venerdì 28 agosto 2009

Patrimonio. Una storia vera di Philip Roth


Ancora una volta, Roth il mago, Roth l'incantatore di serpenti è riuscito ad avvincermi a sé, a ipnotizzarmi fino alla smemoratezza di ogni altra cosa: quando tra le mani ho un suo libro, finisce sempre così. Vengo completamente, inesorabilmente, irresistibilmente risucchiata in qualunque dimensione, storia, atmosfera lui abbia deciso di creare con le parole.

La storia della malattia e della morte del padre, figura complessa e amatissima, è raccontata con partecipazione, commozione, senso dell'umorismo, ironia ed intensa umanità.

Impossibile non riconoscersi nel Roth figlio e non riconoscere nel Roth padre il proprio padre; impossibile non ritrovarsi in quei sentimenti ambivalenti, ancestrali, viscerali che, come al solito, l'autore riesce a districare, analizzare e descrivere con incredibile maestrìa.

Inevitabile la commozione che si prova di fronte a certi gesti tenerissimi e discreti con cui il figlio accudisce chi in passato si è preso cura di lui, inserendosi consapevolmente in quell'eterna, antichissima ruota per cui nella vita tutto torna e tutto si ripete, anche se in forme e modi diversi.

Una delle frasi in cui più intensamente ho sentito di poter riconoscere l'ombra di mio padre è stata questa:

Non era un padre qualunque, era il padre, con tutto ciò che c'è da odiare in un padre e tutto ciò che c'è da amare.

Ma forse, questo, l'avrà pensato chiunque abbia letto questo ennesimo capolavoro di Roth.


Philip Roth, Patrimonio. Una storia vera, Einadi 2007. Traduzione di Vincenzo Mantovani.


giovedì 27 agosto 2009

Del potere salvifico dei libri, del ricominciare una nuova vita e di una torta al limone


C'è una bella frase che Simone de Beauvoir fa pronunciare alla sofisticata protagonista di un suo racconto: "I libri mi hanno salvato dalla disperazione".

Per anni ho pensato che queste parole potessero davvero riassumere, in modo se vogliamo un po' enfatico e spudorato, ma autentico e conciso, il ruolo, l'importanza, la necessità della presenza dei libri nella mia vita.

Continuo a pensarlo, benché, a dire il vero, la mia esistenza negli ultimi tempi sia meno complicata che in passato (e sia reso grazie agli dei per questo, o a chi per loro).
Adesso, la citazione della de Beauvoir potrebbe suonare, per essere ancora un mio motto, "I libri mi hanno anche salvato dalla disperazione".
Cioè, tra le altre cose, oltre all'avermi deliziata, fatta pensare e riflettere e maturare e cambiare, fatta divertire e sconcertata, intrattenuta e ipnotizzata, fatta indignare e commuovere, ridere fino a cader dal divano e spaventare i gatti..., tra le altre cose, dunque, mi hanno anche salvata dalla disperazione.

Forse l'ultimo libro che ho investito di cotanta funzione salvifica è stato How to be a Domestic Goddess della mia cara Nigella Lawson.

Gli sono particolarmente affezionata, perché è entrato nella mia vita in un momento difficile e di transizione, in cui, per l'ennesima volta, dopo quattro anni vissuti all'estero, mi ero ritrovata a traslocare in un altro paese straniero, ancora più lontano dall'Italia, con la prospettiva di dover ricominciare tutto daccapo: ambientarmi, trovare una casa, farmi delle amicizie e ricostruirmi un panorama quotidiano riconoscibile, familiare, a mia misura.
Insomma, vivere.

I primi mesi furono molto difficili; li trascorsi, praticamente sola, in un orrido complesso residenziale composto da quelle che l'agente immobiliare aveva definito 'villette di charme' e che, nella realtà, erano orrendi bunker cubici di cemento armato e dai colori deprimenti (la nostra era di uno squallidissimo bordeaux virante al viola, quello che a Milano si direbbe trasü de ciucc), in mezzo ad aiuolette spelacchiate e inaridite.

Gli interni erano, se possibili, ancora più avvilenti: moquette di un'imprecisata sfumatura di verde ovunque (e dove non c'era, linoleum a enormi scacchi bianchi e neri), tende e copriletti in una pesante stoffa sintetica color salmone, quadri alle pareti a soggetto sahariano.
Ricordo che faceva molto freddo e che passavo intere mattinate senza scambiare parola con essere umano, seduta rigida e impettita sull'orrido divano in finto rasatello color crema, attendendo l'arrivo della Spia come immagino un cane debba attendere quello del padrone: con impazienza, disperazione e una grandissima ansia.

Una sera, la Spia mi portò a cena nel ristorante di un grande albergo, dove doveva incontrarsi con una signora italiana che lavorava per la Banca Mondiale ed era di passaggio in quella città.
La signora era deliziosa, aveva una conversazione brillante e modi affabili e familiari. Cominciammo a parlare di cucina, essendo entrambe cuoche alle prime armi, inesperte, ma assai volenterose di migliorare. Mi disse che aveva ricevuto in regalo un libro fantastico, che era appunto How to be a domestic goddess, che le piaceva molto, anche se le torte proposte, mediamente, erano per lei micidiali per quantità di burro, zucchero e ogni genere di grasso conosciuto in natura (e non). Aggiunse però che, in occasione di una festa di bambini, si era cimentata nella creazione della torta che, in tutto il libro, le era sembrata la più 'innocua' (si espresse proprio così), il banana bread, e che era rimasta piacevolmente stupita dal fatto che era stata spazzolata in un batter d'occhio.

La serata fu piacevole; per me, anche più che piacevole.
Fu una boccata di ossigeno dopo due mesi di cupa solitudine e smarrimento, cui la Spia - che aveva di fronte il mio compito, quello cioè di ambientarsi in un luogo nuovo, esattamente come me, più quello, che a me era risparmiato, di abituarsi anche ad un capo nuovo, un ufficio nuovo, colleghi nuovi - non poteva umanamente offrire rimedio.

La mattina dopo mi feci accompagnare da un taxi sgangherato e che produceva cigolii sinistri e assai poco rassicuranti nel centro commerciale dove mi avevano detto esserci una libreria abbastanza fornita. Chiesi del libro, ne trovai altri, sempre della Lawson. Li comprai tutti, spendendo una cifra vergognosa, probabilmente tre/quattro volte lo stipendio mensile del gentilissimo commesso che mi servì (e la cosa mi fece star male, mesi dopo, quando cominciai ad aprire gli occhi sulla realtà che circondava la mia personale disperazione e dunque, in parte, a guarirne). Tornai nel bunker di cemento armato e cominciai a leggere.

Iniziai da How to be a Domestic Goddess, perché era quello di cui la gentile ospite di quella sera mi aveva parlato e perché sentivo che leggere di torte e dolci e pizze rustiche mi avrebbe messo di buonumore.

Non mi sbagliavo. Lessi per ore, deliziandomi della prosa arguta, brillante, barocca e pomposa della Lawson, divorandomi le fotografie e pregustando l'arrivo del container in cui erano tutti i miei attrezzi di cucina (e che in quel momento, a quanto ne sapevo, era al largo della Somalia; e il solo pensiero mi riempiva di incontenibile angoscia).

La prima torta che feci, qualche mese dopo, rientrata in possesso di tutte le mie cose e in una casa nuova che amavo molto con una bellissima cucina, fu il banana bread. Un po' per omaggiare la signora di quella sera, un po' perché la stessa Nigella lo consiglia come punto di partenza per chi sia alle prime armi.

Lo portai a un sofisticatissimo pranzo organizzato dalla Diplomatic Spouses Association, cui mio malgrado dovetti andare, e vidi con una certa soddisfazione che le signore eleganti e ingioiellate, che insieme a me sciamavano come api sotto il portico della residenza dell'ambasciatore tedesco, lo gradivano molto. Ne rimase una fetta (quel che la mia amata suocera chiamerebbe, con un'espressione che temo non sarebbe stata molto apprezzata in quel contesto, il caghino), che portai a casa, alla Spia.

La seconda torta che feci è quella che ho fatto anche oggi pomeriggio: il lemon-syrup loaf cake, vale a dire, una torta inzuppata di sciroppo di limone. Un classico. La Spia ne va matta. Io anche.

Ecco la ricetta, immutata:

125 gr. burro
175 gr. zucchero
2 uova grandi
scorza grattugiata di un limone
175 gr. di farina autolievitante
pizzico di sale
4 cucchiai di latte

per lo sciroppo:

il succo di 1 limone e 1/2 (circa 4 cucchiai, vale a dire 60 ml.)
100 gr. di zucchero a velo

Preriscaldate il forno a 180 °.

Imburrate e infarinate uno stampo da plum cake 23x13.

Lavorate il burro con lo zucchero, aggiungete le uova (una alla volta), la scorza del limone, quindi il sale e la farina, amalgamandola bene. Infine, unite il latte.

Versate il composto nella teglia e infilate quest'ultima in forno, dove la lascerete per circa 45'.

Mentre la torta cuoce, mettete a fuoco basso in un pentolino il succo di limone e lo zucchero, aspettate che questo si sciolga, mescolando piano.

Appena la torta sarà cotta, tiratela fuori e con uno stecchino lungo (da spiedino), o con un ferro da calza (magari dopo averlo lavato e asciugato), bucherellatene l'intera superficie. Versate dunque lo sciroppo e aspettate che la torta sia del tutto fredda, prima di rimuoverla dalla teglia. Altrimenti vi accadrà quello che sempre accade a me: che si sbriciolerà tutta, perché è zuppa di dolce sciroppo al limone.

Ho fatto questa torta infinite volte, ogni volta mandando un silenzioso ringraziamento a quella signora che non ho più rivisto e che fu l'involontaria tramite di una bella scoperta e della conferma, per me, di una grande verità: che i libri, davvero, possono salvare dalla disperazione.
E quelli di cucina, a volte, anche di più.

Enjoy!

lunedì 24 agosto 2009

Istanbul di Orhan Pamuk


Un'autobiografia degli anni dell'infanzia e della giovinezza di Pamuk, ed insieme un omaggio appassionato e malinconico alla città in cui l'autore è nato e cresciuto, e dalla quale non è mai andato via, in un processo di identificazione assoluta per cui, parlando di sé, egli parla della sua città e viceversa.
Le vestigia (sempre più sbiadite e intristite dal passaggio del tempo e dall'incuria) di un passato splendido, glorioso e raffinato, convivono, ad Istanbul, col volto moderno, 'anfibio' di questa città che dall'Oriente ha sempre guardato all'Occidente in parte con invidia, ammirazione e desiderio di emulazione, in parte con diffidenza e col bisogno feroce e vano di preservare un proprio senso di incerta identità.
Accanto ai ricordi personali di Pamuk, che non riguardano solo il suo affettuoso rapporto con la città, ma anche e soprattutto la sua grande e complessa famiglia, le impressioni, gli aneddoti, le memorie di illustri ospiti di Istanbul, da Balzac a Nerval a Gautier.
Su tutto, una spessa coltre di malinconica rassegnazione di fronte ad un passato sontuoso ucciso secoli fa dalle logiche crudeli della storia e un'atmosfera da purgatorio, grigia e di un'opprimente tristezza, che le belle fotografie in bianco e nero contribuiscono a rendere reale e visibile anche al lettore che a Istanbul non abbia mai messo piede.
Ogni tanto, l'ombra pallida di un sorriso e un accenno di ironia rischiarano un panorama per lo più grigio e di un'opprimente tristezza.
Da evitare se si è in profonda crisi depressiva.

Orhan Pamuk, Istanbul, Einaudi 2006. Traduzione di Şemsa Gezgin.

mercoledì 19 agosto 2009

Dell'estate, dei bassi istinti e di una crema di ricotta al caffè


So già di poter passare per una sbruffona - o per una demente -, ma anche oggi, giorno in cui a Firenze i termometri hanno registrato i 39 gradi, mi sono ben guardata dal tenere inoperoso il mio forno (tanto per richiamarmi al tema dell'ultimo post 'gastronomico').

Ma non di questo volevo scrivere (ché, tra l'altro, si tratta di un esperimento, e solo parzialmente riuscito), quanto di un dolce molto più adatto ai tempi tristi che ci tocca di vivere adesso.
Niente paura, non sto per lanciarmi in un'invettiva contro la decadenza della società contemporanea; alludevo, molto più banalmente, all'estate.

Non ricordo di averla mai amata moltissimo, nemmeno da bambina. Prima di tutto perché in estate non potevo andare a scuola.

A me piaceva andare a scuola, e non tanto perché così sarei stata con i miei amichetti che, a dire il vero, non mi facevano impazzire, anzi.



Non solo studiare, ma anche fare i compiti, tenere i quaderni e i libri ordinati, avere un bell'astuccio con dentro tutto quello che mi sarebbe servito: la matita blu per sottolineare le cose importanti; quella rossa per sottolineare le cose MOLTO importanti; la gomma pane, di cui, a volte, in preda a qualche passeggero attacco di noia o di nervosismo, sbocconcellavo con aria assente gli angoli; la Coccoina, di cui ero ghiottissima, che usavo per incollare le figurine sul quadernone delle ricerche; le penne multicolori che avrebbero dovuto profumare di frutti, e invece emanavano ognuna un diverso fetore dolciastro e sintetico che impestava il mio diario per mesi (ne andavo matta), per scrivere i compiti...


Ero la classica secchiona zelante, che però non passava mai per tale, perché mi mancavano gli occhiali e la erre moscia per rappresentare al meglio, al limite della macchietta, la classica figura della prima della classe, e poi perché, per quanto alti fossero i miei voti e ordinati i miei quaderni e i miei libri, io ero sempre un po' disordinata, con le dita perennemente sporche di inchiostro e un'aria da sciamannata.


Benché, infatti, mia madre si impegnasse strenuamente per farmi indossare ogni mattino un grembiule candido e stirato alla perfezione, io riuscivo, anche solo nel breve tragitto da casa a scuola, a dargli subito un'aria vintage, per così dire, a ciancicarne i polsini, gli orli e il colletto, a sciogliere il fiocco (che naturalmente non ero più capace di annodare nella giusta maniera e finiva sempre per penzolarmi sbilenco sul petto), in questo modo acquistando io stessa quell'aria trasandata e non 'a posto' che, mi piace immaginare, era la stessa che doveva avere spesso la mia adorata Virginia Woolf, di cui qualcuno, un giorno, disse che sembrava fosse sempre appena passata attraverso una siepe.


Naturalmente ero contenta di andare in vacanza, soprattutto in quegli anni felici della mia infanzia in cui trascorrevo tre mesi filati al mare (e mio padre veniva solo nel fine settimana, come nella più classica delle tradizioni italiane: la mamma in campeggio al mare coi figli, il papà in città a lavorare che raggiunge la famiglia il venerdì sera); ma ero ben più contenta di tornare a scuola e ritrovare quelle attenzioni e quelle gratificazioni che mi era tanto facile ricevere lì e che sembravano invece tanto difficili da conquistare in casa mia. Ma questo, come al solito, è un altro discorso...

Ma per tornare al punto, in quest'estate rovente ho sviluppato una vera dipendenza dalla
crema di ricotta al caffè del grande Stefano Arturi, che potete trovare a pag. 189 del suo più volte citato Pausa Pranzo (guardate per esempio qui e qui e anche qui), di cui mai mi stancherò di cantar le lodi.

E' davvero facilissima (sentito, Grazia cara?) e dunque si può fare anche in quei momenti in cui si pensa di non avere nemmeno l'energia per mangiare, figurarsi per prepararsi qualcosa di tutto sommato superfluo (ma quanto ci si sbaglia, al riguardo!) come un dolce.

Eccola qui:

per 3-4 persone:

350 gr. di ricotta
60 gr. di zucchero
2 cucchiai di rum scuro
(io li ho sostituiti con 2 cucchiai di brandy)
70 ml di caffè forte e freddo (per pigrizia e comodità io ho usato due cucchiaini di caffè solubile sciolti in 70 ml di acqua)

Non dovrete far altro che mettere tutti gli ingredienti nel robot da cucina e azionare. Non troppo a lungo. L'Arturi dice addirittura, se si vuole, di usare semplicemente una forchetta. Io preferisco che la crema sia più morbida, ma è questione di gusti, ovviamente.

In teoria, il tutto andrebbe messo in frigo per 10-12 ore.
L'Arturi deve essere evidentemente un uomo virtuoso e con un'invidiabile capacità di contenere i suoi bassi istinti, oltre che un ottimista con una grande fiducia nel genere umano.
Io non riesco mai a resistere per più di qualche ora, ma è vero che il giorno dopo è nettamente più buona, soprattutto se, come viene consigliato, la si serve con una spolverata di cacao e di cannella; in realtà
immagino che sia più buona così, perché appena la tiro fuori dal frigo la divoro in preda ai bassi istinti di cui sopra, e non mi lascio nemmeno il tempo necessario a compiere questa semplice operazione; l'ingordigia però, paradossalmente, mi obbliga a lasciarne sempre un po' per il giorno dopo.

La via della virtù è a volte tortuosa.

Enjoy!

(Che non lo venga a sapere l'Arturi, che lo aborre, ma trovo che nella crema stiano benissimo anche 50 gr. di cioccolato bianco sciolti a bagnomaria con due cucchiai di latte, da aggiungere agli altri ingredienti nella coppa del robot. Volendo evitare di sentirmi troppo in colpa nei suoi confronti, ogni tanto ho optato per del cioccolato fondente, sempre sciolto a bagnomaria).


mercoledì 12 agosto 2009

La ragazza del secolo scorso di Rossana Rossanda


Ancora una volta mi sento in imbarazzo nello scrivere un commento. Ho comprato questo libro avendo nei suoi confronti grandi aspettative e mossa da una certa impazienza di leggerlo (e si vede, ché non è uno dei miei soliti tascabili) e ho invece finito per leggerlo dopo qualche anno di tentennamenti, in cui al timore reverenziale si univa anche la sensazione che si trattasse di una lettura impegnativa, forse troppo per me.

Ho cominciato a leggerlo con la serietà e la concentrazione che un'allieva diligente mette nel seguire le lezioni di un professore molto stimato ma da lontano, severo ma di straordinaria e finissima sapienza, che però non fa nulla per raggiungere i suoi studenti, adeguando il suo sapere al loro livello di comprensione e di ricezione: chi c'è c'è, chi mi segue mi segue.

A parte la prima parte dedicata all'infanzia, che ho amato molto (come amo in quasi tutti i libri di memorie i capitoli che parlano dell'autore bambino, ché io, della mia infanzia non ricordo nulla, e spero sempre di ritrovare in quella degli altri qualche barlume che mi restituisca la bambina che sono stata), arrivata intorno a pagina 130 ho cominciato ad annaspare.

Dal momento in cui la Rossanda 20enne scopre la politica, ho avuto l'impressione che il libro si complicasse, si oscurasse, e che pesanti nubi lo avvolgessero, impedendomi di seguire il percorso tracciato fin lì dalla mano ferma, sobria, spartana, aliena da qualunque sentimentalismo e sbavatura emotiva dell'autrice.

Avevo comprato questo libro perché ho sempre avuto curiosità per la Rossanda, perché ne rimasi abbagliata una volta che venne a fare una lezione all'università e la vidi, minuta e seria, seduta accanto alla mia professoressa, per parlare del suo Un viaggio inutile.
Non sarebbe certamente contenta se leggesse che di ciò che disse non ricordo nulla, mentre invece mi rimase impressa la bellezza del suo volto, raramente illuminata da un sorriso.

Speravo che questo libro mi aiutasse a capire alcune cose, ad avvicinarmi ad un percorso personale e politico su cui si può avere delle perplessità, dal quale si può dissentire, ma di cui non si può mettere in discussione la serietà, l'impegno, la passione.

Invece non ho capito nulla, e i moltissimi, continui accenni (non esplicativi, tra l'altro; semplici appigli visibili solo a chi già conosca la strada, a chi già si orienti da solo) a personaggi e fatti della vita politica italiana, alle diatribe interne al partito, alle correnti e sottocorrenti che da sempre hanno contraddistinto la sua vita travagliata, hanno finito per confondermi, per disorientarmi, infine per farmi perdere, in preda all'insofferenza, alla noia e anche, se devo dirla tutta, all'irritazione (il che ha generato in me, e non che ce ne fosse bisogno, riflessioni ben poco incoraggianti sull'effetto che certo mondo della sinistra ha sempre fatto su persone anche e soprattutto bendisposte nei suoi confronti, financo desiderose di sostenerlo e di farne parte, salvo poi allontanarsene in preda, appunto, alla confusione e al nervoso).

Rimangono alcune pagine bellissime, i ritratti severi e appena increspati di affetto dei genitori e della sorella Mimma, della coraggiosa e appassionata zia Frida, della sorniona e ironica zia Alma, la scoperta piena di incanto della giovane Rossanda del mondo dell'arte e della filosofia, alcune profonde meditazioni e brucianti intuizioni, rapide e taglienti come scudisciate, su quel che si potrebbe definire 'lo spirito italiano' e su alcune delle sue manifestazioni meno felici e meno alte che improntarono di sé il ventennio fascista.

Forse per timore di fare di questo libro un'autobiografia (quando invece pare evidente che l'autrice l'abbia inteso come una biografia di quel mondo in cui è nata e cresciuta politicamente), ai sentimenti, alle emozioni, ai rapporti umani sono concessi spazi angusti e rari, e l'atmosfera del libro (almeno di ciò che ne ho letto) è per lo più di una freddezza siderale e calvinista.

Non dico che questo sia un difetto in assoluto; per me, però, è assai di rado un pregio.


Rossana Rossanda, La ragazza del secolo scorso, Einaudi, Torino 2005.

domenica 9 agosto 2009

Le piccole virtù di Natalia Ginzburg


Questo è il libro di Natalia Ginzburg che amo di più; anche più del suo Lessico familiare.
Sono così tante le pagine in cui la sua voce suona dolcemente familiare al mio orecchio, che la mia copia è piena di sottolineature, punti esclamativi e quelle frecce stortignaccole con cui segno i passaggi per me particolarmente significativi.
Ritrovare i propri pensieri nelle parole di uno scrittore è un’esperienza che ha sempre del miracoloso, non importa quante volte essa si ripeta; è un’emozione simile a quella che si prova quando si conosce una persona che, dall’infinito numero degli sconosciuti e degli estranei, all’improvviso entra, prepotentemente e trionfalmente, nel novero dei nostri amici più intimi e cari.
Ritrovare ancora una volta le mie emozioni, le mie intuizioni, certe idee che nemmeno sapevo di possedere fino a quando non le ho ritrovate lì, espresse dalla voce sommessa ma al tempo stesso chiarissima e vibrante di Natalia Ginzburg, è stato confortante, a tratti commovente.
Perché della Ginzburg a me non piace soltanto ciò che dice, ma anche e soprattutto il modo in cui lo dice. Quel suo personalissimo stile, quella sua ‘cantilena’ (quella che il collega Giorgio Bassani chiamava ‘lagna’) creata dall’uso di frasi spesso brevi e che prediligono la paratassi; quei suoi molti ‘ci sembra’, ‘ci pare’, usati a guisa di intercalare, mi parlano di una persona aperta al dubbio, estranea a certa apoditticità ottusa, aggressiva e boriosa che negli ultimi tempi sembra invece essere l’unico stile comunicativo vigente ovunque (dai giornali, ai libri, alla televisione, alle conversazioni private).
Al tempo stesso, però, la Ginzburg è anche capace di prendere posizioni nette, precise, chiare, di assumersi responsabilità scomode, esponendosi con grande coraggio, determinazione, eppure sempre mantenendo la sua caratteristica e personalissima cifra di modestia, pudore, rispetto per l'interlocutore e repulsione per l’eccesso, che trovo tanto riposante e che associo sempre alla vera forza, alla reale tempra morale di chi non ha bisogno di imporsi con la violenza, perché ha opinioni, idee e valori che si impongono da soli per la loro rettitudine e coerenza.
Ed è un miracolo anche il modo in cui la Ginzburg riesce a muovere i nostri pensieri più alti, le nostre riflessioni più profonde, partendo da spunti spesso assai modesti, utilizzando immagini frequentemente fruste e dimesse (le scarpe sfondate di un bellissimo saggio presente in questo libro, i fratacchioni robusti che mangiano zuppe di erbe nel divertentissimo e al tempo stesso malinconico “Lui e io”, elegia ironica e insieme tenerissima del suo secondo, felice matrimonio con Gabriele Baldini), mostrando senza civetteria e senza leziosità la sua ‘fintotontaggine’, che è invece l’abito di cui si veste la sua straordinaria capacità di dire parole chiare e limpide sulla realtà (e quanto si ha bisogno, soprattutto adesso, di simili parole?).
Nella bella introduzione di Domenico Scarpa ho trovato questa frase che riassume magistralmente, per me, la magia di questo libro:
“E’ molto difficile capire che cosa avviene di tanto straordinario nei saggi di Natalia Ginzburg: come funzionano, che cosa veramente crea quel silenzioso effetto di decollo lirico. Come accade il prodigio per cui, partendo da una verità che sapevano tutti, si arriva a una verità che sa solo lei, anzi, che solo lei sa dire: perché difatti, un istante dopo che l’ha detta lei, ognuno si accorge che la sapeva da sempre, che la sapeva ma che non sarebbe mai stato capace di dirla così”.

Natalia Ginzburg, Le piccole virtù, Einaudi, Torino 1998 (1962), a cura di Domenico Scarpa.

Del sapersi sacrificare (un po') e di pomodori gratinati


Come ogni estate si fa un gran parlare, nei foodblogs, della poca voglia di cucinare, soprattutto di tenere il forno acceso, perché fa caldo e ci si sente svogliati, inerti, desiderosi di accasciarsi dovunque si possa essere raggiunti dal più tenue refolo di frescura.

Il forno acceso a me non dà noia. E' in cucina, e mentre è in funzione io sono ben libera di accasciarmi altrove, aspettando che suoni il timer topomorfico di nome Ernesto.

Certo, quando si preriscalda, si sta lì e si soffre un po', va bene. Ma è un disagio contenibile, almeno per me, soprattutto tenendo ferma la mente al risultato che si produrrà alla fine. Bisogna sapersi proiettare nel futuro, lo dicono tutti. Bisogna sapersi sacrificare per il bene, anche e soprattutto qualora non sia immediato ma richieda tempo e pazienza, lo dicono in tanti: è il problema del mondo contemporaneo, pare, dominato dall'ansia della soddisfazione immediata di qualunque bisogno o desiderio si imponga alla nostra attenzione (è incredibile come, partendo da un forno, io possa arrivare, senza fatica alcuna, a pontificare su praticamente qualsiasi argomento; è preoccupante, più che incredibile...).

Ho anche comprato di recente un libro francese sulla cucina a crudo, che ho letto in vacanza segnandomi un bel po' di ricette da provare, pensando che non ci sarebbe stato momento migliore di questa estate torrida per sperimentarle. Invece, poi, ogni volta che mi metto a pensare a cosa preparare da mangiare, finisco per scegliere sempre piatti da cuocere in forno.

Dietro questa mia predilezione c'è dunque la convinzione che, la maggior parte delle volte, quando si mette qualcosa in forno (a parte alcune preparazioni particolari) la si dimentica lì, mentre, quando si cuoce qualcosa sul fornello, viene richiesta una certa partecipazione attiva, che si tratti di mescolare ogni tanto o in continuazione.

Ecco, è questa necessità di stare in piedi davanti al fornello che mi inquieta, soprattutto in quest'estate calda e umida, in cui ancora più penoso mi sarebbe lo stare lì a rimestare, raggiunta da bollenti sbuffate di aromatici vapori.

Dunque, all'insegna del 'semplice (o pigro, dipende dai punti di vista) è bello', qualche tempo fa ho provato questi saporiti pomodori ripieni.

Non di riso, che non mi piacciono e non mi sono mai piaciuti (da piccola avrei mangiato solo i primi chicchi del ripieno, leggermente bruscati, e non riuscivo assolutamente a vincere il disgusto per il pomodoro stesso, sempre un po' acido, e reso molliccio dalla cottura... orrore), ma di pane grattato, pecorino, parmigiano ed erbe aromatiche.

Un attimo farli e un attimo mangiarli. Tra le due operazioni, circa mezz'ora di tempo da passare (possibilmente) svaccata sul divano, a leggere con i gatti una di quelle riviste femminili che ogni tanto mi compro per soddisfare una mia insana e vergognosa tendenza alla fatuità, ahimé dura a morire.

La ricetta è tratta da Twelve, di Tessa Kiros, di cui parlato a più riprese, e risulta come 'pomodori gratinati'.
La presento praticamente inalterata, ma per certi versi è solo una bozza: le varianti immaginabili sono parecchie, a partire dalla scelta delle erbe aromatiche e del formaggio.

Va da sé che non ho mai contato esattamente le foglie della menta o del basilico, così come sono sempre andata ad occhio per la quantità del prezzemolo (che più di una volta non ho messo, essendone in quel momento sprovvista); però a me fa sempre molto piacere trovarmi di fronte una ricetta scritta per filo e per segno: mi sento poi più sicura nel prendermi, eventualmente (e con cautela, ché sono pavida e fondamentalmente rispettosa di certa autorità), delle libertà nei suoi confronti.

per 6 persone:

6 pomodori grandi e maturi
3 cucchiai di prezzemolo tritato
1 spicchio d'aglio, sbucciato e tritato
10 foglie di menta
10 foglie di basilico
1 cucchiaino di origano secco
1 cucchiaio di parmigiano
1 cucchiaio di pecorino
1 cucchiaio e mezzo di pangrattato
8 cucchiai di olio di oliva

Preriscaldate il forno a 180 gradi.

Tagliate i pomodori a metà, svuotateli, tenendo da parte la polpa (e i semi, se volete; io li elimino) che sminuzzerete e metterete in una ciotola.

Disponete i pomodori in un piatto da forno, con la parte tagliata rivolta verso l'alto; salateli leggermente.

Nella ciotola con la polpa aggiungete gli altri ingredienti, 4 degli 8 cucchiai di olio, sale e pepe. Riempite con questo composto i pomodori e zigzagate con l'olio avanzato.

Fateli cuocere in forno 20-30 minuti e serviteli tiepidi, ma anche a temperatura ambiente sono ottimi (e se per questo, io li amo molto anche freddi di frigo, mangiati possibilmente in piedi, di fronte al suddetto elettrodomestico, in equilibrio con le gambe a fenicottero, ma capisco che a molti, in primis alla Spia, tutto ciò faccia orrore).

Enjoy!


domenica 2 agosto 2009

Delle vacanze, di animali in via di estinzione e di una notte a Santorini


Durante le vacanze, il pensiero di questo blog, fermo al 5 di luglio, mi faceva sentire a disagio, come fossi stata una madre snaturata che aveva abbandonato la sua creatura.

Ho letto in giro qua e là di bloggers che, un po' scusandosi e un po' quasi compiacendosene, affermavano di volersi 'disintossicare' dalla blogosfera, e dunque salutavano i loro lettori con post scritti con un piede in casa e uno fuori, nelle pause tra una valigia da sfare ed una da riempire, pregustando settimane di assoluta astinenza telematica e, anzi, rivendicando il loro diritto a staccare la spina, ad abbandonare il loro blog.

Io non ho sentito di dovermi disintossicare. Non so se questo dipenda dal fatto che della blogosfera sono una cittadina in fondo 'eccentrica', nel senso proprio del termine, cioè piuttosto lontana dal nucleo incandescente e attivo di questa enorme e multiforme galassia. Molto dipenderà dal fatto che questo mio 'salotto' (o, per essere più precisi, questo mio tinello con cucina) è frequentato da poche persone, e non mi ritrovo dunque a gestire decine e decine di commenti, il che, immagino, deve essere a volte faticoso e vagamente opprimente. Sta di fatto, però, che sebbene passi ore ed ore davanti al pc (per lavoro e per altro), non ho mai avuto sentimenti ambivalenti nei confronti di questo mio scalcagnatissimo blog: l'ho creato e lo tengo in vita fondamentalmente perché mi piace scrivere, e perché mi piace l'idea di poter condividere qualcosa che mi interessa e che potrebbe interessare ad altre persone (e senza dubbio per quella forma di narcisismo assai diffuso nel mondo contemporaneo per cui si ritiene in effetti, o meglio ci si illude, anche nella propria piccolezza, di essere in qualche modo di un qualche interesse per qualcuno, là fuori).

Il silenzio è stato dovuto alla banalissima ragione che non ho pensato neanche un minuto all'eventualità di portare con me questo portatile dal quale scrivo, benché probabilmente avrei potuto utilizzarlo, almeno nella prima metà delle mie vacanze. E non per la volontà di 'staccare', ma perché avevo paura di romperlo, perderlo, danneggiarlo in qualche modo (sia mai). Nessuna pausa di riflessione, nessuna disintossicazione, nessuna astinenza purificatrice.
Temo ciò mi renda assai patetica e banale, ma tant'è.

Detto ciò, delle mie vacanze, trascorse con amici e in luoghi assai diversi tra loro (la campagna tra Siena e Grosseto prima, un'isola greca poi), mi rimangono bei ricordi, un po' di abbronzatura (assai poca, essendomi sempre ricoperta di vari strati di crema solare protezione 40), dolci memorie di pantegrueliche mangiate in Toscana e di sobrie ma saporitissime cene a base di tsatsiki e insalate greche poi, e alcune riflessioni che sono nate in me la notte che ho dovuto trascorrere a Santorini, da dove il giorno dopo io e la Spia siamo ripartiti per Milano.

Non ci ero mai stata a Santorini, e ci ho trascorso una tra le notti più strane, difficili e - a modo suo - interessanti della mia vita.

Eravamo in una stanza di un alberghetto microscopico (e dall'aria vagamente equivoca e abusiva, con i mobili raccogliticci e il vasetto con i fiori finti sul comodino, il boiler antidiluviano in bagno e il televisore portatile in cima all'armadio per mancanza di spazio altrove), gestito da due anziane sorelle di qualche paese dell'Europa dell'est, arrampicato su quella costa che si affaccia direttamente sulla baia dominata dalla caldera, dunque nel pieno della movida santoriniana, in mezzo a locali notturni e ristoranti che hanno continuato a rigurgitare musica a tutta volume e cocktails colorati e alcolicissimi per i loro clienti per tutta la notte.

Non ho dormito niente, con la Spia che aveva i tappi nelle orecchie e russava per la stanchezza come un facocero nella savana, e fuori tutta Santorini che impazzava e faceva di tutto per stonarsi e dimenticare malinconie, incertezze e problemi. Io i tappi non li ho messi perché avevo paura di non sentire la sveglia il giorno dopo (quando si dice l'idiozia...).

In quella notte solitaria e affollatissima ho fatto parecchie riflessioni. Alcune assai deprimenti. Altre invece no. Ho pensato che con quell’ansia di stonarsi di musica e alcolici, con quell'euforia coatta e quelle promiscuità passeggere e adrenaliniche, io non ho mai avuto niente a che fare (se non in una fase transitoria quando ero in seconda liceo, e l’ho vissuta con quel distacco e quel lieve, annoiato disgusto che la 17enne snob e imbottita di libri che ero doveva ostentare per ogni esperienza estrema e potenzialmente pericolosa) e tanto meno ho a che fare adesso.

Ho pensato che, di questi tempi, la maggior parte delle persone, in quella notte folle e resa ottusa dall’alcol e dalla musica a tutta volume, si sarebbe trovata perfettamente a suo agio, mentre io, lì, al riparo in quella cameretta un po’ squallida affacciata sulla caldera illuminata da uno spicchio di luna, mi sentivo sotto assedio e in preda ad un angoscioso senso di straniamento, come se fossi stata un animale raro di cui esistono pochi esemplari al mondo, minacciato da un'imminente estinzione.

Volevo svegliare la Spia e dirgli queste cose, e sentire che cosa ne pensava lui, e farmi rassicurare (o più probabilmente avere la conferma delle mie lugubri riflessioni), ma dormiva ed era stanchissimo e non ho avuto cuore di interrompere il suo sonno (benché abbia cercato di filmarlo con la digitale per documentare, finalmente, i suoi russamenti selvaggi, cui lui non crede, anche se esistono testimonianze diverse e da almeno due decenni che confermano la sua tendenza a russare come il suddetto facocero, cosa che ovviamente lui nega. Non ci sono riuscita, però. Non era destino, evidentemente).

Allora sono rimasta lì, sola, gli occhi aperti nel buio, sentendo nella pancia il rimbombo attutito e ossessivo di orridi pezzi da discoteca, e le risate e le urla di una folla nottambula di gente disperatamente desiderosa di divertirsi, e dopo un po’ l’ansia e la solitudine che mi attanagliavano si sono placate, naturalmente.

Dico naturalmente perché per me è sempre così. Gira e rigira, nei momenti veri di spaesamento e solitudine e angoscia, mi ritrovo sola, o meglio, voglio ritrovarmi sola. Per poter forse essere capace di uscirne con le mie forze, o per sentire che sono in grado di farlo e senza dover imporre a nessuno il fardello pesante e ingrato di angosce non proprie ma 'riflesse', e sostituirlo con la condivisione, molto meno ingrata e molto meno onerosa, a esperienza conclusa, delle riflessioni che essa ha generato in me. Allora sì, mi piace cercare gli altri, e sono anche disposta, a volte, a svegliarli, per condividere la gioia di essere riemersa dal buio di una notte insonne e travagliata, provata forse, ma ancora viva e tutta intera.

E quando la calma ha preso il sopravvento ho capito che sì, il mondo forse sarà anche come quella notte a Santorini, rumoroso, artificioso, stonato e intontito dalle droghe e dall'alcol e dalla paura di affrontare il presente e ancora di più il domani, e che io sentirò sempre di non appartenere del tutto a questo tempo in cui mi trovo a vivere.

Però non sono l'unico rappresentante superstite di una razza in via di estinzione. Altri esemplari come me mi sono vicini. E con loro posso condividere ciò che mi sta a cuore e che quotidianamente, con ostinazione e pazienza, salvo, o tento di salvare, dall’abbrutimento e dall’ottundimento in cui si cerca di farci vivere.

E tra questi esemplari ci sono anche quelle anime pie che passano da questo blog e trovano il tempo, nelle loro giornate convulse e difficili, di leggere ciò che ho voglia di scrivere.

E allora grazie, e bentornati a tutti.

Predatore di Patricia Cornwell


Mia suocera è, come me, una sostenitrice della filosofia del 'ravattone', l'arte, cioè di riciclare e riutilizzare oggetti scartati da altri. Dunque, di tanto in tanto, fruga nella pattumiera della carta del suo condominio alla ricerca di riviste per sua madre, vecchi cataloghi dell'Ikea da far ritagliare alla nipotina e qualche libro per sé o per altri.
Immagino dunque che questa sia l'origine della incongrua apparizione di questo romanzo nella sua libreria. Dico incongrua perché conosco bene i suoi gusti e so per certo che per lei un libro giallo può essere solo di Agatha Christie.
Essendo rimasta senza niente da leggere in treno (orrore!), e non avendo mai letto un romanzo di Patricia Cornwell, della quale mi incuriosiva la celeberrima eroina Kay Scarpetta, ho deciso di dargli una scorsa.
Ho finito di leggerlo in meno di un giorno, perché la scrittura prende, la storia è terribile, morbosa e inquietante, e fa leva su tutti i punti deboli di gran parte di noi: la paura della morte, ma soprattutto la paura della follia, il terrore di precipitare, per caso, per sfortuna (per destino, per karma, secondo altri), nelle spire agghiaccianti di una mente deragliata, resa crudele e delirante da un dolore e da un trauma troppo grandi, indicibili e mostruosi per poter essere sopportati.
Non voglio fare una critica esaustiva dei meriti (e demeriti) di un libro come questo, né dal punto di vista letterario né da quello commerciale. Lascio ad altri il compito di occuparsi di tutto ciò.
Vorrei però dire che ho deciso che non ne leggerò mai più un altro del genere.
Perché non credo sia sano e faccia bene farsi risucchiare da atmosfere tanto raccapriccianti e atroci come quella creata ad arte dalla Cornwell, penetrare con lei nel mondo delirante e grondante sangue e follia in cui si muovono i suoi personaggi.
Mi chiedo spesso perché abbiamo bisogno di simili emozioni, di simili contatti mediati e 'protetti' con realtà che ci appaiono lontanissime e che invece, purtroppo, ci sono vicine molto più di quanto sospettiamo, tant'è vero che ne sentiamo spesso parlare nei notiziari o leggendo i giornali.
Che il volto oscuro dell'uomo ci attragga tanto e forse più di quello luminoso e sano, positivo e solare, è un dato di fatto.
Io però continuo a pensare che flirtare, anche solo in modo apparentemente innocuo e sicuro (leggendo un libro, vedendo un film), con questa ombra presente in tutti noi abbia qualcosa di malsano. Soprattutto quando essa viene presentata nelle sue vesti più cruente e spettacolari, per scuotere dal torpore della quotidianità il nostro cervello insonnolito e apparentemente aduso ad ogni nefandezza.
Che la gente acquisti libri del genere per sentire brividi di questo tipo mi lascia perplessa e avvilita. Che una scrittrice che conosce il suo mestiere debba ricorrere allo splatter per mettere un po' di pepe nelle sue storie e vendere più copie dei suoi romanzi non mi stupisce, ma mi fa tristezza. Non mi stupisce nemmeno che una miscela di questo tipo (psicologia, sangue, sesso) possa avere effetto anche su di me, facendomi leggere in meno di 24 ore un romanzo di circa 360 pagine, ansiosa di arrivare alla fine.
Di libri che investigano il mistero della crudeltà e della follia dell'uomo ce ne sono moltissimi, che anche senza sbattere sulla pagina etti di materia celebrale spappolata su copriletti o resti verminosi di cadaveri in decomposizione, dicono molto, e in modo assai più sottile e penetrante di questo romanzo della Cornwell, sull'eterna tragedia della fragilità della vita.
Voglio continuare ad affidarmi a loro.

Patricia Cornwell, Predatore, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 2006. Traduzione di Annamaria Bivasco e Valentina Guani