domenica 26 settembre 2010

Sunday Music: Where Is My Love? - Cat Power

Cat Power ha la mia età e ha già vissuto diverse vite, una delle quali da alcolizzata.

Mi interrogo da tempo sul nesso, doloroso e inquietante, che sembra spesso esistere tra una particolare sensibilità - soprattutto musicale - e una decisa tendenza all'autodistruzione.

Come se questa sensibilità mettesse in contatto, oltre che con la bellezza e con la ricchezza della vita, anche con il suo dolore e il suo orrore.

Come se essa, ad un certo punto, non sostenesse più il suo proprio peso e la sua propria profonda intensità e decidesse di ottundersi, inesorabilmente, crudelmente.

La storia della musica è tristemente affollata di uomini e donne che un incredibile talento, l'amore delle folle, l'acclamazione della critica non sono riusciti a salvare dal bisogno oscuro e terribile di annullarsi.

Alcuni sono entrati nella leggenda, altri no.

Alcuni si sono salvati, più o meno bene, e hanno scelto di vivere.

È ciò che sta cercando di fare Cat Power.

Con tutti i fantasmi che si porta dietro, tutto il dolore che ha accumulato negli anni, tutte le insicurezze e le fragilità della sua ricca e complessa personalità.

Ed io ne sono molto contenta.

(Grazie a Manusa)





sabato 25 settembre 2010

Di unioni improbabili ma felici e di una torta alla cipolla e all'uva


Quanto è sottile la linea che separa il buono dal cattivo gusto e l'originalità dalla bizzarria?

A volte molto sottile - e tutto dipende da chi la guarda, questa linea, tanto per complicare la faccenda.

Ci sono abbinamenti gastronomici che ad alcuni sembrano il non plus ultra del gusto e della raffinatezza e ad altri atroci aberrazioni nate dalla demenza, dalla mancanza di idee, dalla volontà di stupire a tutti i costi o, e questo è di gran lunga il peggiore dei casi, dalla presunzione.

D'altronde, mai come in cucina gli abbinamenti sono un fatto puramente personale.

L'insalata tiepida di lenticchie che amo mangiare io, condita con aceto balsamico, menta, dadi di caprino e olio d'oliva (ispirata ad una cosa simile che fa Nigella Lawson), manda in estasi me e riempie di sconcerto venato di disgusto la Spia.

Gli spaghettini al pomodoro e basilico della suddetta Spia su cui lui lascia scivolare - quando pensa che io non guardi o quando non ci sono - un bel pezzo di burro mi hanno sempre lasciata più che perplessa (e meditabonda circa le differenze culturali tra chi è nato al di sotto e chi è nato al di sopra del Po).

Ci sono alcune unioni che paiono incomprensibili a chi le osservi da fuori, tanto diversi e distanti tra loro sembrano gli individui che danno loro vita, e invece funzionano a meraviglia, per quanto bizzarra e improbabile possa apparire la combinazione.

Ce ne sono altre che sembrano sempre incomprensibili etc etc e non funzionano nemmeno tanto a meraviglia, ma lì più che di fronte alla spesso sublime e a suo modo commovente irrazionalità dei rapporti umani si è di fronte al - pur sempre umanissimo - micidiale incastro del desiderio di due persone di farsi del male.
Di fronte a tanto complessi e inconsci moti dell'animo umano, confesso di sentirmi impotente e senza parole e incapace di formulare giudizi.

Ma per tornare a noi.

Quando ho letto la ricetta di questa torta su un numero recente di Marie Claire Idées (una delle mie riviste preferite), ho capito subito che mi sarebbe piaciuta, per quanto stramba potesse suonare la lista degli ingredienti.

Incredibile ma vero, è piaciuta molto anche alla Spia e alla di lui genitrice, che ci ha recentemente allietato con una breve visita.


Tarte fine à l'oignon et aux raisins
(leggermente modificata)

(per una tortiera di 30 cm di diametro)

200 gr. di farina integrale
100 gr. di burro
1 cucchiaino di sale
2 cucchiai di acqua fredda
2 cipolle rosse, medie, affettate molto sottilmente con una mandolina
acini di uva bianca
40 gr. di grana, grattugiato
timo
olio d'oliva
sale e pepe


Preriscaldate il forno a 210°.

Dosate la farina e il burro e mettete la ciotola che li contiene in freezer per 10'-20', indi trasferitene il contenuto nella coppa del robot da cucina.

Utilizzando la funzione pulse, riducete il burro e la farina in briciole, aggiungete il sale, poi i due cucchiai di acqua.
Non appena si formerà un abbozzo di palla spegnete tutto, estraete l'impasto, appiattitelo e stendetelo finemente con il mattarello su un foglio di carta da forno che poi utilizzerete per foderare la tortiera.

Dopo aver bucherellato il guscio di pasta con i rebbi di una forchetta (quanto mi piace scrivere questa cosa), ricopritelo con gli anelli finissimi delle cipolle, scaglie di grana ottenute utilizzando un pelapatate e il timo.

Sistemate come più vi aggrada gli acini di uva bianca (ovviamente lavati e asciugati). Io ho tentato di dar loro una disposizione vagamente artistica e simmetrica - senza risultati apprezzabili (il dito che vedete nella foto è quello della suocera che non ha saputo resistere alla tentazione di provare a dare una parvenza di bellezza e logica alla mia sbilenca composizione).

Sale, pepe, un filo d'olio e mettete in forno per circa 20'-30' (direi più 30' che 20').

Se avete paura di ritrovarvi le cipolle sullo stomaco anche il giorno dopo, potreste forse provare a fare come il nostro caro Arturi, che le sbollenta brevemente con l'acqua caldissima.

Dice che si mantengono croccanti ma perdono l'acre. Non ho sperimentato - non ho particolari problemi con le cipolle - ma mi fido del consiglio e ve lo passo.

Enjoy!

domenica 19 settembre 2010

Della domenica, di lavoratori e lazzaroni: Sunday Music

La domenica è per me un giorno sacro - e sia tolta qualunque connotazione devozionale a questa mia affermazione, please.

Lo è perché per molti anni ho lavorato di domenica, prima in una sala da tè a Roma, leziosa come una bomboniera, che proprio di domenica faceva affari d'oro, poi in una orrenda libreria in un orrendo centro commerciale che rimaneva aperto anche durante il fine settimana.

I miei amici andavano a mangiare fuori porta, poltrivano sui prati di Villa Borghese nei lunghi pomeriggi primaverili, andavano al cinema, a vedere una mostra o semplicemente se ne restavano a casa e si ritrovavano a sera rinfrescati, ritemprati, felici come un papa.

Io, invece, in preda alla colite e alle paturnie, servivo vassoi di tè e tisane o risistemavo gli scaffali di libri travolti dal passaggio delle orde dei barbari domenicali, individui che per lo più ignoravano persino che cosa si vendesse in una libreria ma la domenica non sapevano dove altro andare e pensavano che star lì a devastar scaffali fosse, in mancanza di meglio, un modo come un altro di ingannare il tempo.

Quelle domeniche di lavoro, fatica, nervosismo - e diciamola tutta, anche di odio feroce per tutti quei lazzaroni che me le funestavano venendo a prendere il tè o a sfogliar libri proprio dove lavoravo io - sono lontane, per fortuna. Qualche anno fa mi sono ripromessa che solo in caso di vita o di morte mi piegherò ancora alla necessità di trascorrerle lavorando.

Ora, la domenica è per me un giorno speciale.
In qualche modo tutto mio ne ho fatto davvero un giorno sacro.
È un giorno di tempi lunghi, rilassati, direi quasi sognanti: nei limiti del possibile faccio esattamente quello che voglio (e prima di tutto evito di uscire; la Spia mi prende molto in giro per questo motivo).

È un giorno consacrato alla lettura, alla cucina, a un po' di pasticciamenti simil-artistico-creativi, agli amici, cui amo offrire il tè nel pomeriggio.

Soprattutto è un giorno di musica, che aleggia nell'aria a tutte le ore.

La sentite anche voi? Non è una meraviglia?

Spero vi piaccia anche solo la metà di quanto piace a me.

Buona domenica!

P.S.
1. L'immagine all'inizio del post, H 19 Domenica, è un'acquaforte di Francesco Campanoni. Vi invito caldamente a visitare il suo sito, un luogo di poesia e stralunato, delicato umorismo.

2. Il video è un "regalo" che mi ha fatto tempo fa un mio amico telematico che ha molto a cuore la mia educazione musicale (grazie Rigus!).


Ensemble Arpeggiata di Christina Pluhar - Ciaccona di Maurizio Cazzati (1616-1678)



venerdì 17 settembre 2010

Memorie di una lettrice notturna di Elisabetta Rasy

Da molti e molti anni nutro un grande (a volte quasi maniacale) interesse per la scrittura delle donne, soprattutto intimistica (diari, lettere, autobiografie etc): un interesse che mi è stato in parte trasmesso dalla professoressa con cui mi sono laureata, un'intellettuale femminista e poetessa appassionata di letteratura femminile.

Un libro come questo, dunque, non poteva che attrarmi.

Devo ammettere, però, che ho una certa allergia alle teorizzazioni e ai discorsi, ahimè spesso eccessivamente intellettualistici, che si fanno e si sono sempre fatti intorno e sulla scrittura femminile (e quanti ne ho dovuti leggere, studiare, ascoltare negli anni!). Quando comincio a imbattermi in quel gergo da critica letteraria militante (con tutte le parole d'ordine del caso), comincio immediatamente a sbadigliare in preda alla noia, gli occhi e la mente abbandonano la pagina e vagano in tutt'altra direzione, andando ad altri libri, a ciò che accade fuori dalla mia finestra, alle gatte che giocano vicino alla mia poltrona, a che cosa posso cucinare per pranzo.
E in questo testo, di discorsi così, ce ne sono, eccome.

Quando invece, e in queste Memorie di una lettrice notturna - per fortuna - accade spesso, a parlare è la lettrice Rasy, la donna Rasy, il libro mi ha totalmente avvinta: a tratti l'ho trovato meravigliosamente interessante e commovente, perché si respira una vera, autentica empatia nei confronti delle scrittrici, di tutte, anche quelle con le quali, è evidente, l'autrice sente meno affinità e punti di contatto.

Bello, bellissimo, forse il mio preferito, il ritratto di Frida Khalo, che scrittrice non fu, ma come dice non a torto la Rasy, fu autrice di una violenta, personalissima, intensissima 'scrittura col corpo' della quale, al di là dei giudizi estetici che se ne possono dare, non si possono non avvertire la verità e la drammatica autenticità.

Molti anche gli spunti e le indicazioni di ulteriori ricerche ed esplorazioni(e testi come questo sono preziosi soprattutto per l'abbondanza di simili stimoli che regalano al lettore): mi sono segnata una decina di libri da cercare, che sono andati ad ingrossare le fila della mia già elefantiaca wish list (è talmente lunga che neanche in 2 vite potrei esaurirla).


Elisabetta Rasy, Memorie di una lettrice notturna, Rizzoli 2009.

venerdì 10 settembre 2010

Di condizionamenti ed eredità familiari e di una marmellata di prugne


Quando ero bambina, la mia colazione era pane o fette biscottate, burro, marmellata e un bicchiere di latte.
Ogni giorno che dio mandava in terra.

Io avrei voluto mangiare biscotti del Mulino Bianco, orrende merendine che sapevano di lievito chimico e tanta Nutella, come i miei compagni di scuola, le cui mamme lavoratrici, alle 7.30 di mattina già in tailleur, tacchi alti e perfettamente truccate e profumate, preparavano in tutta fretta il tavolo della colazione.

Ho desiderato per anni queste colazioni e queste mamme lavoratrici.
La mia, di mamma, era sempre vestita per stare in casa (qualche volta - assai raramente - si presentava in vestaglia), con le pantofole, un grembiule a proteggere la gonna, i capelli appena spazzolati e neanche un po' di trucco, le mani che già sapevano di cucina.

Quanto al menu della colazione, immagino che fosse stato stabilito anche perché mia madre è sempre stata un'indefessa confezionatrice di conserve, e di vasetti di marmellata, in casa, ce n'è sempre stata un'enormità.

Ricordo lo sgabuzzino di casa (chiamato 'lo stanzino buio'), una microscopica nicchia chiusa da una porta che si affacciava - in modo piuttosto bizzarro, ora che ci penso - sull'ingresso e che odorava sempre di chiuso e di legno. Sui suoi scaffali facevano bella mostra di sé, tutti allineati, decine e decine di barattoli di marmellate.

Per lo più erano di albicocche, di prugne e di arance (a volte quelle amare, amatissime da mio padre, che provenivano dal giardino di una sua mezza parente di Livorno) . Ogni tanto, qualche vasetto di marmellata di lamponi o di more e, praticamente solo per mio padre, che ne è sempre andato matto, di mele cotogne, che io trovavo ripugnante (ora che ci penso, dovrei riprovarla).

Ieri mattina mi è venuto in mente tutto questo, mentre assaggiavo la mia marmellata di prugne.
Sì, perché dopo anni di colazioni il più possibile lontane e diverse da quelle impostemi per decenni dai miei, dopo solenni promesse fatte a me stessa di non fare mai e poi mai un barattolo di marmellata in vita mia, ieri mattina mi sono appunto ritrovata con in mano una fetta biscottata spalmata di marmellata fatta in casa. Da me.

E accidenti, non c'è stato niente da fare. Ho provato una soddisfazione enorme, uno sciocco e compiaciuto orgoglio. Io, proprio io, avevo fatto quella marmellata e la trovavo buonissima e bellissima.

(La ricetta si trova in Confetture al naturale, di Federica Guerra [Terra Nuova Edizioni], ma l'idea di cimentarmici mi è venuta grazie ad un'amica aNobiiana, che qui ringrazio [grazie Paola!]).


500 gr. di prugne
250 gr. di zucchero (io ho usato il Golden Caster Sugar del commercio equo e solidale)
il succo di mezzo limone (più o meno)
1 stecca di cannella, spezzata a metà
1 chiodo di garofano
2 capsule di cardamomo, leggermente schiacciate


Dubito che il mio sistema sia pienamente ortodosso.
Per me funziona, comunque.

La tecnica è più o meno quella di Christiane Ferber, regina alsaziana delle marmellate.

Lavate le prugne, tagliatele a metà se sono piccole o in quarti se vi sembrano troppo grandi, togliete il nocciolo e mettetele in un pentolino dal fondo spesso.

Aggiungete tutti gli altri ingredienti e portate a bollore.

A questo punto spegnete il fuoco e lasciate riposare, secondo la Ferber anche tutta una notte, al fresco.

Io in questo caso ho aspettato 3-4 ore, ho assaggiato, corretto con un altro po' di succo di limone, tolto un po' di bucce, poi ho riportato la marmellata a bollore e ho aspettato che le prugne fossero sfatte (questione di pochi minuti), schiacciandole - ma senza troppa convinzione - con uno schiacciaverdure.

Infine ho invasato la marmellata in barattoli che avevo lavato con acqua calda e sapone e che avevo lasciato in forno a 120° per circa 25'-30'.

Quanti pensieri mi sono venuti in mente, ieri mattina, quando ho assaggiato questa marmellata.
Sui condizionamenti e le eredità familiari, che a volte sono pesantissimi fardelli, zavorre inutili e moleste che impediscono alla propria mongolfiera di alzarsi in volo e a volte - invece - meravigliose consuetudini che ci si ritrova, quasi senza volerlo, a ripetere, aggiungendovi, si spera, qualcosa di irripetibilmente personale - e qui sta l'elemento creativo, positivo, che le riscatta e le redime e le sottrae al possibile rischio di farsi statiche e inconsapevoli ripetizioni senza vita.

Consuetudini che sanno di casa, di saperi utili, di cose buone che passano da una mano all'altra, in una lunga, affettuosa, tenera catena.

Enjoy!

venerdì 3 settembre 2010

Nel regno di Acilia di Marco Baliani

Per chi ha avuto la fortuna di assistere ad un suo spettacolo, leggere questo romanzo significherà rinnovare, in un certo senso, la meravigliosa esperienza di ascoltare la voce di Baliani.

Da questo punto di vista, infatti, dalla prima all'ultima riga, questo libro è autentico e reale, nel senso che vi si ritrovano intatti il timbro e il ritmo della narrazione tipici di questo attore.

E per chi, come me, è nato e cresciuto a Roma, la storia assumerà subito un sapore di verità in più: la parlata, lo spirito della città, e soprattutto della sua periferia più povera e disperata, sono riprodotti con fedeltà assoluta, con rigore da filologo, da etnoantropologo, così come è resa con assoluto e dolente realismo la bruttezza quasi dolorosa di quel che resta delle campagne subito intorno a Roma, di quelle rive spelacchiate e arse di rifiuti del Tevere dove tra canneti e ciuffi di erbe selvatiche si arrugginiscono carcasse di motorini rubati e lavatrici e si coprono di muffe e ragnatele sanitari abbandonati e poltrone sfondate.

Nessuna freddezza, però, nell'operazione. Nessun senso di compiaciuta artificiosità, anzi.
Baliani riesce nella difficile alchimia di costruire una storia unica, irripetibile, straordinariamente caratterizzata e splendidamente inserita in un contesto storico e geografico particolare e al tempo stesso rende questa storia un mito che qualunque lettore può sentire suo.

Siamo stati tutti bambini, e dunque più o meno ostaggi delle prevaricazioni degli adulti, della loro violenza o indifferenza, ammutoliti dall'impotenza e dall'ignoranza della vita, ma anche estatici visitatori di mondi magici e incantati popolati di esseri fatati alleati del Bene o del Male e sovrani assoluti di regni solo nostri, magari anche solo per una stagione, o per una notte, unici e prescelti interpreti e decodificatori di quel linguaggio misterioso e segreto parlato dalla natura che a volte, dal suo mutismo, affida proprio a noi messaggi che parlano di redenzione, salvezza, iniziazione.

(Marco Baliani è prima di tutto un attore, l'esponente più rappresentativo, insieme a Marco Paolini, del cosiddetto teatro di parola o di narrazione.

L'unico suo spettacolo che ho visto, Tracce, non prevede alcuna scenografia. C'è solo una sedia sul palco, illuminata da un faretto. Su quella sedia Baliani si siede all'inizio dello spettacolo e lì rimane, per più di due ore, senza interruzione. A parlare, a raccontare storie, miti, favole, a recitare poesie, a improvvisare, anche, ché il suo Tracce è uno spettacolo sempre diverso, che cambia a seconda della serata, del pubblico, dell'umore suo e dell'atmosfera che respira in sala.

Un teatro vivo, il suo, e reale, anche quando racconta le fiabe dell'infanzia, quelle degli orchi e delle vecchie streghe che vivono nel bosco, e permeato di grande tenerezza, a tratti, e anche di rigore, di malinconia e di umorismo.

Baliani è empatico con il pubblico, gli è vicino, lo coinvolge, lo ammalia, ma con rispetto, con garbo. Non fa il piacione, non ammicca, non strizza l'occhio a conquistare un consenso facile e un po' drogato che, subito dopo, lascia in chi lo ha accordato la sgradevole sensazione di essersi lasciato andare in modo sconveniente.

Uscita da quelle due ore e passa di spettacolo, ricordo di aver avuto la testa e il cuore ribollenti di pensieri, riflessioni, immagini; seduta nel buio del taxi mi ripassavo nella mente una lunga lista di libri e musica da trovare, leggere, ascoltare, in preda a un'estatica, feroce e gioiosa esaltazione. Baliani infatti è generoso: offre spunti a migliaia, lancia esche, apre prospettive nuove, inedite, annoda fili, tesse trame, crea connessioni, mostra disegni, percorsi, condivide.

Nei tempi squallidi e piccini in cui ci tocca vivere adesso, una serata così riconcilia con la vita e con il mondo, e restituisce allo spettatore riconoscente la speranza in ciò che ancora può essere una persona: un essere pensante, intelligente, ma soprattutto sensibile. Alla realtà che lo circonda, certo, ma soprattutto alla realtà interiore, sua e degli altri, cui cerca di tributare il rispetto che le è dovuto.)






Marco Baliani, Nel regno di Acilia, Rizzoli 2004.