, è evidente, personalmente trovo irresistibile), ma crei anche musica di altissima qualità.

Quanto ai testi, vogliamo parlarne?
Con quale felice grazia quest'artista riesce a costruire una storia, un personaggio, un sogno. Ascoltando le sue canzoni ci si ritrova in balere, bar di provincia, isole dei mari del Sud, alberghi equivoci o di gran lusso: ascoltare Paolo Conte per me significa anche e soprattutto viaggiare e viaggiare in compagnia di uomini e donne straordinari, affascinanti, enigmatici, seducenti, indimenticabili.

Chi ama questo artista schivo, raffinato e al tempo stesso popolare, non può non deliziarsi poi di fronte alle sue spericolate, personalissime invenzioni linguistiche: qualche mese fa la cara Grazia ha dedicato uno dei suoi elegantissimi e divertentissimi post alle famose "caramelle alascane" di Boogie

E anche non volendo parlare della passione giocosa e dadaista che evidentemente Conte ha per le parole e che può piacere o non piacere, non è comunque straordinariamente attraente la soffusa malinconia che avvolge quasi ogni pezzo e fa da contraltare ad un intelligente, spesso perfido e sottile umorismo? 

A me, per esempio,  basta ascoltare quella strofa de La ricostruzione del Mocambo, quella che dice:

Ora convivo con un'austriaca
ci siamo comprati un tinello maròn
ma la sera tra noi non c'è quasi dialogo
io non parlo il tedesco, scusami, pardon.

per sentirmi immediatamente di ottimo umore.

Anche nella canzone di oggi, scelta quasi per caso solo perché ultimamente ne sono quasi ossessionata, non è una meraviglia quella "calma tigrata e segreta"? Quante associazioni, suggestioni, immagini, ricordi evocano queste parole misteriose, parole accostate in modo inedito e inaudito che però, non appena siano cantate dalla voce roca e strascicata di Conte, diventano effettivamente perfette nel descrivere un momento, un'immagine, una sensazione, al punto che ci si trova a sorprendersi del perché nessuno mai, prima di lui, abbia pensato proprio a quelle parole per descrivere proprio quella cosa lì.

E poi, da quando ho sentito per la prima volta questa canzone, sogno di dire a qualcuno: "Sei un macaco senza storia". 
Lo so che non è cosa gentile da dirsi, ma non posso fare a meno di immaginarmi pronunciare questa frase, con voce roca e indifferente e gli occhi bistrati parzialmente offuscati dal fumo di una sigaretta infilata in un lunghissimo bocchino di lacca cinese: una maliarda in perfetto stile Paolo Conte. 

Buona domenica!





mercoledì 11 maggio 2011

Le poesie del mercoledì: da Poesie per un gatto di Vivian Lamarque

Ultimamente, nelle mie mensili esplorazioni degli scaffali di libri di poesia delle biblioteche di Firenze, mi sono imbattuta in due volumi interessanti.

Il primo è Poesie per un gatto, di Vivian Lamarque, un volumetto che raccoglie poche decine di brevi componimenti scritti, indovinate?, per un gatto, il suo Ignazio (nome bellissimo per un felino, io trovo, anche se ahimé inevitabilmente associabile a un tristo figuro ben noto per le sue intemperanze linguistiche e non solo).

Ho detto altrove quanto sia affezionata a questa poetessa e dunque non mi ripeterò; anche se questo volume che al momento è qui, sulla mia scrivania, accanto al portatile, per certi versi - è proprio il caso di dirlo - mi ha delusa: benché la voce sia indubitabilmente quella di Vivian Lamarque (una voce che, lo ripeto, amo moltissimo), non tutte le poesie mi sono sembrate felici, scritte in stato di grazia, e ho avuto a volte l'impressione che esse siano in buona parte il frutto di un contratto editoriale, un'impressione in genere sgradevole per un lettore, di qualunque libro o autore si parli, ché si sente di leggere non il distillato di un'esperienza umana ma il risultato - magari anche di qualità - di quello che prima di tutto è e rimane un affare economico.

Detto ciò, vi ho trovato nondimeno alcune chicche: sono per lo più componimenti brevi brevi, che probabilmente non diranno granché ai lettori non gattari (con i quali mi scuso e ai quali do appuntamento, se vorranno, ad altro post), dialoghi teneri e buffi tra un'umana e il felino che si degna di condividere con lei una casa e un'esistenza.

Chi ha la ventura di avere questo stesso destino - quello cioè di ospitare un gatto in casa propria o, per meglio dire, di essere ospitato nella casa di un gatto, perché è così che stanno realmente le cose, siamo noi gli ospiti e lui il grazioso padrone di casa - non potrà non sorridere leggendo simili versi e magari, preso da irresistibile empito di tenerezza, si alzerà dalla poltrona e andrà a carezzare una certa testolina grigia e morbidissima, mollemente e elegantemente appoggiata su un cuscino blu, ricevendo in cambio, nel migliore dei casi, un breve verso di benevola accondiscendenza, come a dire "Mi fa piacere tu venga qui ad omaggiarmi, com'è giusto che sia, ma ora, per cortesia, vorrei tornare a riposare", e nel peggiore uno sguardo di muta, interrogativa indifferenza (adesso mi è andata bene, la gatta Linda ha apprezzato l'omaggio).

Trattandosi di poesiuole brevi brevi ve ne propongo un piccolo assaggio.

****

Nottetempo ho innaffiato
un assetato balcone altrui furtivamente.
Mi osservi serio
disapprovi palesemente.  

**** 

Sei quasi commovente 
quando mi segui per niente
quando ti sposti di stanza
solo perché io mi sposto di stanza
devi allora da capo cercare
nuovo luogo e modo di fare ciambella
una nuova posizione
è questo il tuo discreto modo
di dare dedizione.

****

Ipnotizzato da annoiata passione
fissi da ore la lavatrice in funzione
è la tua televisione.


****

E l'altro libro? Ne parliamo la prossima volta.


Vivian Lamarque, Poesie per un gatto, Mondadori 2007.




domenica 8 maggio 2011

Sunday Music: No Pressure over Cappuccino - Alanis Morissette

Non posso non ascoltare questa canzone di Alanis Morissette (e le altre contenute nel bel cd da cui è tratta, registrato durante un suo concerto acustico per MTV) senza pensare agli anni che io e la Spia abbiamo trascorso a Cipro.

Sono stati anni per certi versi difficili e per altri eccitanti, sicuramente strani, in cui abbiamo visto luoghi, conosciuto persone e fatto molte cose che non avevamo mai visto, conosciuto e fatto, con l'entusiasmo e la curiosità, ma anche l'ansia e la paura (e a volte il terrore, diciamolo), delle prime volte. Sono stati anni formativi,  sotto tutti i punti di vista, forse gli anni più importanti per me, quelli in cui ho cominciato a capire chi sono, che cosa voglio, di che cosa ho davvero bisogno.
   
Nella mia memoria associo quegli anni, soprattutto i primi, ad un mio personale senso di inadeguatezza provato di fronte praticamente a qualunque nuova esperienza. 
Ricordo per esempio quanto sia stato paralizzante, all'inizio, ritrovarmi in un luogo in cui nessuno, a parte la Spia, parlava la mia lingua e quanta fatica abbia dovuto fare per imparare a comunicare e a esprimermi per essere in grado di ascoltare e capire il mondo intorno a me e perché quel mondo potesse, a sua volta, ascoltarmi e capirmi.

Allora era forse troppo presto per esserne consapevole, ma più tardi ho riconosciuto il grande dono che mi è stato fatto in quegli anni: essere obbligata ad uscire dal mio piccolo mondo per ritrovarmi catapultata in un altro, estraneo e sconosciuto, essermi sentita tanto inadeguata di fronte a tutto quel nuovo, è stato proprio ciò che mi ha spinto a crescere, ad ampliare i miei orizzonti (umani, culturali, intellettuali), ad acquisire conoscenze che non avevo e che oggi sono la mia gioia, ad aprire il guscio in cui avevo vissuto fino ad allora, a cominciare ad essere la persona che voglio e posso essere.

La ragazza che in un pomeriggio rovente di giugno lasciò quell'isola era molto diversa da quella che, quattro anni prima, ci era arrivata; insieme a un marito appena sposato, tre gatti e un imprecisato numero di valigie e borse, portava con sé anche un prezioso bagaglio: l'esaltante consapevolezza che la fragilità può diventare un punto di forza, che una mancanza può trasformarsi in stimolo costruttivo e creativo e che la vita non si ferma mai e noi con lei.

Non credo che sia andata così, ma nel mio ricordo quella ragazza, mentre si avviava sulla pista di decollo, pronta a volare dall'altra parte del pianeta, canticchiava proprio i versi di questa canzone.




mercoledì 4 maggio 2011

Le poesie del mercoledì: Pio di Primo Levi (e un pensiero di Marguerite Yourcenar)

Anche oggi una poesia di Primo Levi che amo molto, in cui si dà voce al mondo "altro", non umano, ma animale.

Stavolta a parlare non è un mollusco, ma un bue, e nelle sue parole risuona l'ironia dolente di Levi, quella sua brusca, malinconica sensibilità - di cui parlavo la volta scorsa, qui - che avvertiva con chiarezza il dolore della vita, la sofferenza che pare connaturata ad ogni esistenza. Una sofferenza che non esclude la possibilità di gioia, redenzione, senso, ma è alle sue spalle, sempre, e a volte pare offuscarla quasi del tutto, fatalmente.

Questo bue che parla è uno dei tanti animali sacrificati all'appetito dell'uomo e ridotti a carne da mangiare. Nelle sue parole c'è soprattutto lo sdegno feroce ma impotente di chi si è visto, oltre che macellato, snaturato e violentato nella sua più intima essenza; l'effetto tragicomico della prima parte della poesia nasce proprio dall'indignazione di un essere vivente che, per natura libero e possente, è stato non solo ucciso, ma anche trasformato, per svenevole sentimentalismo, in un emblema bucolico di bontà e arrendevolezza. 
Come a dire, oltre al danno la beffa.

Leggendo questa poesia non ho potuto fare a meno di ripensare ad un brano di un libro cui sono affezionatissima, in modo morboso e quasi feticistico, Ad occhi aperti, una lunga intervista che Matthieu Galey ha fatto a Marguerite Yourcenar nel 1980 (in Italia pubblicato da Bompiani), un libro preziosissimo per chiunque voglia avvicinarsi a questa straordinaria scrittrice, una gioia da leggere, una miniera di riflessioni, spunti, meditazioni, storie (poi, magari, consiglio anche di leggere la biografia sulla Yourcenar di Josyane Savigneau, edita da Einaudi, per riequilibrare l'immagine un po' troppo perfetta e agiografica che si tende a farsi di lei leggendo il libro di Galey)

Ma per tornare a questo brano, ve lo riporto qui, prima della poesia di Levi, perché mi sembra sia il suo miglior commento.

Come mai questo interesse per gli animali?
 (...) È già un grande arricchimento accorgersi che la vita non è contenuta soltanto nella forma in cui noi siamo abituati a vivere, che si possono avere delle ali al posto delle braccia, degli occhi otticamente meglio dei nostri, delle branchie invece dei polmoni. Poi c'è il mistero delle migrazioni e delle comunicazioni animali, la genialità di certe specie (il cervello del delfino che è uguale al nostro ma capta certamente, del mondo, un'immagine diversa da quella che ce ne facciamo noi), il modo in cui l'animale si è adattato, nel corso di milioni di secoli, ad ambienti naturali in perpetuo mutamento, e ancora si adatta, o si rifiuta di farlo e muore, a un mondo che noi abbiamo guastato.
Inoltre, c'è sempre, per me, quell'aspetto sconvolgente dell'animale che non possiede niente, tranne la propria vita che così spesso gli prendiamo. C'è quell'immensa libertà dell'animale, chiuso sì nei limiti della sua specie, ma che vive esclusivamente la sua realtà di essere, senza tutto il falso che noi aggiungiamo alla sensazione di esistere. Per questo la sofferenza degli animali mi commuove tanto. Come la sofferenza dei bambini: vi sento l'orrore del tutto particolare del coinvolgere nei nostri errori, nelle nostre follie, degli esseri totalmente innocenti. Quando ci arriva addosso qualche calamità possiamo sempre dire a noi stessi che abbiamo la nostra intelligenza per trarci d'impaccio e, fino a un certo punto, è vero; possiamo sempre dirci, ed è pure tristemente vero, che siamo di fatto implicati, che tutti abbiamo, fino a un certo punto, fatto del male, o l'abbiamo lasciato fare, che è ancora peggio. Mentre rispondere con la brutalità alla totale innocenza del bambino o dell'animale, che non capisce che cosa gli stiamo facendo, è un crimine veramente ripugnante.

Ed ora ecco la poesia.

****

Pio

Pio bove un corno. Pio per costrizione,
Pio contro voglia, pio contro natura,
Pio per arcadia, pio per eufemismo.
Ci vuole un bel coraggio a dirmi pio
E a dedicarmi perfino un sonetto.
Pio sarà Lei, professore,
Dotto in greco e latino, Premio Nobel, che
Batte alle chiuse imposte coi ramicelli di fiori
In mancanza di meglio
Mentre io m'inchino al giogo, pensi quanto contento.
Fosse stato presente quando m'han reso pio
Le sarebbe passata la voglia di fare versi
E a mezzogiorno di mangiare il lesso.
O pensa che io non veda, qui sul prato,
Il mio fratello intero, erto, collerico,
Che con un solo colpo delle reni
Insemina la mia sorella vacca?
Oy gevàlt! Inaudita violenza
La violenza di farmi nonviolento.

18 maggio 1984


(da Ad ora incerta, 1984)



domenica 1 maggio 2011

Sunday Music: La storia - Francesco De Gregori

Per questa domenica ho cercato a lungo una canzone che parlasse di lavoro.

In un momento oscuro come questo, in cui il lavoro è ancora - nel migliore dei casi - spesso uno strumento di asservimento invece che di liberazione e - nel peggiore - un lusso che non ci si può permettere, volevo una canzone che parlasse soprattutto del suo lato salvifico, del senso pieno che può dare a una vita intera quando venga svolto con responsabilità, onestà e magari, se si è fortunati, anche con passione e amore, di quanto esso possa dare all'individuo la misura di sé, delle proprie capacità, dei propri talenti e l'inebriante consapevolezza di dare il proprio contributo, unico, insostituibile, prezioso alla realtà di tutti.

Ma per quanto mi sia sforzata, non mi è venuta in mente nessuna canzone che facesse al caso e, anzi, invito chiunque passi di qui a suggerire, segnalare, indicare: ne sarò felice.

Mi tornavano in mente, però,  L'abbigliamento del fuochista e La ragazza e la miniera di Francesco De Gregori, due perle che parlano entrambe di emigrazione, la nostra, quella che appartiene alla storia recentissima di questo paese (anche se adesso c'è chi ha la sfrontatezza di essersene dimenticato e di respingere non solo chi viene qui a cercar lavoro - come abbiamo fatto noi per un secolo in altri paesi - ma anche chi scappa da violenze, guerre, tirannie folli e disumane, negandogli così non il diritto ad una vita migliore, ma il diritto alla vita tout court) e parlano anche di lavoro, ma di quello duro e pesante e ingrato che strema il fisico e avvilisce lo spirito e non aiuta chi lo svolge ad avere un senso di sé, a dire con pacato orgoglio: "Questo è il mio lavoro, questo sono io".

E allora, rigirandomi nel testone queste riflessioni sull'emigrazione e il lavoro, mi è venuta in mente quest'altra gemma di De Gregori, forse una delle sue canzoni più belle - ma quante ce ne sono! - che con il lavoro e con questo giorno in cui si vuole celebrarlo sembra non entrarci  niente e invece c'entra eccome, e lo dice subito, nel primo verso.

Quel verso in cui si dice che la storia siamo noi, perché noi siamo la nostra storia - individuale, personale, familiare - ma siamo anche la storia di tutti gli altri, e che è una pia illusione o un prodotto della nostra malafede convincerci del contrario e sentire dunque di avere il diritto di  disinteressarci di ciò che accade intorno e attraverso di noi.

E allora in questa domenica in cui si parlerà di lavoro, e si urleranno e canteranno parole sacrosante di protesta, e si cercherà di non dimenticarsi che il lavoro è un diritto, come quello alla casa e all'istruzione e a una vita dignitosa in cui si possano esprimere le proprie idee e il proprio dissenso in modo civile, e che ci sono battaglie che sono davvero di tutti, nessuno si senta escluso, mi sembra proprio che questa canzone sia perfetta.

Buona domenica e buon lavoro a tutti.