Poi, grazie ad un'amica, c'è stato questo incontro, seguito da un improvviso innamoramento.
E l'ho capito subito che Ippolito Pizzetti mi sarebbe piaciuto, fin dalle prime pagine di questo libro, che raccoglie alcuni dei tanti articoli di giardinaggio da lui scritti per l'Espresso e per altre riviste e quotidiani.
Mi è piaciuto prima di tutto il fatto che Pizzetti avesse capito relativamente tardi quale grande passione avesse per il mondo delle piante e che gli si fosse avvicinato gradualmente, in un percorso assolutamente non lineare, partendo da una cattedra di assistente di Natalino Sapegno all'Università La Sapienza e passando per molto lavoro editoriale (svolto in molteplici ruoli: come traduttore, come direttore di collane, come consulente).
L'amore per il verde si fece in Pizzetti prima interesse per la storia dei giardini (e bellissime sono le pagine dedicate a quelli tedeschi o quelle in cui racconta la storia dei Kew Gardens a Londra, dove si recava in pellegrinaggio come gli antichi Greci a Delfi, secondo una sua felice espressione), poi passione progettuale: pur senza avere una formazione tecnica, divenne in poco tempo un famoso e apprezzatissimo architetto di giardini - la laurea in architettura gli fu data, honoris causa, solo nel 2004, tre anni prima della sua morte.
In questo libro si trovano molti consigli pratici su come coltivare cosa e dove: consigli presentati in poche, spicce istruzioni, oppure, al contrario, nascosti in divagazioni dal vasto respiro elegiaco, in meditazioni filosofiche, in invettive amarissime.
Soprattutto si trovano bellissime pagine di prosa (e tra tutte, le più belle per me sono quelle de L'incontro con l'indeterminato o di Oziorrinco è morto), piene di passione, impeto, ironia, sarcasmo, trasudanti raffinata e ampia, metabolizzata cultura, ma anche soffuse di nostalgiche memorie d'infanzia, pervase di una tenerezza ruvida e accorata per quella natura sempre più violentata dall'uomo, sempre meno compresa, sempre più considerata aliena.
Qui, come e quando posso, cerco di dare delle informazioni: su piante sconosciute, sul modo di coltivarle, su come reagiscono in giardino.
Ma chi segue i miei scritti sa bene che non è questo soltanto che mi spinge a scrivere; ma i mille modi, le mille aperture da trovare nel rapporto con la natura, che per moltissimi è andato perduto, o non è mai esistito: riuscire a indicarlo anche agli altri. Non è un rapporto facile, come non è facile nessun rapporto, umano o non umano che sia; ma è uno di quelli, per me almeno, che rendono la vita degna di esser vissuta; e che mi sono altrettanto necessari per esistere dell'aria e dell'acqua. Sono incapace di sentirmi, nella mia natura di uomo, come qualcosa di staccato dal mondo vegetale e animale.
Se Ippolito Pizzetti mi avesse conosciuta, mi avrebbe sicuramente trovata insopportabile: mi sono infatti riconosciuta in pieno nel ritratto, tra il patetico e il ridicolo, dell'aspirante giardiniere da balcone, ignorantissimo e tremebondo, che desidera, spasmodicamente desidera, sviluppare un qualche contatto affettuoso con quel mondo vegetale che insieme lo attira e lo inquieta, e che però è terrorizzato, pressoché costantemente terrorizzato, dalla possibilità di provocare ogni genere di disastro, perché con quel mondo non ha sviluppato fino ad ora la minima confidenza, e dunque è pieno di quesiti angosciosi su come avvicinarglisi.
Per esempio quanto, come e quando bisogna innaffiare le piante?
Di solito le domande di questo genere mi imbarazzano (quando non mi irritano) perché mi rendo conto che il mio interlocutore è (in quel momento almeno) le mille miglia lontano dall'aver capito come le piante vadano accostate; che si tratta di una persona, poveretta, impacciata, tutta legata, non libera affatto, timorosa nel proprio rapporto con la natura e mi auguro in cuor mio che il praticare le sue quattro piante possa in qualche modo indicarle la via.
Sì, in queste poche righe ci sono tutta, hélas.
Faccio parte di quel numero di esseri umani che in mezzo alla natura (che sia un bosco, un giardino o le piante in vaso di un balcone) sono presi sì da incantamento, ma insieme da ansia e inquietudine e timori ancestrali.
Perché noi (...) entriamo nel bosco, e lo vediamo carico di ombre, di bronchi, di ramaglie; l'erta è piena di ostacoli e di sassi, il prato impedisce il cammino coi rovi e con le spine, e dovunque l'angue minaccioso attende in agguato; e poi quant'altri pericoli ci sovrastano, tutto intorno è materia indistinta, il male peggiore è l'indistinto che regna sovrano; non sappiamo i nomi, non sappiamo le forme, ci mancano le parole, precipitiamo nel pozzo della non cultura.
Manca però, a questo mio fedele ritratto, la fiducia incrollabile e forse idiota nella possibilità di diventare, un giorno, un essere umano meno a disagio a contatto con la natura, meno spaventato all'idea di ucciderla per colpa della propria ignoranza.
Con un simile maestro, e con tutti quelli che incontrerò per la via (sto ovviamente accumulando una piccola biblioteca sull'argomento), credo di avere buone speranze.
Ippolito Pizzetti, Pollice verde, BUR 2006.